La toccante esperienza del comunicare
di Romano Gasparotti
I paradossi della comunicazione odierna
Per la nostra cultura comunicare è una sorta di parola/feticcio. Le facoltà universitarie di Scienze della comunicazione sono affollate da moltitudini di studenti, i quali si aspettano chissà quale futuro. Ma che cosa intende la nostra cultura corrente per comunicare? Se consultiamo un testo di scienza della comunicazione, la risposta è questa: comunicare=scambiare/trasmettere un certo segnale o messaggio da un emittente ad un ricevente, attraverso un certo canale. La comunicazione, dunque, funziona come una macchina che trasmette segnali da un punto all’altro dello spazio. Una sorta di nastro trasportatore – o di pipeline (come sosteneva M. McLuhan) – di oggetti significativi, cioè di messaggi. Il modello-base di ogni canale comunicativo, per la nostra cultura, è quello linguistico. Anche quando le teorie standard della comunicazione si riferiscono alla cosiddetta “comunicazione non verbale”, tendono a interpretarla e comprenderla secondo il modello e gli schemi di quella verbale. Come se ogni forma di comunicazione funzionasse quale semplice variante della comunicazione verbale, a conferma di ciò che certa filosofia novecentesca e postnovecentesca ha definito logocentrismo. In ogni caso, i meccanismi strumentali della comunicazione movimentano e spostano i loro oggetti significativi tra soggetti che sono e devono restare ben separati. Come quando si vuole far passare una pallina da una mano all’altra: le due mani non potrebbero mai aderire, toccandosi e nemmeno avvicinarsi troppo, perché ciò renderebbe impossibile il passaggio di qualsiasi oggetto da una parte all’altra… Ecco il primo dei paradossi che caratterizzano l’odierna cultura dominante della comunicazione. Essa è una macchina che funziona solo se i comunicanti sono separati e lontani l’uno dall’altro. Qualsiasi contatto diretto, qualsiasi toccarsi, la farebbe inceppare e grippare. La sua è, letteralmente, telecomunicazione: trasmissione di segnali a distanza, mantenendo e riproducendo l’insuperabile separazione tra i comunicanti. Dovendo ottimizzare lo scambio delle informazioni, questa macchina deve ridurre al minimo il livello di confusione e di aleatorietà (in termini tecnici di “entropia informazionale”) dei suoi messaggi, i quali devono consistere in oggetti determinatamente ricchi di significato, stabili e certi, il cui modello segnico di riferimento non può essere la parola orale nel suo carattere volatile, effimero, sfuggente e per nulla “ridondante” – Verba volant sed scripta manent, dicevano i Latini – bensì la parola scritta. Solo la parola scritta, nella sua tendenziale permanenza e incancellabilità, fa sì che gli oggetti da essa indicati siano scambiabili nella loro radicata, inequivocabile e ridondante identità costituita. A ben vedere, il segno linguistico comunicativamente funziona come un perfetto equivalente del denaro, avendo la moneta la stessa duplicità – corpo materiale/valore attribuito – del segno linguistico in quanto significante+significato. Economicamente è il valore astratto attribuito alla moneta ciò che consente la scambiabilità, a livello universale, di qualsiasi merce, così come è l’elemento altrettanto astratto del significato, che consente la scambiabilità dei messaggi comunicativi grazie ai segni linguistici. Le parole, infatti, non funzionano da segni in quanto puri significanti, ossia a partire dal corpo fisico-sensibile che esse prima di tutto sono. Bensì solo in virtù di quei valori ideali, sovrasensibili e astratti, che, in ogni sistema linguistico-alfabetico, devono essere associati ai significanti, affinché le parole possano indicare qualcos’altro: appunto degli oggetti. Ma che cosa sono i significati? Non fenomeni sensibili, come i significanti, bensì concetti, idee o nozioni universali, che si riferiscono indirettamente a un certo fenomeno sensibile, restando su tutt’altro piano. Per comunicare efficacemente, mantenendo in piena efficienza la macchina della telecomunicazione, è necessario, dunque, oltrepassare e trascendere ogni corpo sensibile, che, in quanto tale, deve fungere solo da mero supporto strumentale della comunicazione stessa. E siamo così arrivati al secondo paradosso dell’odierno pensiero unico della comunicazione. Essa è una macchina ipermetafisica, o meglio metafisico-teologica, la quale, per alimentarsi, ha bisogno di trascendenza. Può funzionare solo mettendo a regime il meccanismo del transfert verso una dimensione astrattamente sovrasensibile e, appunto, meta-fisica, tutta incentrata sul potere del significato. Come se la macchina delle telecomunicazioni non funzionasse senza Dio, senza un Dio trascendente, il quale ha il volto, nel contempo, del dio denaro e del Sommo Ente delle teologie monoteistiche, che già Nietzsche indicò come simbolo di ogni cattiva metafisica. La domanda che, a questo punto, non può essere elusa è la seguente: è proprio questo ciò che accade e si fa ogniqualvolta comunichiamo? Oppure la macchinazione che abbiamo descritto (attraverso i testi di scienza delle comunicazioni) rappresenta il più potente ostacolo nei confronti di ogni profondo e autentico comunicare?
