Censure e negazioni: quando la comunicazione è negata

di Oliviero Ponte di Pino

ph Nicola Tanzini

Da qualche mese appunto sul sito Censure 101 https://censure101.wordpress.com i casi di censura, e più in generale di condizionamento del discorso pubblico e dei limiti della libertà d’espressione. Il panorama è insieme esilarante e terribile.
Si poteva pensare che, dopo le dittature criminali e i massacri del Novecento i valori della libertà e della tolleranza, sostenuti da una visione illuministica accompagna dalla fiducia nei meccanismi della democrazia, avrebbero posto fine alla ottusa brutalità del potere. Non è successo.
Un primo caso difficile da gestire riguarda proprio la memoria del “secolo breve”. Come possiamo e dobbiamo ricordare “correttamente” l’Olocausto? I negazionisti hanno diritto di parola o devono essere condannati in tribunale? Che rapporto c’è tra l’antisemitismo e il giudizio sulle attuali politiche dello Stato d’Israele?
Su questi temi la sensibilità varia molto da paese a paese. In generale a essere messo in discussione è il nostro rapporto con la storia e la memoria, e con la nostra identità. In Italia la memoria del fascismo (e dunque quella del 25 aprile) resta divisiva e discussa. La storia riverbera sul presente. Il dispositivo di gestione del discorso pubblico sull’antisemitismo dovrebbe potersi applicare per esempio anche al razzismo e allo hate speech: libertà totale ai neonazisti e agli haters oppure vincoli rigidi e galera per odiatori e negazionisti?
Viene ancora censurato chi tenta di infrangere i soliti vecchi tabù: sesso, violenza religione, morte, cibo… Si insulta chi dice le parolacce. Si cerca di zittire chi mette in imbarazzo il potere e tira fuori gli scheletri dall’armadio, ma anche chi rivela i nuovi poteri delle mafie. Questi censori mafiosi evitano la burocrazia giudiziaria e preferiscono il “fai da te”: ogni anno intimidiscono, aggrediscono, uccidono centinaia di giornalisti in tutto il mondo. Perché c’è una censura che passa per le aule di tribunale, ma c’è anche la giustizia sommaria di mafiosi e fascisti… magari con l’aiuto di qualche servizio segreto.
La censura non si ferma qui. Basta una rapida panoramica per scoprire che oggi si censura di tutto e per i motivi più vari. In Turkmenistan si multano le auto nere perché portano sfortuna. A Jesi si spengono le luminarie di Natale perché sono troppo sexy. Il Bafometto, raffinato volume di Pierre Klossowski pubblicato da Adelphi, per Facebook è un “articolo di potenziamento sessuale”. Sempre su Facebook la squadra di basket della Comense non può reclutare atlete under 14. In Inghilterra agli esami per avvocato le ragazze non possono indossare i tacchi a spillo mentre ai ragazzi sono sconsigliate le calze colorate. Una volta una bella panza veniva apprezzata come indizio di prosperità, oggi una moderna forma di riprovazione sociale, sempre più aggressiva e diffusa, vittimizza i grassi: estinto “l’omo del panza” oggi contro la discriminazione protestano cantanti liriche oversize e modelle curvy.
Si censura tutto ma anche il contrario di tutto. In Cina il social network Weibo ha tentato di mettere al bando la parola “gay” (senza peraltro riuscirci), invece negli Usa chi è sospettato di omofobia viene immediatamente additato alla pubblica riprovazione. In Polonia si attacca la copertina di un settimanale, dove tre giovani donne dicono “L’aborto è ok” e negli USA vengono cristianamente “giustiziati” medici che praticano l’aborto, invece a Roma il Comune oscura i manifesti pro-vita, in verità piuttosto raccapriccianti e volutamente provocatori. Sempre in Italia si cercano di limitare i danni della propaganda anti-vaccini e nel frattempo in Pakistan due donne che sostenevano l’opportunità di vaccinarsi sono state orribilmente trucidate.
