Tempo di avvio 15’’. Connessioni remote, la performance telematica di Giacomo Verde (2001)

di Anna Maria Monteverdi

Giacomo Verde in “Connessione Remota”, 2001

Prima del 2000 accedevi a Internet con un modem attaccato al telefono, la rete aveva una velocità di 56 Kb e prima di caricare l’intera pagina passava parecchio tempo; il costo, poi, era quello di un’interurbana (la chiamata andava al provider di riferimento). Il tipico suono di un modem analogico ti avvisava del contatto: come un segnale lanciato da una navicella spaziale alla base di Houston, quel fischio stridulo, seguito da un tipico rumore bianco come di un canale televisivo mal sintonizzato, ti rendeva connesso.
Nonostante le difficoltà – e la sensazione a ogni collegamento, di stare dentro un romanzo di fantascienza cyberpunk – era chiaro che Internet era la “strada” da esplorare, e Giacomo, che aveva le “antenne” ben sintonizzate alla tecnologia del momento – sempre però concentrato a scardinarla, piuttosto che accoglierla così com’era – intuì che si potesse fare anche teatro in Rete, purché si varcassero limiti e usi consueti. Inizia a farsi sempre più chiara l’idea del network come forma d’arte, come generazione di relazioni sociali connettive che verrà messa in pratica da numerosi artisti e collettivi dell’underground, dell’hacking, e divulgato da teorici, tra cui Antonio Caronia, Derrick de Kerckhov, Carlo Infante, Tatiana Bazzichelli, Arturo di Corinto, Tommaso Tozzi.
E affinché si capisse il valore aggiunto, “sociale” e aggregativo, dell’oper’azione, Giacomo scrisse in modo molto esplicito nel volume Digital performance (curato da Emanuele Quinz nel 2001): «Questi esperimenti mi hanno confermato l’intuizione di poter fare un teatro con/per la Rete tenendo conto del senso di comunità che spesso si attiva in Internet in maniera più convincente di tanti altri luoghi materiali». Verde accolse sin da subito come uno dei principi cardine della sua est’etica, infatti, l’idea hacker (e relativo slogan: Cyber rights now!) che la tecnologia è qualcosa di cui appropriarsi per farne un grimaldello contro il potere, ma prima ancora, pensava alla tecnologia come strumento socializzante, come occasione per fare comunità.
Tutto questo, però, non poteva avvenire prima del 2000 (per l’esattezza prima del 1 gennaio 2000), perché Giacomo aveva compreso che solo con l’ADSL, ovvero con la banda larga oltre la soglia dei 144 kbps, avrebbe avuto senso sbarcare in Internet con i famigerati “scioperi della rete” (il Net strike 214-No cens), con la prima opera di Net Art (qwertyu.net per la rivista Domus) e con la prima assoluta performance telematica (Connessione remota). Così fu.

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Carlo Infante lo chiamò nel 2001 al Museo Pecci per il progetto “Alveare” del Festival Contemporanea insieme ai gruppi riuniti nell’etichetta “Teatri 90”. A tutti loro venne chiesto di presentare dieci minuti dei loro progetti teatrali (i Motus presentarono una acerba versione di Twin rooms) e Giacomo portò una proposta di teatro, il titolo era Connessioni remote.
Ma, come al solito, non era un teatro qualunque. Era un teatro che ti connetteva in rete, e quindi lo avresti fruito al meglio non in presenza, nella sala del Museo dove eravamo accolti, ma da casa. Non era una contraddizione, ma serviva a mettere in luce l’usuale inattività dello spettatore teatrale e del visitatore delle Gallerie d’arte, puntando sull’idea di interattività come pratica di attivismo e partecipazione sociale.
L’ambizioso progetto poteva essere indebolito dalla fragilità della connessione degli utenti, dalle differenti velocità della Rete, dai continui e inevitabili refresh della pagina che fungeva da interfaccia/palcoscenico (l’aggiornamento a intervalli regolari dei dati). Così, Giacomo indossando uno dei primissimi visori della Sony, si inventò la drammaturgia dell’errore tecnologico, quindi il glitch, che oggi imperversa come forma d’arte digitale.