Mettersi in comune al di fuori di ogni logica identitaria
All’inizio del ‘900, Walter Benjamin aveva evidenziato come la comunicazione incentrata sul “linguaggio nominale degli uomini” fosse un dispositivo tipicamente capitalistico-borghese rispondente ad un certo modo di concepire ed enfatizzare l’essenziale linguisticità dell’animale umano. Separandola e isolandola dal contesto vitale della comunicazione universale, che, invece, si affida alla anominale “lingua delle cose mute”: quella della volpe, della montagna e della lampada (per indicare la totalità delle forme di vita extra-umana). Originariamente, secondo Benjamin, il comunicare è sempre un comunicarsi dal carattere effusivo: un offrire se stessi e un mettersi in comune, al di là di ogni separante lontananza e senza bisogno di scambiare alcuna merce. La lampada si comunica irradiando la sua luce e compenetrandola con tutto ciò che essa illumina. L’acqua del mare si comunica nei ritmi del suo espandersi allagando e ritrarsi, lasciando asciugare. I mammiferi si comunicano odorandosi, toccandosi, leccandosi e intridendo dei loro umori l’ambiente circostante…Il problema non è, però, quello di regredire brutalmente verso forme di ingenuo animalismo. Bensì, semmai, quello di riscoprire e risvegliare l’originaria potenza comunicativa (nel senso della potenza del comunicarsi) insita anche in ciò che distingue l’uomo rispetto a qualsiasi altro essere vivente. Prendiamo, ad esempio, gli elementi primi della nostra attività di pensiero: le idee e i concetti. Solo una loro astratta quanto unilaterale interpretazione metafisica li rende solo i mattoni di una costruzione architettonica artificiosa e trascendente. Gli stessi raffinatissimi pensatori medievali erano soliti distinguere, a proposito delle idee, il loro potere di riferimento oggettivo (ovvero il fatto che ogni idea rinvii alla cosa di cui essa è appunto idea) dalla loro valenza intrinsecamente formale, data dal fatto che ogni idea, in sé, è essa stessa, innanzitutto, qualcosa, ossia una cosa che viene ad esistere. Un’idea è sì la rappresentazione mentale di qualcos’altro, ma, insieme e in primo luogo, è una res. È una cosa che accade e si mostra, nel suo orizzonte, in relazione a tutte le altre cose del mondo. E quindi esercita sino in fondo la sua influenza, che la rende capace di suscitare affezioni e affetti semplicemente per contatto, come aveva pensato, nel ‘600, il “maledetto” filosofo Spinoza. Sotto questo punto di vista, le idee e i concetti non si sottraggono in alcun modo alle dinamiche degli incontri, che coinvolgono la totalità degli esistenti. Un’idea, nel momento in cui si affaccia alla mente, proveniente da chissà dove, può cambiare completamente lo stato dei miei affetti, ovvero del mio umore, rendendolo più triste o più gioioso. E non da sola, mai da sola, bensì in relazione a tutti gli altri esistenti con i quali interagisce in un certo ambiente. E ogni esistente, come sosteneva lo stoicismo antico, è corpo vitale che, nell’incontro con altri corpi, provoca, per contatto, azioni e reazioni reciproche, le quali modificano incessantemente lo stato e le condizioni dei corpi che si incontrano, come sarà confermato, a livello scientifico, nel ‘900, dal principio di indeterminazione di Heisenberg. Lo stesso vale per i segni linguistici, cioè per le parole-che-significano. Non si tratta di una questione quantitativa di percentuali di significato, che passano e vengono recepite in un certo atto comunicativo interpersonale. È la parola significativa, anche al massimo della sua significatività – e