Tempi di Reazione 2018. Una cronaca e un discorso sull’improvvisazione
di Igor Vazzaz, Anna Solinas, Andrea Balestri, Sara Casini, Elena Modena
Noi, che siamo arlecchini, ci aggiriamo per teatri e spazi, festival e rassegne, perlopiù alla ricerca di buffet ben nutriti (per nutrir noi stessi), cogliendo così l’occasione di veder qualcosa, e farci sopra una qualche pensata.
Avviene di trovarsi nella piana di Lucca, dalle parti di Porcari, ove Roberto Castello ha gettato gli ormeggi e stabilito, dopo un certo contenuto nomadismo, le sue creature, SPAM! e ALDES.
Oggetto della sosta porcarese: seguire la rassegna “Tempi di reazione”.
Titolo gustoso, sfidante, verrebbe da dire a imitazione dell’inglese, ma pure scientemente equivoco: reazionaria è, in effetti, l’epoca in cui s’emana un decreto sicurezza che grida vendetta (per non dir di tutto il resto), ma è chiaro come l’iniziativa in questione ideata da Castello miri ad altro, ponendosi la questione di fare un punto e porre una serie di riflessioni a proposito di quella parte di performance contemporanea che si occupa, più o meno latamente, di improvvisazione.
Il format era composto da cinque serate, con la proposta di mescolare inquadramento teorico e pratica scenica, proponendo un interessante spettro, ovviamente non esaustivo, della pratica estemporanea: pensieri e parole, poi musica, corpi, altre parole, a costituire un’occasione davvero preziosa quanto a scopi e proposta spettacolare.
Cinque serate che si legano alle prime due edizioni, ormai distanti nel tempo, della manifestazione, nel 2008 e nel 2009, testimonianza di un interesse rispetto al tema che non nasce certo ieri e che rappresenta, a vari livelli, un nucleo di riflessione e pratica artistica molto caro a Castello.
Cinque serate aperte da un momento ristoratore: un buffet per accogliere gli spettatori, fare in qualche modo “gruppo”, inebriandoli quanto basta. A seguire, un’introduzione ragionata (ogni sera una diversa “Conversazione sul presente”), per poi passare a due performance d’improvvisazione, intervallate da un ulteriore rinfresco.
Cerimoniere, nelle prime due circostanze, il medesimo Roberto Castello, le cui prolusioni sono servite a inquadrare il fenomeno, cercando di definirlo in maniera non approssimativa o, tanto meno, equivoca.
Il punto è che c’è improvvisazione e improvvisazione, ed è necessario, prima di inoltrarsi nel discorso, chiarire cosa s’intenda con tale vocabolo tanto apparentemente chiaro quanto, in realtà, sfuggente.
Nella vulgata, quando si parla di improvvisazione, ci si riferisce quasi sempre a una pratica espressiva in cui il performer si relaziona a una struttura entro cui muoversi, scegliendo via via soluzioni che egli, come autore, già padroneggia, di cui è già in possesso. Questo è quanto accade ad esempio nell’improvvisazione calcolata dei comici dell’Arte (non a caso, gli zibaldoni di ogni attore raccoglievano lazzi e soluzioni da studiare e mandare a memoria); ma anche, in modo assai simile, nell’improvvisazione musicale di matrice blues, valida per tutti i generi da esso contaminati (in pratica, tutta la musica leggera): in questo caso, la sequenza armonica di un brano, unitamente alla sua struttura ritmica, fa da “ambiente” pronto ad accogliere l’esecuzione del solista.
In entrambe le circostanze, si tratta di un’attività che richiede preparazione, molta pratica, oltre a una certa predisposizione; il grado di invenzione o efficacia è, comunque, un risvolto della destrezza, dell’abilità, cui possono sommarsi o affiancarsi (pensiamo a molti bluesmen) considerazioni legate all’intensità e all’espressività.
