Sono cose che fanno più paura se non se ne parla

di Flavia Dalila D’Amico

Bit, il burattino virtuale animato da Giacomo Verde, creato con l’artista Stefano Roveda nel 1999 (progetto Euclide)

5 Maggio 2019

«Carissima Dalila, Mi spiace averti fatto piangere ma si vede che era necessario 😉 Sono comunque contento che questo spettacolo ti dia forza. Capisco la tua paura della morte e delle malattie. Ma sono cose che fanno più paura se non se ne parla. Almeno per me è stato così. È uno strano spettacolo per me. Più di altre volte non ho il controllo degli effetti che può fare a chi lo vede. Certo è diverso per chi mi conosce personalmente…».

In Piccolo diario dei malanni, l’ultimo spettacolo dell’artista Giacomo Verde prodotto da ALDES, il vissuto personale, il lutto, la povertà, la malattia vengono consegnati allo spettatore così come si presentano nella vita, e proprio questa spiazzante immediatezza li carica di un assoluto distillato da qualsivoglia retorica. Questa potente prossimità tra la memoria personale dell’artista e la messa in scena, mi ha impedito di discernere tra gli strumenti della critica e quelli degli affetti. Non sono riuscita a scrivere di quello spettacolo e non lo farò neanche adesso. Vorrei piuttosto riflettere sul residuo di realtà nelle opere di Giacomo Verde, che ripiegato in se stesso ci avvolge e ci risputa in un nuovo spazio relazionale. Tutta la poetica di Giacomo Verde è attraversata da un vaso comunicante e trasformativo tra l’arte e la vita. Non c’entra nulla il reality trend, né la bio fiction. Nelle performance, nei video, nelle installazioni e negli spettacoli dell’artista, non c’è nessun tentativo di spettacolarizzare la quotidianità o di estetizzare il reale. Semmai il movimento opposto: guardare la vita con le lenti del processo artistico, scovare il bello negli aspetti più abitudinari, estrarre dallo scorrere dei giorni conflitti irriducibili e renderli universali sul palco, con semplicità e ironia, senza tentare di risolvere il tragico, perché come scrive Salvatore Iaconesi, molto amico di Giacomo Verde, «la tragedia non ha soluzione». Alla base di questo continuo mescolarsi tra la vita e l’arte c’è sempre il tentativo di magnificare la relazione: tra performer-narratore e spettatore, tra tecnologia e carne, tra realtà e immaginario, tra politica ed estetica.

Uno dei progetti che ben sintetizza questo discorso è Bit, il burattino virtuale animato da Verde. Bit fa parte del progetto “Euclide” creato con l’artista Stefano Roveda nel 1999. Lo scopo del progetto è cercare di umanizzare la tecnologia e renderla relazionale. Bit infatti è animato da Giacomo Verde attraverso un cyberglove, un guanto che utilizza una tecnologia a sensori in grado di trasformare i movimenti delle mani e delle dita in dati digitali in tempo reale. Il sistema dunque bypassa l’intermediazione di un’interfaccia da computer e utilizza i gesti corporei, la loro casualità, imperfezione e capacità di cambiare continuamente, per dare vita al burattino. Il piano del reale, ovvero lo spazio-tempo fisico in cui l’azione si svolge e la componente tecnica di cui si costituisce, viene masticato poeticamente dall’artista e restituito come principio costruttivo.

Sempre attento alle potenzialità specifiche e intime delle tecnologie utilizzate, Giacomo Verde infatti trasforma il linguaggio interattivo alla base del progetto in un codice drammaturgico che modella tanto il rapporto con lo spettatore quanto l’indole del personaggio. Il processo è dichiarato e trasparente: l’ingegnere Antonio Bocola riprogramma il burattino ogni sei mesi e questa continua “rieducazione” caratterizza Bit come un bambino curioso che fa mille domande allo spettatore per conoscersi e conoscere il mondo. Come in molte altre forme di teatro di figura, l’animatore è visibile e il burattino è consapevole della sua presenza. L’intenzione di Giacomo Verde non è quella di affascinare lo spettatore grazie ai “trucchi” della tecnologia, ma al contrario è quella di abolire la distanza tra gioco e illusione, renderlo consapevole del dispositivo, al fine di coinvolgerlo in maniera più “spontanea” nella relazione con Bit. «È molto importante che il pubblico stia attorno al narratore – scrive Giacomo Verde – mi piace immaginare che lo sguardo, la smorfia o l’espressione di uno spettatore possano entrare nel campo percettivo di un altro spettatore posto nella fila di fronte, contribuendo così a dare altri sensi al dipanarsi dei racconti, delle immagini e dei suoni. Ecco che il racconto (e il narratore) tornano ad essere un pretesto per “fare cerchio”, guardarsi negli occhi e interrogarsi sulla propria identità, personale e collettiva, oltre i luoghi comuni della rappresentazione» (1).