non malgrado essa – che sviluppa un’azione espansivamente influente, la quale trasforma tutto ciò che tocca e quindi il mondo in toto, in maniera tale che nulla potrà essere più com’era prima, com’era prima del risuonare di quella parola o di quella frase. Le ricerche di John Austin, pubblicate nel libro Come fare cose con le parole, hanno posto in evidenza come qualsiasi enunciato linguistico – compresi quelli dal carattere più constativo (ossia tale da rispecchiare un determinato stato di cose pre-esistente) – nell’atto in cui viene pronunciato assume, prima di tutto, una valenza performativa, ovvero fa essere qualcosa che prima non c’era e, quindi, fa mondo, trasformando la totalità delle relazioni in cui il mondo di volta in volta consiste. E allora, come l’ostacolo per la comunicazione non sta nelle idee in quanto tali, così non sta nemmeno nel significato che viene attribuito alle parole delle nostre lingue. Perché idee e parole, quali accadimenti e manifestazioni della vita vivente, nel loro uscire dal nascondimento, cioè nel loro accadere, possono toccare, accarezzare, urtare, colpire, incidere, intridere, lacerare, massaggiare, secondo differenti gradi di intensità.
Il problema semmai sta nel fatto che le teorie standard della telecomunicazione funzionano solo a partire dalla chirurgica rimozione della fondamentale valenza toccante delle idee e delle parole, affinché esse siano solo ed esclusivamente puri segni-di (ovvero segni che rinviano a qualcos’altro, indicando altro) trasmissibili meccanicamente da un punto all’altro di uno spazio astratto.
In principio era la conversazione
Con questa decisiva rimozione, da parte dell’ingegneria delle telecomunicazioni, viene ad essere bonificata e sterilizzata anche la valenza prettamente conversazionale del parlare, a favore di un dire strumentale esclusivamente vocato a produrre certi determinati scopi, in maniera da essere valutato e giudicato sulla base del raggiungimento degli stessi. In una conversazione del tutto disinteressata, invece, le parole – che significano quello che significano, non è questo il problema – agiscono in primo luogo per tenere avvinti magneticamente gli uni agli altri i conversanti e, nel contempo, alimentare l’imprevedibile fuoco della conversazione stessa, in modo che si spenga il più tardi possibile. Al di là di qualsiasi altro scopo e di qualsiasi strumentale funzionalità. Ogni autentica conversazione, inoltre, non isola i conversanti in alcun sottomondo chiuso e privato, proprio perché lascia dispiegare appieno l’influente potere toccante e coinvolgente, cioè comunicativo, delle parole e delle idee portate dalle parole. L’esperienza del toccare, infatti, oltre che annullare ogni separante lontananza, disintegra e dissolve qualsiasi concezione identitaria della soggettività e insieme svuota ogni oggettività costituita. Perché ogni toccare è, sempre insieme e simultaneamente, anche un essere toccati, in cui resta aperta e si rinnova continuamente la soglia che ci espone all’indeterminabile Fuori. Nell’esperienza assoluta del toccarsi non c’è alcun interno separato o separabile dall’esterno e nemmeno alcun fuori opposto al dentro. Perché, in tale condizione integralmente porosa, il fuori permea l’esterno di ogni limite, per entrare, fuoriuscire e rientrare di nuovo, in un continuum circolare, attraverso infinite possibili soglie. Secondo pulsazioni ritmiche e non meccanismi. Senza scambio di oggetti. E senza soggetti. Bensì nell’imprevedibile avvicendarsi di incontri, che fanno mondo, trasformandolo secondo metamorfosi possibili.