La geografia dell’interdetto è assai variabile nello spazio e nel tempo, ma oggi la censura è in ripresa e fa tendenza. L’Index on Censorship, che misura la libertà d’espressione in vari paesi – una classifica dove l’Italia è diverse posizioni dietro il Ghana – segnala un preoccupante arretramento in molti paesi, dove per motivi politici o religiosi il controllo sull’informazione e sull’arte sta diventando sempre più rigido. In primo piano ci sono le dittature, ma si fanno passi indietro anche in quelle che Predrag Matvejevic definiva “democrature”, ovvero le democrazie autoritarie. La musulmana Turchia di Erdogan si accanisce sistematicamente contro le arti, i libri, la storia, l’università, i giornali, le radio, le tv, le canzonette, Shakespeare, Cristoforo Colombo… Ma anche la cristiana Ungheria di Orbàn esulta per aver cacciato la fondazione del miliardario Soros…
Si censura con ambiguità. I writers vengono spesso osteggiati e criminalizzati perché imbruttiscono il mondo con i loro scarabocchi, ma le loro opere ispirano dispendiose campagne pubblicitarie e vengono addirittura staccate dai muri come antichi affreschi per esporle nei musei: assai istruttiva la polemica scatenata a Bologna da Blu.
È difficile dire se oggi l’umanità stia percorrendo la via del progresso civile, ma non appena un nuovo medium compare all’orizzonte ecco che subito arriva l’ombra della censura. I videogames e i manga sono oggetto di complesse strategie censorie, per evitare di dare scandalo o cattive abitudini ai bambini, perché i giapponesi sono meno puritani di europei e americani: si scatenano feroci polemiche sulle versioni più o meno originali e una caccia alle patch che ripristinano le scene omesse. Il nuovo canale Netflix incontra difficoltà a seconda del contesto politico in cui trasmette: in Brasile perché racconta l’impeachment di Lula, in Spagna perché usa le proteste degli indipendentisti catalani per pubblicizzare Black Mirror, in Turchia perché fa sfilare i manifestanti nelle strade e nelle piazze di Istanbul mentre cantano Bella ciao.
La nuova frontiera della censura 2.0 sono i filtri e gli algoritmi dei social network, che hanno l’obiettivo di minimizzare i contenuti sessuali, il razzismo, i molestatori, i troll, lo hate speech, la violenza, e insomma tutto quello che risulta “politicamente scorretto”. I risultati finora non sono molto convincenti, anche se numericamente impressionanti. Solo nell’ultimo trimestre del 2017 Youtube ha rimosso oltre 8 milioni di video, all’80% caduti nella rete degli algoritmi che smascherano i “contenuti inadeguati” (ai primi di aprile 2017 una youtuber, esasperata dalle censure, ha fatto irruzione nella sede della società sparando all’impazzata e si è suicidata). Facebook si accanisce sistematicamente contro le opere di maestri come Courbet, Delacroix, Canova, ma anche contro la statuetta della Venere di Willendorf perché le considera pornografia, ma lo stesso fa l’azienda dei trasporti pubblici londinesi con Schiele. Facebook ha vietato persino una foto dei prigionieri di Auschwitz perché “contiene nudità”. Anche i filtri contro il razzismo possono risultare problematici. In Italia da Facebook sono scomparsi i signori “Negri”, perché il termine viene ritenuto offensivo: forse dovrebbero ribattezzarsi “Neri”, “Di Colore” o “Diversamente Bianchi”. Quando si cerca “orango” o “scimpanzé”, Google Photo non dà alcun risultato, perché molte immagini di persone di colore sono state associati da utenti razzisti a questi termini con un tag.