Quando, invece, si parla di improvvisazione contemporanea si indica qualcosa che, scientemente, oblitera, rifiuta e “supera” una struttura espressiva precedente, cercando d’istituire, nel proprio compiersi, delle nuove norme, un suo peculiare funzionamento. Non si tratta cioè di dimostrare un’abilità, una bravura, un “rispetto” delle attese o di una specifica sintassi performativa, quanto, piuttosto, di essere, essere nell’istante, in quel momento, elidendo del tutto quello che è stato indicato (da Romano Gasparotti la sera del 7 dicembre) come pensiero riflesso, ossia l’implicito – e a ben vedere pure ordinario – riversaggio del pensiero nell’azione che viene compiuta. Non, quindi, l’attore che riferisce (Carmelo Bene viene sempre, malgré soi, in ausilio su queste cose), che re-cita, cita nuovamente, un testo, bensì un performer che dice e che parla nell’istante. E, allo stesso modo, il musicista che non ripeta una parte “a monte”, già scritta, ma liberi la propria estemporaneità.
Difficile, a pensarci bene: perché la struttura è qualcosa di connaturato alla nostra cultura. Tutto, verrebbe da dire, è struttura: linguistica, sonora, logica, narrativa, costruttiva (e “costrittiva”). La struttura è quella dimensione che viene addirittura “cercata” dall’occhio dello spettatore, quale ancoraggio spesso avvertito come necessario al fine di un orientamento che permetta la comprensione. Tutte declinazioni, lo vediamo nel momento in cui scriviamo, del pensiero.
Al contempo, è perfettamente logico che la forma espressiva “vocata”, ancor più della musica, a quella che definiremo “improvvisazione contemporanea”, risulti essere la danza, per il semplice fatto che la sua materia è, propriamente, il corpo, il gesto, qualcosa di organicamente caduco e sfuggente a qualsiasi notazione grafica. Senza voler appesantire troppo il discorso, ci pare, così, perfettamente coerente l’interesse che un artista come Castello manifesta sia nella presente occasione sia per tutto ciò che è prima e oltre la parola, attraverso il blog «93% – Materiali per una politica non verbale» (su cui questo articolo viene ripubblicato, Ndr).
Dalle molte, e interessantissime, considerazioni scaturite in questa peculiarissima rassegna, potremmo dire d’aver ricavato una minima, forse non inessenziale, ipotesi di riflessione: l’improvvisazione non è una pratica, bensì uno stato. Parlando con alcuni artisti che si sono esibiti (notevoli sono state le pur poche battute scambiate con Giselda Ranieri, danzatrice ALDES che apprezziamo da tempo), l’impressione è che la reale dimensione dell’impro sia nel “modo di essere” in cui riesce a calarsi l’artista al momento dell’esibizione. Non tanto, dunque, qualcosa che necessiti di un’analisi del risultato, come esecuzione di un piano prestabilito e che può, a seconda degli accadimenti, sortire un esito più o meno buono, ma l’espressione di un vero e proprio esserci, in questo senso unico e irripetibile, oltre (nel senso di superare, ma pure “fare a meno di”) l’intelligenza, la bravura, la compiutezza. Improvvisazione quindi come diverso rapporto con il tempo (in tal senso, il nome della rassegna ci appare nella sua giustezza) e, dunque, con la riflessione, intesa come pensiero riflesso; il tutto, inserito in una cornice tanto più labile quanto permesso da una forma espressiva data, ancorché assolutamente estensibile.
La questione della cornice ci pare, in effetti, fondamentale. Esistono, in realtà, molte occasioni in cui l’uomo occidentale contemporaneo s’approssima sino a oltrepassare il confine marcato dal pensiero riflesso: si pensi alle decisioni istantanee intraprese dagli sportivi, in particolar modo quelli che si cimentano nei giochi (dal tennis al basket, dal calcio all’hockey, ma potremmo includere anche le attività motoristiche). Determinati tipi di atleti hanno a che fare con situazioni certo immaginabili, e quindi alle quali si possono applicare tecniche, ma non esattamente prevedibili e che richiedono, in determinate condizioni, una rapidità di scelta che, molto probabilmente, esclude il pensiero riflesso: parte delle neuroscienze si sta occupando anche di questo ambito, e la cosa non ci sorprende. Va detto, però, che la “genialità estemporanea” dello sportivo è calata in una struttura infinitamente più stringente, e solida, rispetto a quella del performer contemporaneo, il quale, se proprio non può dire di farne completamente a meno, si trova coinvolto in un gioco le cui regole sono senz’altro assai più sfumate, e in continua – seppur evidentemente parziale – ridefinizione.