Il pensiero più profondamente comunicante abita questa dimensione. Non per niente già Platone distingueva il filosofo da qualsiasi “mercenario” sofista, nella misura in cui il parlare del filosofo è un’azione, che ha cura di non rimuovere la dimensione toccante e conversazionale delle idee e delle parole. Il filosofo – è scritto nella Lettera VII – si serve sino in fondo delle parole e di tutti i principali elementi del conoscere, non accontentandosi, però, dei loro meri significati e valori informativi e conoscitivi, ma continuando a batterne, sfregarne, pestarne il corpo reattivo, “come in un mortaio”. Con pazienza, serenità d’animo e agio e senza aspettarsi nulla, ma pronto a cogliere l’eventuale sprigionarsi degli effetti pratici di tale attività. E, nel dialogo Teeteto, ancora Platone scrive che mentre i sofisti e tutti i professionisti della parola sono costretti a economizzare i loro discorsi, i quali sono solo mezzi che devono necessariamente produrre e ottenere un certo scopo, il discorrere dei filosofi, invece, si sviluppa e si intreccia, al di là di ogni vincolo e costrizione esteriori, in modo erratico, andando incontro a digressioni, pause, intensificazioni, improvvise svolte, cadute e subitanei voli. Perché, per tali individui demoniaci, comunicare è agire in comune, assaporando e godendo serenamente e disinteressatamente gli effetti e gli affetti di tali azioni. Per questo, conclude Platone, mentre i professionisti della comunicazione appaiono persone sicure e risolute, che danno sempre l’impressione di sapere bene dove devono andare, i filosofi, invece, appaiono incerti, svagati, dall’incedere addirittura incespicante e facile alla caduta. In poche parole: pronti a danzare. È da qui che la nostra eventuale conversazione, appena avviata, forse potrebbe continuare…
Bibliografia minima
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Platone, Teeteto
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F. Ermini, R. Gasparotti, J. L. Nancy, N. Sala Grau, M. Zanardi, Sulla danza, Cronopio, Napoli 2017
Romano Gasparotti
Romano Gasparotti ha sviluppato la sua ricerca filosofica ormai più che trentennale sul terreno dell’indagine sulle forme del fare e sull’esperienza estetica. Ha fondato il movimento artistico transdisciplinare Diastema. Per un’arte festiva. È consulente della Fondazione Morra/Museo Hermann Nitsch di Napoli. Ha fatto parte del gruppo fondatore della rivista di filosofia “Paradosso” e della rivista di architettura e arte “Anfione e Zeto” con la quale continua a collaborare. È redattore del Giornale Critico di Storia delle Idee, collaboratore della rivista di ricerca letteraria Anterem e membro del Comitato scientifico di ICONE – Centro Europeo di Ricerca di Storia e Teoria dell’Immagine sorto presso l’Università S. Raffaele di Milano. Ha curato e continua a curare con Massimo Donà l’opera postuma e inedita del filosofo italiano Andrea Emo. È stato docente di Filosofia Teoretica e Ontologia dell’Arte presso l’Università S. Raffaele di Milano e insegna Fenomenologia dell’Immagine e Critica della comunicazione presso l’Accademia di Belle Arti di Brera di Milano. Collabora con artisti visivi, musicisti e coreografi sia in qualità di critico e curatore, sia in qualità di performer. Tra le sue principali pubblicazioni: Le forme del fare (con M. Cacciari e M. Donà), Liguori, Napoli 1987; Movimento e sostanza, Guerini, Milano 1995; Socrates y Platon, Akal, Madrid 1996; I miti della globalizzazione, Dedalo, Bari 2003; Figurazioni del possibile. Sul contemporaneo tra arte e filosofia, Cronopio, Napoli 2007; Filosofia dell’eros. L’uomo, l’animale erotico, Bollati Boringhieri, Torino 2007; L’inganno di Proteo. La filosofia come arte delle Muse, Moretti&Vitali, Bergamo 2010; Il quadro invisibile, Cronopio, Napoli 2015; L’opera oltre l’oggetto. Sull’esperienza simbolica dell’evento artistico, Moretti&Vitali, Bergamo 2015; Shozo Shimamoto e l’esperienza artistica quale esperienza poetica del pensare, edizione italo-anglo-giapponese, Edizioni Morra, Napoli 2017; Sulla danza (con J.L.Nancy, F.Ermini, N.Sala Grau, M.Zanardi), Cronopio, Napoli 2017. Ha altresì curato il volume In contrattempo. La pittura malgrado tutto, Mimesis, Milano 2007. È stato autore, regista e coprotagonista degli eventi teatrali Imeros e Di un pensare all’opera (realizzato su musiche di Andrea Rossi Andrea e coreografie di Valentina Moar).