A portare avanti la performance è infatti l’abilità del narratore di captare gli umori degli spettatori e stimolare il dialogo con Bit. Non esiste un testo drammatico, né un canovaccio, tutte le esibizioni di Bit si basano sulla totale improvvisazione. Il cuore della performance risiede nell’interazione tra personaggio virtuale e spettatore. Alla base dell’interattività vi è l’azione di un utente o operatore che attiva un processo e innesca un cambiamento in un determinato ambiente (fisico o virtuale). Ecco che Bit, così come ogni avatar virtuale visibile sul nostro computer, non si attiva se non con l’intervento di uno spettatore, ma a differenza di qualsiasi avatar, Bit ha bisogno di un dialogo reale, di domande reali, di persone reali di fronte di lui per raccontarsi. L’interattività per Giacomo Verde non significa interazione tra le persone e la tecnologia, ma interazione tra le persone attraverso la tecnologia. La tecnologia retrocede rispetto al portato esperienziale e fisico dell’artista che la gestisce. Ciò che dell’elemento tecnologico l’artista trattiene è il funzionamento che vi soggiace e che fornisce lo spunto per l’edificazione drammaturgica di ciascuna opera.

Tra le sperimentazioni della Rete ad esempio, Webcam Theatre è un altro progetto che trasforma i caratteri distintivi dello specifico tecnologico utilizzato, il web, in un’occasione di interazione tra le persone. La distanza, l’ubiquità, il tempo di connessione (siamo nel 2002), lo streaming audiovisivo divengono possibilità di incontro e scambio. Connessioni Remote è la performance con cui Giacomo Verde inaugura l’esplorazione poetica delle possibilità performative del web. La performance prende vita mediante una doppia postazione: fisica, presso il Museo Pecci di Prato, e in rete sul sito www.webcamtheatre.org tramite cui l’utente può intervenire in chat. Il cuore di Connessioni Remote è composto dall’esecuzione di dieci piccole video-azioni, ciascuna delle quali esplora una delle possibilità del web: Mondi fantastici; Luce digitale; Il suono di una mano sola; Quodlibet; Pubblicità; Tanti personaggi in cerca di …; Ovunque guardo leggo; Riflessione cib-visiva-er; Il mio corpo si dissolve; Il quarto occhio; Epilogo (ora divento cieco). Tuttavia la struttura della performance non è definita, come in molte delle opere di Giacomo Verde, ma ogni nuova replica contempla l’irruzione dell’imprevisto, dato dall’intervento in sala o via chat dello spettatore.

Oggi l’emergenza dovuta al Covid-19 costringe i teatri a ripensare le proprie programmazioni in rete e riporta i critici a discutere sull’efficacia o meno di trasporre sul web progetti performativi. Nell’affanno di recuperare categorie anacronistiche come “teatro online” o in streaming, ci si dimentica o forse si ignora che nel 2002 Giacomo Verde sperimentava formati concepiti drammaturgicamente per la rete. Performance basate sull’accesso libero di utenti online attraverso l’intervento in chat e la drammatizzazione dei problemi tecnici legati alla comunicazione a distanza come il rumore, l’eco, il disturbo, la scarsa nitidezza della trasmissione di dati, il ritardo, lo scarto tra il corpo del performer e la sua immagine remota.

Ecco allora che il virtuale per Giacomo Verde smette di essere uno spazio altro, accanto o aldilà del reale, come spesso ancora oggi viene concepito. Allo stesso modo il reale si fonde all’immaginario. Non c’è distinzione tra i due piani. C’è un travaso tra i due mondi, uno sporcarsi a vicenda, una commistione complessa che ci forma e che si lascia plasmare dalle nostre visioni. C’è una relazione sostanziale. La stessa che nelle sue opere lega etica ed estetica, politica e tecnologia, arte e vita. La poetica di Giacomo Verde quindi si stabilisce tutta nella relazione, nel continuo richiamo di un qui e ora che è imprescindibile dalla sua persona, dal contesto e dagli spettatori che lo abitano. Non c’è frontalità, non c’è un dentro e fuori, non c’è distanza nelle opere di Giacomo Verde. È tutto prossimo, palpabile, urgente e per questo irripetibile.


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1. Giacomo Verde, Artivismo tecnologico. Scritti e interviste su arte, politica, teatro e tecnologie, BFS Edizioni, Pisa 2007, p. 99

 

 

Flavia Dalila D'Amico

Flavia Dalila D’Amico è una studiosa nel campo delle Arti visive e performative. Attualmente assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Pianificazione, Design e Tecnologia dell’Architettura, Roma La Sapienza e precedentemente presso il Dipartimento di Studi Linguistici e Letterari dell’Università di Padova con una ricerca dal titolo: “Luce e Suono in scena tra patrimonio e innovazione”. Ha ottenuto il titolo di Dottore di Ricerca in Musica e Spettacolo presso l’Università di Roma, La Sapienza con una tesi dal titolo: “Le aporie del corpo eccentrico: Per una riconfigurazione del soggetto in scena”. I suoi studi sono stati pubblicati in differenti riviste come «Arabeschi», «RFS. Rivista di studi di fotografia», «Danza e Ricerca, «Performance Matters», «Elephant & Castle», «Fata Morgana», «Quaderni di donne e ricerca», «Sciami». Dal 2010 fa parte del collettivo artistico Vjit insieme a Francesco Iezzi e Maria Costanza Barberio. Vjit è un progetto interdisciplinare con base a Roma, il cui ambito di sperimentazione ruota attorno all’interazione tra suono, immagine e azione.

https://dlldamico.wixsite.com/vjit