Questi ci paiono alcuni degli spunti emersi dalle presentazioni, dalle performance e dalle conversazioni che ne sono scaturite. Di seguito, vi forniamo una serie di sguardi sulle esibizioni succedutesi nella Sala Cestaro di SPAM!.
Mercoledì 5 dicembre
Eugenio Sanna (musica) e Andrea Cosentino (parola)
L’incontro tra Eugenio Sanna e Andrea Cosentino si configura subito sul piano di un serrato botta e risposta incentrato sulla comicità. Tra la caratteristica loquacità dell’attore e le sconclusionate fantasticherie del chitarrista/istrione, la performance procede andante attraverso lo sfoggio di copricapi improbabili e di altrettanti (e altrettanto improbabili) personaggi. Storie, allitterazioni, cacofonie: è certamente il suono a fare da padrone in questo duetto che strappa agli astanti più di una risata, in un fantasioso declinarsi di verbalità e onomatopee, in bilico costante fra astrazione e narrazione.
Eugenio Sanna (musica) ed Enrico Castellani (parola)
Nel secondo appuntamento della serata, gli spensierati sproloqui di Sanna diventano ossessione per il povero Enrico Castellani. Nonostante gli accordi presi in precedenza – rivelati dal teatrante nel corso del duetto, che genera così uno degli apici di ilarità dell’intera serata: «Avevamo detto che io parlavo e lei suonava la chitarra» –, il chitarrista non si accontenta infatti del ruolo di accompagnatore strumentale: eccentrico e surreale, prosegue la variopinta rassegna di personaggi, soliloqui e oggetti già intrapresa con Cosentino, mentre il più giovane ma ben più compassato attore tenta invano di percorrere la strada della riflessione condivisa, aspirando a un controllo della scena che non arriverà mai. Nell’irrimediabile, ed esilarante, conflitto fra i due si determina così la cifra stessa dell’improvvisato incontro/scontro: pubblico in delirio.
Giovedì 6 dicembre
John De Leo (canto) e Stefano Questorio (danza)
Gutturale, percussivo, concentrato sul proprio e solo sul proprio beat, il vocalismo del romagnolo De Leo permea e segna tutta la prima parte della performance, al punto che la netta impressione è di un’iniziale “gerarchia”. Questorio si fa marionetta, ora compulsiva ora più ironica, quasi piegandosi alle linee reiterate dal cantante, che sfrutta le possibilità di replica elettronica di una loop station collegata al microfono. Col passare dei minuti, i due artisti sembrano meglio armonizzarsi tra loro, dando vita a una serie di momenti improntati a una fluidità magmatica.
John De Leo (canto) e Giselda Ranieri (danza)
Impossibile, come avvenuto per la sera precedente, non rapportare la seconda performance alla prima, notando similitudini e distanze: se il discorso vocale di De Leo, almeno nei primi minuti, non sembra variare come impostazione, la fisicità di Ranieri, estremamente femminea, suadente, impone subito un altro passo all’impro, che risulta più equilibrata nella relazione tra voce e corporeità. Si ha l’idea che lo stesso rapporto di forza, per così dire, tra le due forme abbinate sia frutto e risultato dell’improvvisazione, uno dei suoi esiti. Così, i venti minuti su cui è “settata” – per sua ammissione – la danzatrice acquisiscono una loro definizione compiuta: vari sono i momenti in cui emerge il suo peculiare ed efficacissimo humour, frammisti a quadri di autentica intensità, cui contribuisce sensibilmente il controllo delle luci – anch’esso, ovviamente, improvvisato. Il pubblico dimostra di apprezzare non poco.
Venerdì 7 dicembre
Edoardo Ricci (musica) e Teri Weikel (danza)
Sera tre: continuano le sperimentazioni tra i linguaggi della musica e della danza, mentre per il momento è ancora la parola a restare in panchina. Sul palco principiano il fiatista Edoardo Ricci e la danzatrice Teri Weikel: un dialogo di muta complicità che procede con leggerezza, in forme morbide ma dall’appuntita punteggiatura ritmica; un intessere di trame musicali che riecheggiano, per timbro e spirito, la tradizione improvvisativa del jazz, bagaglio condiviso da entrambi gli artisti come fondante del proprio percorso. La sagoma androgina e longilinea di Weikel si sposta con agilità in un ambiente dai toni soffusi, ed è delicata, assai umana e “democratica” l’intesa che si instaura nel vivace contrappunto fra corpo e musica.