Dai tempo alla rete!
Una volta collegato alla pagina, l’utente poteva chattare, visualizzare i testi e vedere Giacomo che creava alcune brevi azioni performative. A scanso di abbandoni per l’attesa, nella tipica schermata verde da televideo dei primi computer (era nota la sua passione per la “retro tecnologia”), Giacomo scriveva: «Tempo di avvio 15’’», ma anche «Avviare una cosa per volta», istruzione assai utile per non “impallare” la rete. Bisognava attendere, non avere fretta perché si era davanti a un computer ma anche davanti a una scena, e come a teatro, si deve aspettare l’arrivo degli attori.

Connessione Remota

Ma questi attori, come in uno spettacolo futurista di Fortunato Depero, erano bambole, giocattoli, stampe colorate. La palla del figlio Tommaso, che all’epoca non aveva ancora due anni, veniva mossa da Giacomo davanti all’occhione della webcam: azioni non affatto improvvisate perché dove varie prove, aveva capito esattamente a quale velocità muovere gli oggetti e come quel suo movimento arrivasse “di là”, dall’altra parte, negli schermi oltre lo spazio-tempo della rappresentazione fisica. Governando lo scarto tra il corpo del performer e l’immagine remota, tra il ritardo e l’azione Giacomo, da abile cyber-marionettista, manipolava gli oggetti sapendo bene cosa sarebbe rimasto impresso sullo schermo: una scia effetto “Paik con il magnete TV”, un’eco curiosa, un quadro astratto. In questo precoce esempio di telematic performance – madre di tutto quel teatro che viene sperimentato in questi giorni di lockdown – Giacomo aveva ancora una volta precorso i tempi. Spenta la connessione, però, non fece più altri esperimenti di Webcam Teatro.
Questo era l’atteggiamento tipico di Giacomo, che si incuriosiva di una particolare tecnologia, la voleva capire in tutte le sue sfumature, e poi una volta smascherata, la abbandonava per passare a quella seguente. Per DG Hamlein di Renzo Boldrini aveva usato l’animazione in Flash e soprattutto la grafica computerizzata in Asci Art e per imparare il codice imballò il suo ingombrante computer da tavolo in valigia e partì per la Svizzera per andare da Jaromil, il famoso e giovanissimo hacker artist che lo aveva “inventato”. Una volta imparato, fatte delle foto a Natale al figlio in Asci, abbandonò quel sistema per passare a studiare il software open-source Arkaos usato dai Vj per manipolare, creare e mixare video, testi animati allo stesso modo in cui si mixa la musica. Lo utilizzerà la prima volta per i video fondali live per Roberta Biagiarelli (Reportage Chernobyl). Dietro la scelta della tecnologia c’era, ancora una volta, la volontà di cercare una tecnosocialità condivisa. All’epoca Jaromil aveva ideato programmi liberi open-source come FreeJ per applicare effetti e mixaggi a immagini fisse e in movimento in tempo reale e Arkaos offriva la possibilità di una numerosa community di Vj’ng in rete. Era l’epoca di FlxER.net, che favoriva, attraverso piattaforme di file sharing on line, uno scambio continuo di banche dati a disposizione di chi fosse disposto a condividere il proprio patrimonio di immagini e loop.
A questo punto è sempre più chiaro per Giacomo quale dovesse essere la finalità dell’uso della tecnologia in arte:

«Oggi con la diffusione delle tecnologie della “interattività” (dal computer ai lettori CDrom, dai videogames a Internet) ci troviamo di fronte ad un salto cognitivo dove la separazione tra produttore e consumatore, autore e fruitore diventa sempre più labile. Questa è una mutazione difficile da comprendere per chi non ci riflette quotidianamente, ma che comunque influisce sulla vita di tutti. Anche se si pensa di non essere responsabili di come “va il mondo”, se si pensa di essere inattivi e quindi “innocenti”, siamo comunque coinvolti, attraverso una rete di connessioni elettroniche-economiche-emotive, in modo che qualunque sia il nostro comportamento diventiamo un dato rilevabile e connesso a mille altri. È sempre stato così ma ora risulta “tecnologicamente” evidente, e il sentimento di “interazione” responsabile con il mondo si manifesta attraverso un’infinità di scelte individuali che si confrontano e contrastano con un processo opposto di massificazione, di serializzazione produttiva, di spettacolarità tecnologica fine a se stessa, che provocano l’impoverimento espressivo dei linguaggi e delle differenze (anche etnico-culturali), nonché un rischioso “consenso mediatico”. In questo nuovo contesto la separazione tra attore e spettatore va ripensata. È sempre meno possibile immaginare opere efficaci che non siano in grado di far sentire lo spettatore come “necessario” all’evento. Questo non vuol dire fare “animazione teatrale” ma realizzare opere che tengano conto del contesto culturale e antropologico di cui fanno parte sia gli autori che i fruitori. Vuol dire smantellare la torre dell’artista educatore e prometeico per fare in modo che la cosiddetta “ricerca teatrale” non sia un ambito ipocritamente separato e di élite ma una pratica quotidiana in grado di trovare le giuste forme (piuttosto che le nuove forme) di comunicazione per riflettere con la propria comunità di riferimento.»