Oltre alle censure palesi (spesso attivate da altri utenti particolarmente sensibili o motivati), nei social e nei motori di ricerca operano anche filtri occulti. Nei filtri palesi il post o il link vengono semplicemente cancellati e l’autore avvertito, “segnalato” o bannato. Lo shadow ban funziona in maniera più sottile. Nella propria bacheca ciascuno di noi non vede tutti i post pubblicati da tutti gli utenti (sarebbero milioni all’ora) e nemmeno tutti quelli dei nostri amici, ma solo una selezione sulla base di un algoritmo che dovrebbe essere oggettivo, o per lo meno uguale per tutti. Nei motori di ricerca si crea una gerarchia: la maggior parte degli utenti clicca solo sui primissimi risultati della prima pagina, quello che c’è dopo diventa di fatto invisibile. Se un utente risulta per qualche motivo “molesto”, basta rendere meno visibili i suoi post, penalizzandolo con modifiche ad hoc dell’algoritmo. I maggiori social e motori di ricerca sono stati accusati di praticare lo shadow ban contro pagine troppo “di destra” o troppo “di sinistra”, a prescindere dal gradimento degli utenti. Naturalmente anche il gradimento degli utenti può essere manipolato con campagne di gruppi organizzati o dall’uso di bot.
Al di là dello loro ridicola ottusità, i filtri e gli algoritmi dei social network hanno un difetto: tendono ad amplificare i pregiudizi di chi li progetta e quelli di chi usa le varie piattaforme (compresi haters e razzisti). Finché si tratta di una bacheca di annunci commerciali, che vuole solo creare un’atmosfera gradevole che favorisca gli acquisti e soddisfi gli inserzionisti, l’effetto è circoscritto. Ma oggi questi canali hanno assunto un fondamentale ruolo politico, come dimostrano lo scandalo di Cambridge Analytica e le polemiche sulle fake news dopo l’elezione di Trump.
Quei filtri non sono stati progettati per ridurre il rischio delle fake news. Tra l’altro, se le bufale hanno successo e vengono così spesso condivise, evidentemente divertono e piacciono, come sanno da sempre gli editori dei fogli scandalistici. Tanto La caccia alla notizia acchiappa-clic non è certo una novità, ma può essere incentivata: oggi diverse testate pagano (o premiano) i giornalisti sulla base dei clic e delle visualizzazioni degli articoli.
Affidare a soggetti come i social e ai loro filtri e algoritmi il controllo dell’informazione, con l’accordo dei governi, significa solo andare verso un controllo non democratico dell’informazione e della sfera pubblica. Con l’apparente obiettivo di bloccare le bufale (ovvero le notizie diffuse dagli oppositori) diversi regimi totalitari e diverse democrature stanno di fatto mettendo il bavaglio alla libertà d’espressione.
Per fortuna c’è però un aspetto cruciale dell’informazione che i censori, che siano umani o robot, faticano a cogliere: l’ironia. Ci sono artisti come Emir Shiro o Giulia Marsico che aggirano e sbeffeggiano i filtri dei social con arditi fotomontaggi. I cittadini della Mosca di Putin, esasperati dai mucchi di neve che ostruivano le strade, hanno cominciato a scriverci sopra il nome dell’oppositore Navalny, facendo apparire d’incanto gli spazzaneve-censori. Per raccontare la gita a Pechino del leader nordcoreano Kim Jung-Un, visto che Weibo bloccava l’informazione, gli internauti cinesi hanno iniziato a scrivere “grasso sul treno”: tutti hanno capito di che si trattasse, tranne i filtri.

 

Oliviero Ponte di Pino

Oliviero Ponte Di Pino è stato direttore editoriale per Garzanti Libri dal 2001 al 2012. Lavora nell’editoria dal 1978. Negli stessi anni scrive per giornali e riviste, crea e viene ospitato da vari programmi RAI per radio e televisione. Tra le sue pubblicazioni «Il nuovo teatro italiano 1975-1988. La ricerca dei gruppi: materiali e documenti» (1988), «Enciclopedia pratica del comico» (1995), «Chi non legge questo libro è un imbecille. Una storia universale della stupidità in 565 citazioni» (1999), e «I mestieri del libro» (2008), dove è stata pubblicata la prima stesura di «Bookfair English». Nel 1999 approda online col suo sito olivieropdp.it e nel 2001 fonda il sito www.ateatro.org. Nel 2010 è stato insignito con il premio Master in professione editoria.