Edoardo Ricci (musica) e Paola Bianchi (danza)
Con una nuova performer, l’atmosfera cambia radicalmente divenendo quasi ultraterrena: si perde il rapporto squisitamente umano che contraddistingueva i due protagonisti del precedente intervento. Mentre la musica si rarefà e incupisce in una fusione di suoni gutturali, creando un tappeto sonoro vario ma assai meno brioso, il corpo polimorfo della danzatrice si fa centro indiscusso della scena. Non più persona ma creatura priva di volto, Bianchi subisce una metamorfosi e va esplorando le possibilità − e le impossibilità − della nuova forma che la abita, in uno spazio spesso claustrofobico dove il dinamismo emerge dalla tensione muscolare piuttosto che dal lavoro prossemico. Un’indagine, ipnotica e senz’acme, sulla trasformazione e sul limite di un corpo alterato, mutilato, che procede giocando fra i silenzi.
Sabato 8 dicembre
Julyen Hamilton (musica e danza)
Dopo il consueto buffet e la conversazione con il filosofo Alessandro Bertinetto, è l’ora dell’improvvisazione di Julyen Hamilton, che aveva fatto capolino – di fatto iniziando la sua performance – già durante la mini-conferenza, credendo che fosse il proprio turno. Entra in scena con il telefono in mano, si prepara, racconta e sembra prendere tempo in una premessa che è, in sé, già improvvisazione e teatro. Ha da un lato un pianoforte, ma non lo userà, la sua performance è basata sulla danza, il racconto e l’interazione con il pubblico. La parola è espressa mentre viene sapientemente messa nello spazio, l’artista la lancia e poi la segue, costruendo il senso nel solco di questo percorso. Per quanto centrali, il filo conduttore della performance non passa dalle parole – il più delle volte inglesi –, ma dalla capacità di avere il controllo su tutti i livelli e tutti i codici adoperati in questo volo pindarico dell’immaginazione.
Julyen Hamilton (pianoforte), Alessandra Moretti e Mariano Nieddu (danza)
Nella seconda sezione, Hamilton resta “in disparte” al pianoforte, lasciando la scena al duetto coreografico di Alessandra Moretti e Mariano Nieddu. Note rade e ponderate, accordi rarefatti e un ritmo sospeso fanno da complemento sonoro per i corpi dei due danzatori: ognuno mette in campo una propria idea, gradualmente unendosi in un discorso coreutico più uniforme, per poi allontanarsi di nuovo, inscenando, di fatto, un incontro, con le sue pose e i suoi giochetti. Moretti è ammiccante e irretisce Nieddu nel corteggiamento, salvo poi sottrarsi: non senza scene comiche, la performance volge al termine repentinamente, forse pure troppo presto, ricordandoci come anche la regia-luci rimanga un essenziale elemento di dialogo nella pratica improvvisativa.
Domenica 9 dicembre
Il buffet sfoggia delle splendide lasagne, quasi uno smacco all’arlecchino celiaco, ottimamente risarcito con del riso condito del medesimo sugo di carne.
E anche l’ultima serata inizia all’insegna di convivialità e distensione.
La “conversazione sul presente” si consuma ora tra Alessandro Bertinetto e Stefano Zenni: tema portante, la musica strumentale nelle forme del jazz. Zenni parte da una riflessione sul rapporto con lo strumento, che è insieme estensione del musicista e oggetto caratterizzato da limiti da tenere in considerazione. Fornendo esempi illustri, il musicologo mette in luce la natura dell’improvvisazione come utilizzo spesso inconsapevole di pattern preacquisiti.