Così scriveva Verde nel 2003 nella pagina web di Zonegemma, una delle innumerevoli incarnazioni collettive dell’artista.

La sua attitudine Hacker – come amava definire il suo approccio artistico – dipendeva esattamente dalle scelte di vita indirizzate sistematicamente e anarchicamente fuori dagli schemi istituzionali e fuori da ogni protezione economica, la qual cosa lo rendeva libero di esprimere il proprio dissenso attraverso operazioni artistiche che negli anni si sono configurate sempre più in un’ottica di “collettività”. Lo dimostra l’ampia produzione in collaborazione con l’Officina DadaBoom di Alessandro Giannetti e con i suoi membri a partire dal Manifesto R(E)O Dada e dalle numerose performance, installazioni e manifest’azioni avvenute all’interno dell’Officina a Viareggio nel quartiere Varignano. Per questo motivo slogan legati all’Activism e all’artivismo tecnologico come Socializzare saperi tecnologici, Arte come creazione di contesti partecipati non erano per Giacomo etichette identificative d’artista, ma una vera prassi di vita quotidiana, in una fusione totale, ormai assai rara da trovare, di arte-vita. Di una vita trasformata in un ampio e articolato network artistico e umano.

Siamo tornati a guardare oggi, 10 maggio 2020, il sito di Connessioni remote che è ancora on line e sembra quasi che lo spettacolo sia “on”, attivo insomma; in effetti, l’home page che si apre è la schermata originaria del 2001. Clicchiamo e come in un romanzo di William Gibson, appare Giacomo dalla finestrella della chat: Ehi Ehi Ehi mi vedete?

 

 

Anna Maria Monteverdi

Esperta di digital performance e video teatro, Anna Maria Monteverdi è ricercatore RU di Storia del Teatro al Dipartimento di Beni Culturali, Università Statale di Milano; è professore aggregato di Storia della Scenografia. E’ stata coordinatrice della Scuola di Nuove tecnologie dell’Accademia Alma Artis di Pisa, ha insegnato per dieci anni Digital video e Drammaturgia multimediale all’Accademia di Brera e Storia del Teatro e Drammaturgia dei media in varie Accademie e Dams. Ha pubblicato tra gli altri: Le arti multimediali digitali e Storie mandaliche (con A. Balzola, 2005), Nuovi media nuovo teatro (2011), Memoria maschera e macchina nel teatro di Robert Lepage (2017), Leggere uno spettacolo multimediale (2020). Regista videoteatrale ha realizzato vari videodocumentari tra cui Nuovo Teatro in Kosovo (2017, andato in onda su Rai 5 in occasione della giornata mondiale del Teatro), La cura del Teatro (sul regista sloveno Tomi Janezic) proiettato al Festival del cinema europeo di Lecce (2019) e inserito per due volte nella programmazione della Tv nazionale slovena RTSLO. Ha realizzato con Giacomo Verde un documentario su Robert Lepage La faccia nascosta del Teatro (2001). La sua ultima produzione Memoria maschera e macchina nel teatro di Robert Lepage, realizzata con Simone Cannata (maggio 2020) contiene interviste originali al regista canadese e allo scenografo Carl Fillion. Collaboratrice di varie riviste cartacee e on line (Hystrio, Rumor(s)cena, Osservatorio Balcani e Caucaso, Arabeschi) ha fondato le riviste on line Annamonteverdi.it (su digital performance) e Connessioni remote (rivista scientifica UniMi open access sul lavoro artistico di Giacomo Verde) delle quali è direttrice.

https://www.annamonteverdi.it/digital/
https://work.unimi.it/chiedove/cv/anna_monteverdi.pdf