Dalla pelle alle immagini

di Valeria Vannucci

ph Nicola Tanzini

Il video è un medium per raccontare la danza. Ma se la danza, di per sé, è un medium fra uno strato (o stato) interiore e uno esteriore del corpo umano performante, cosa racconta o tace il mezzo video rispetto all’espressione del gesto?
L’Enciclopedia Treccani online riporta la seguente definizione per il termine “videodanza”: «Forma intermediale per antonomasia […] strumento per la documentazione, trasmissione e diffusione della cultura della danza». Detto ciò, aleggia ancora un senso di mistero attorno a tale termine, alle sue specifiche funzioni e finalità, soprattutto rispetto alle capacità artistico-creative del mezzo video. Fondendo due linguaggi, medium o forme d’arte, si crea una stratificazione di codici su livelli differenti che, se rendono le definizioni più complesse, in molti casi raggiungono una forza d’impatto che si origina propriamente da tale unione. Perciò questa forma di comunicazione non può seguire i criteri di analisi propri della danza dal vivo in quanto, cambiando le modalità e creando “altro”, si trasforma anche lo sguardo su di essa. «L’incontro col mezzo determina nuove condizioni creative al coreografo, ma anche inaspettati condizionamenti e limiti», precisa lo storico della danza Alessandro Pontremoli: novità che partono propriamente dalla presenza stessa del corpo e della danza.
E dunque la danza, attraverso il video, che tipo di danza racconta? Che tipo di corpo comunica o s-comunica? Oltre a possedere un’insita ambiguità nella sua denominazione, che va a indicare una varietà di forme differenti, la comunicazione può avvenire nella totale assenza del corpo e da un’azione coreografica frutto del lavoro di camera e montaggio, mettendo in correlazione i contenuti.
«La videodanza non è una cosa unica, è un insieme di cose. Bisogna operare ogni volta le giuste distinzioni. Posso far danzare un corpo col montaggio, anche un corpo non-umano», sottolinea la studiosa Francesca Magnini: far danzare un corpo anche quando non c’è movimento e anche quando non c’è nemmeno il corpo. Partendo da tale punto di vista, si rivaluta il concetto per il quale la presenza del corpo e del movimento fanno nascere la danza, mostrando l’attività performativa del montaggio e dunque trasferendo la genesi della comunicazione. Un nuovo strumento che comunica o cela e che possiede proprietà creative: una «arte corporale-tecnologica tipica di quell’ibridazione di scienze, arte, vita naturalmente contemporanea», come definisce la critica Elisa Vaccarino. Per le sue stesse proprietà la videodanza, nella volontà degli artisti, non può agire a prescindere dal suo scopo finale, ossia dal canale in cui è inserita e nei confronti degli utenti cui è destinata. Sembrerebbe dunque uno strumento “non censurabile”: d’altra parte la censura potrebbe avvenire quando è necessario porre l’attenzione ai fruitori, in virtù dell’ampiezza del canale di comunicazione.

Un altro tipo di censura, inversa, avviene sui corpi, soprattutto in ambito commerciale: non un “celare” ma un “mostrare” esasperato, un’esposizione estrema del corpo, che forse parte dall’immaginario stesso della danza. Si potrebbe dire che, nello stesso ambito, ciò avvenga per una precisa volontà di distogliere l’attenzione dell’utente da altri contenuti o da differenti associazioni: ovvero un’implicita scelta del non comunicare altro se non il corpo, di mostrare un mondo solo corpo. Un esempio, uno dei tanti che si potrebbero fare eppure piuttosto calzante, di video in cui, pur essendoci esclusivamente “corpo”, è presente anche una connessa volontà di comunicare molto altro, è Il mio grido, lavoro di Vito Alfarano realizzato nel 2010 con i detenuti del carcere di Rovigo. I corpi gridano, senza dire una parola: esposti dalla videocamera, nella totale impossibilità di comunicare, in un bianco accecante, questi corpi e il montaggio-azione trasmettono irrimediabilmente tutte le sensazioni e i concetti connessi al corpo mortificato. Il risultato è dirompente, inscindibile dalla dinamica del montaggio video, un linguaggio specifico che trova nella videodanza la sua espressione. Gesti semplici, sguardi e dettagli sul corpo che, a differenza di una performance dal vivo, amplificano il loro significato solo in quanto racchiusi in tale medium.
«Attraverso un altro canale, il video trasmette le informazioni creative che sorgono dal pensiero coreografico» puntualizza la coreografa, performer e studiosa Letizia Gioia Monda. In tal senso la videodanza s’inserisce nello scontro o convergenza dialettica fra i concetti di essere e/o apparire, dove la danza dal vivo dovrebbe coincidere con l’Essere mentre il video con l’Apparire. Attraverso tale medium, difatti, possono nascere molteplici risultati: da un’aderenza più o meno idonea all’idea poetica di partenza, fino a una totale distorsione e allontanamento dall’evento reale. Vengono così alla luce prodotti video che arricchiscono performance di per sé vuote; o altri che, al contrario, non riescono a seguire l’idea poetica e a rendergli giustizia attraverso tale mezzo. Un’opera di videodanza nasce non dalla pedissequa aderenza fra evento coreografico e ripresa video, con una conseguente traduzione, ma da un lavoro sinergico con il coreografo che, ripercorrendo le tappe del suo percorso creativo (o creandolo propriamente col videomaker), porta alla scoperta di un nuovo processo, da traslare attraverso il mezzo video. In tal modo ognuna delle parti ha la propria identità e, allo stesso tempo, un’identità d’insieme, creando qualcosa di ancora nuovo: non danza, non video, ma un’opera di videodanza. Così non solo avviene il rispetto di entrambe le parti, ma anche lo scioglimento del conflitto fra essere e apparire, almeno in questa sede.

(hanno collaborato Margherita Dellantonio e Doralice Pezzola)

 

 

Bibliografia minima di riferimento

Bordini S., Arte elettronica. Video, installazioni, web art, computer art, Giunti Editore, Firenze, 2004.
Pontremoli A., La danza: storia, teoria, estetica nel Novecento, Laterza, Roma-Bari 2004.
Vaccarino E., La musa dello schermo freddo. Videodanza, computer , robot, Costa&Nolan, Genova 1996.
Vaccarino E., Video e danza, in Franco Prono, Andrea Balzona, (a cura di), La nuova scena elettronica. Il video e la ricerca teatrale in Italia, Rosenberg&Sellier, Torino 1994.

Sitografia e Videografia minime

Enciclopedia Treccani online: http://www.treccani.it/enciclopedia/
Il mio grido, V. Alfarano, Italia, 2010: https://www.youtube.com/watch?v=Qpl1AfhQb3w&t=352s

 

 

Valeria Vannucci

Valeria Vannucci (Roma, 1993), studentessa di 25 anni appassionata di danza, teatro e arti performative, sia nell’aspetto pratico che di ricerca e teoria. Laureata in Storia della danza con una tesi intitolata Le metamorfosi di Vaslav Nižinskij: tra persona e personaggi, relatori Professor Vito Di Bernardi e Professoressa Annamaria Corea. Corso di laurea in Arti e Scienze dello Spettacolo (Triennale) presso “Università degli Studi La Sapienza” di Roma, nella sessione di luglio 2016. Studentessa presso il corso di laurea magistrale in Teatro, Cinema, Danza e Arti Digitali presso “Università degli Studi La Sapienza” di Roma. Profonda conoscenza della tecnica classica accademica, di tecniche e metodi relativi alla danza contemporanea. Ha svolto uno stage extracurricolare presso il Balletto di Roma nel 2016.