Tutti ne uscimmo vincitori. Improvvisazione tra contemporaneità e amarcord
di Gabriele Rizza
L’amico Roberto Castello ci ha invitato a formulare qualcosa sul concetto di “improvvisazione”. Improvvisazione. Ovvero: un concetto, un’idea? Un pensiero? Uno slancio emotivo o una pratica creativa? Una tentazione? Una perplessità? Una pausa? L’anagrafe ci permette di spuntare qualche titolo di merito “improvvisativo”, vuoi sul versante più squisitamente artistico che su quello più prosaicamente organizzativo. Il riferimento è storico e affrontato in prima persona. Diciamo che può essere, per quel che può valere, una testimonianza.
Settembre 1979, Firenze, Stadio Comunale. Arriva Patti Smith. Il primo mega concerto rock negli stadi d’Italia. Lo organizzò Radio Centofiori, la radio dei figicciotti. I giovani comunisti. Roba vecchia, storica, appunto. Calarono in settantamila da tutta Italia. Sacchi a pelo e fumo libero. Ne avevamo previsti massimo la metà. Dovemmo “improvvisare”. Ci riuscimmo.
1980, Firenze, Teatro di Rifredi, Festival della Disgregazione. Lo mise in piedi il sodalizio poetico Incongrua Attesa. Disgregazione, Attesa, Incongruità. Mai nomi furono più dispersivi. E fu il trionfo dell’Improvvisazione. E del gioco. Io c’ero su quelle barricate (non solo metaforiche). In varie vesti, e a vario titolo. Un testimone? Un addetto ai lavori? Un protagonista? Forse. Altri tempi. Certo. La voglia di rinnovamento trovava sponda nella sensibilità degli assessorati alla cultura. Fu facile “improvvisare” (ossia delineare in fretta, senza troppi scrupoli e senza bandi) eventi complessi o semplici occasioni di divertimento intrattenimento (possibilmente intelligente, ma anche fatuo andava bene) nelle piazze e nei quartieri. Fu la moltiplicazione dei piani.
Il meccanismo funzionò. Baciato dalla poesia, madre e sigillo di tutte ambizioni culturali, fuoruscita dalle nicchie polverose e fattasi veicolo popolare di conoscenza e innalzamento. Evviva il gesto poetico, il massimo della creatività libera e partecipata. Cosa chiedere di più alla fenomenologia dell’improvvisazione? Siamo tutti poeti, siamo tutti pronti a credere alla poesia. Ai suoi guru. Santoni. Ciarlatani. Lanciato (e certificato) da Castel Porziano, il festival di poesia fu una costante di quella stagione. Elaborando un ritmo sfrenato della spettacolarizzazione facile, immediata, disinibita nel quale tutti ci calammo: artisti, operatori culturali, attori, performer, musicisti, danzatori. Chissà, forse anche qualche “vero” poeta. Novelliere, affabulatore, mimo, fine dicitore. Tutti improvvisammo. Tutti ci esaltammo. Tutti ne uscimmo vincitori. Con la patente al collo. Il bello era che non solo noi ci credevamo. Restando all’ombra di Palazzo Vecchio, le due puntate primi anni Ottanta della Poesia in Piazza, kermesse mandata in scena nel salotto buono della città, sotto la torre di Arnolfo e la Loggia dei Lanzi, mai vista tanta partecipazione, tanto entusiasmo, tanto affetto. Per la poesia…
In ogni caso valeva una buona dose di faccia tosta. Di coraggio nobile e guascone, di preparazione ideale, di spessore indisciplinato, di incoerenza ideologica. Trattandosi alla fine di una generazione che a vario titolo aveva flirtato con le componenti del ’68: politiche, sentimentali, operative, culturali, economiche e via fantasticando. Fu improvvisazione lanciare slogan e percorrere le piazze innalzando pugni e cartelli? Fu improvvisazione coltivare utopie e masticare teorie vagamente orecchiate, modaiole e fumose? Fu improvvisazione scoprirsi protagonisti di un processo che la storia aveva individuato, nostro malgrado, come cesura e ferita? Nel corso degli anni a venire, domande di questo tipo hanno attraversato il corpo pensante di intellettuali, reduci, fiancheggiatori, avversari e compagni di viaggio. Ciascuno a suo modo ha dato risposte (e continua a farlo) “improvvisando” sull’accaduto. E, naturalmente, facendo confusione, destrutturando, paludando, nobilitando, rimpiangendo.