Charlotte Zerbey e Alessandro Certini (danza)
La conversazione lascia il posto a Charlotte Zerbey e Alessandro Certini, danzatori sul silenzio. La performance inizia su una vena pacatamente umoristica, ma il suo svolgimento è sobrio, moderato: le forme che si creano hanno linee morbide, i due si relazionano in un quieto confronto/scontro. Questa elegante fluidità si apre inaspettatamente al dialogo con l’estraneo, quando dal pubblico emerge una voce che rompe la solennità del silenzio: «Where are my glasses? I can’t find my glasses! Do you have my glasses?». Un eccentrico anziano invade la scena, e Certini, senza farsi sconcertare, gli cede i suoi occhiali, tra le risate sbigottite e pertanto sommesse del pubblico. Solo più tardi, scopriremo che l’inatteso disturbatore è, in realtà, il violoncellista Tristan Honsinger, tra i protagonisti della performance successiva.
Eugenio Sanna (chitarra), Tristan Honsinger (violoncello), Edoardo Ricci (fiati)
I tre cominciano a suonare prima ancora che il pubblico rientri in sala, dopo la consueta pausa tra le esibizioni. Ciascuno sembra improvvisare autonomamente: la scena è dominata dalla straripante espressività del violoncellista, che all’improvvisazione strumentale accosta quella verbale e più complessivamente fisica. Sanna diviene l’interlocutore di Honsinger a livello vocale, in uno sconclusionato grammelot che accompagna il timbro spesso disturbante della chitarra. Ricci, invece, apparentemente più neutro, improvvisa linee melodiche che ben si sposano con la sonorità del violoncello.
Considerazioni (mai) finali
È ben evidente come un discorso sull’improvvisazione sia, di necessità, intriso di paradosso, giacché afferisce a una dimensione che per assioma supera, o si pone l’obiettivo di farlo, la dialettica tra pensiero e azione, immaginando altre possibilità di agire, così come una diversa relazione dell’atto con il tempo. E nella memoria non si può non rammentare, fosse anche per mera assonanza concettuale, la teorizzazione che Carmelo Bene proponeva circa l’atto e la sua differenza con l’azione: l’attore che sta nell’atto, dimentico del “testo a monte” (elemento da sempre contestato dall’artista salentino, pur nella perpetrazione di un teatro che, comunque, ai testi a monte ammiccava), agisce in un “non tempo” che somiglia a quello descritto più volte durante gli incontri cui abbiamo assistito. E si ripropone, così, l’idea di improvvisazione come stato, una specie di condizione mistica che, dunque, necessita di peculiarissimo allenamento: non un training gestuale che istituisca una sintassi (ossia una nuova struttura), una sintassi definita (ossia una ennesima struttura), bensì una sorta di intima, personalissima disciplina che consenta di entrare nella condizione ideale per “fare ciò che si è in quel momento”, ed “essere ciò che si fa”. Viene in mente il Nietzsche di Sull’utilità e il danno della storia per la vita, là dove, riprendendo Eraclito, afferma come la riflessione uccida l’azione e come sia invidiabile la condizione dell’animale, «attaccato al piuolo dell’istante, e perciò né triste né tediato».
Al contempo, nel momento in cui riflettiamo e scorgiamo quanto l’improvvisazione sia qualcosa di strettamente connesso a una dimensione pre-verbale (quindi forse primigenia e per ciò interessantissima) dell’uomo, noi, che siamo gente di parola, non possiamo evitare di pensare come la vita umana si debba, necessariamente, alimentare anche di memoria, e dunque di parole, logos, racconto, in un’inesauribile e ineluttabile dialettica.
Per quanto della struttura si possa voler fare a meno, è nello stesso sguardo da spettatore che vige, impera un istinto ristrutturante, la “necessità” di ricondurre quello di cui si fruisce, se non a un discorso fatto e finito, quantomeno a un senso da cogliere. Ed è quello che noi, che siamo arlecchini, abbiamo provato a fare sinora, unendo gli sguardi di tutta la variopinta e scalcagnatissima truppa.
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N.B. Questo pezzo è già uscito su Losguardodiarlecchino.it e viene qui riproposto con alcune modifiche.
Igor Vazzaz e LSDA
da Lo sguardo di Arlecchino, elettrorivista (a)periodica di ciarlatanerie teatrali – http://www.losguardodiarlecchino.it/redazione