L’impulso all’improvvisazione è una componente essenziale dell’istinto di sopravvivenza. Ineludibile da ogni azione e condizionamento. Anche la più organica. Non si tratta di esaltarne il potenziale, di farne zavorra o boa di alleggerimento. Si tratta di stabilire un nesso di oscillazione fra il sensibile acclarato e l’indicibile inespresso. Questo pendolo è l’incunabolo di ogni mossa. Di ogni principio attivo della creatività. Stiamo divagando? Stiamo improvvisando.
Poi, per tornare al tema di partenza, l’invito di Roberto, le serate di SPAM! e i relativi “Tempi di Reazione”, un format sperimentale che legava intrecci vari di atti e parole, per una architettura dinamica che spandeva profumi di contaminazioni, senza pregiudizi o invadenti ambizioni, dovremmo pur dire qualcosa di sensato. La lettura che se ne volle trarre era una versione contemporanea, una congiunzione con l’oggi: nel senso di stabilire, semmai fosse possibile, una equazione alchemica, un equilibrio dissonante ma non fuorviante con la dispersione massiccia dei giorni nostri. Ora, tutto quel poco che abbiamo visto (SPAM! è un covo, bisogna saperlo e la notte d’inverno è spesso buia, senza luna e senza stelle, arrivarci è devozione) ci è parso moderato cantabile, una partitura spiegazzata, modulata. Spiegata e vissuta. Adorabile mix. La conversazione jazzata tra Alessandro Bertinetto e Stefano Zenni illuminava panoramiche di convergenze – gli esempi non mancano – fra strumento ed esecutore, l’utilizzo dell’uno al servizio dell’altro e viceversa per creare dinamismi eccentrici e irrequieti (inediti perché dettati dal momento o dettati dal momento perché inediti?). Le successive esibizioni erano la prova provata di quanto quelle convergenze fossero esclusive e creative. Irripetibili: perché eccentriche e irrequiete. Virtualmente sentite e fisicamente vissute. Niente astrazione. Tutta concretezza. Ecco, la concretezza ci sembra l’emersione di “una” verità che, artisticamente, sa improvvisare. La delicata concretezza di Charlotte Zerbey e Alessandro Certini, immersa nel silenzio dello spazio e nello spazio del respiro, linee di contatto perse e dimenticate, perse e ritrovate, affinità elettive da consumare con ironica gioia e fiducioso stupore. Fluidità, flessuosità, familiarità. C’era eleganza, luminosità, leggerezza. C’era complicità. Morbidezza. Senso della costruzione, del dialogo, dell’avvenenza. E c’era la scoperta, quanto improvvisata chissà, del gioco e del mettersi in gioco. Quando l’estraneità si palesa e bisogna lasciare il campo, o provare a conviverci. Quando Tristan Honsinger al violoncello, Edoardo Ricci ai fiati e Eugenio Sanna alla chitarra dichiarano il loro temperamento espressivo e la loro febbre immaginifica, la musica è un passaggio di testimone, un’alternanza scuola indisciplina, un concertato inesauribile di alterazioni e modulazioni, una fonte di scomuniche ed epifanie.
C’è dell’inquietudine a SPAM!. Se alla fine improvvisazione rima con impreparazione, approssimazione, indefinizione, intercettazione, ben venga. Che sia quella giovanilistico-performativa dei “poeti” che fecero la festa immaginando l’impossibile. Che sia quella artistico-creativa di Zerbey, Certini, Honsinger, Ricci, Sanna che immaginano la festa facendo l’impossibile.
Gabriele Rizza
Giornalista, scrive su il manifesto e Il Tirreno. Collabora con Left e altre riviste più vari fogli di settore. Fa parte della giuria del Premio Ubu e del Sindacato Nazionale Critici Cinematografici. Cura la Sezione Cinema del Maggio Musicale Fiorentino. Attualmente ricopre la carica di direttore artistico del Premio Fiesole ai Maestri del Cinema.