Addio a un amico

di Massimo Marino

In alto da sinistra: Giacomo Verde, Marcella Nonni, Luigi Dadina, Giuseppe Tolo, Marco Martinelli, El Hadji Niang, Mor Awa Niang; in basso da sinistra: Cristina Ventrucci, Mandiaye N’Diaye, Ermanna Montanari, Samantha Alimah Mamudu, Massamba Niang. Il gruppo di Lunga vita all’albero, Torriana, Festival di Santarcangelo, 1990 – ph Marco Caselli Nirmal

Sarà un pianto, questo, perché Giacomo Verde, videomaker e tecno-artista, persona gentile, toscano dalla voce dolce che un po’ ricordava le origini campane, se n’è andato dopo una lunga malattia. L’avevo conosciuto molto prima della svolta tecnologica, ai tempi del teatro di strada, del teatro “popolare”, delle piazze invase dal teatro (Santarcangelo 1978, La città dentro il teatro). Con un gruppo, Le macchine volanti, avevo chiuso le due settimane di ricerche e feste del festival con un lancio di mongolfiere di carta che avevano come propellente il fuoco. Ci avevano poi chiamato in altre situazioni, a costruirle e a tenere laboratori, tra l’apparato festivo e la narrazione di storie. Giacomo lo avevamo conosciuto a Poggibonsi (era da poco morto Giovanni Paolo I, mi sembra), perché si era iscritto a un nostro laboratorio. Faceva il “cantastorie”, scrivendo e improvvisando ottave rime, con Sandro Berti, che poi sarebbe andato nella Banda Osiris. Suonava anche, intonando le sue strofe ironiche, divertenti. 
Ciò avveniva non so quante epoche teatrali fa: la più seguita rivista di teatro del tempo, «Scena», dava molto spazio al recupero delle tradizioni popolari come futuro del teatro. Il mondo popolare, folclorico, veniva riproposto tenendo ben presenti le proiezioni cubo-futuristiche di Majakovskij e quelle biomeccaniche di Mejerchol’d, in una sorta di neo-costruttivismo che si proiettava a desiderare, a immaginare, a provare a costruire per frammenti un mondo nuovo (il ’77 era appena passato e chi non era stato travolto dalla sua furia, con il terrorismo o l’eroina, cercava di rimettere a frutto la sua spinta creativa).

Ricordo in quegli anni, qualche tempo dopo, non saprei quando, dopo il 1980 direi, due giorni passati insieme a Giacomo e ad altri a curiosare nel Teatro delle fonti di Grotowski in un casale toscano, chiusi a lanciare il corpo a seguire ritmi proposti dalle guide, con poi un’uscita a camminare e correre nella campagna, con un’altra guida, a saggiare diversi terreni, differenti sensazioni. Giacomo qui faceva il toscanaccio diffidente, mentre negli occhi si scorgeva, ridente, la voglia di provare tutto, di cercare e immagazzinare, per disegnare una propria peculiarità.

Gli anni passavano, Giacomo riusciva, col mutare dei tempi, ad aggiornarsi sempre, con un piede in un teatro d’immediata comunicativa e un occhio rivolto al futuro. Fece parte della Bandamagnetica, compagnia che portava l’esperienza delle bande musicali del Movimento del ’77 verso l’elettronica e in una furia ironica da happening post-punk, con un occhio ai Blues Brothers. Fu il primo, poi, se non sbaglio, a ideare e realizzare video-racconti (eravamo già nella fase di implosione e frammentazione dei gruppi degli anni Settanta e Ottanta e lui lavorava, mi sembra, da solo): con le mani o con oggettini raccontava una storia, riprendendo l’azione con una videocamera e trasmettendola su un televisore. C’era anche in questo operare qualche residuo delle esperienze degli anni precedenti, il giocare col piccolo e con il grande, con le diverse proporzioni e con i piani sfalsati dei catalani Els Comediants, che avevano riempito con le loro incursioni gli anni del “teatro della festa”, del teatro “neopopolare”. Mettere il mondo in scala, sproporzionarlo e riproporzionarlo, per meglio interpretarlo, per aprire strade all’immaginazione. Narrazione divertita e esplorazione delle tecnologie, perfetta sintesi tra quello che allora si diceva “teatro dei sandali”, o terzo teatro o teatro antropologico, e “teatro delle scarpe da tennis”, impastato di ludicità contaminazioni e sperimentalismi postmoderni.

Giacomo ha sperimentato poi forme e formati di ogni genere, collaborando col Centro di Pontedera e con altri.
Come spesso succede ci eravamo un po’ persi di vista, poi ritrovati. Mi aveva mandato qualche anno fa alcune sue idee, chiedendomi se mi andava di dialogare con lui (forse si ricordava che in lontane epoche avevo anche fatto da drammaturgo). Da tempo non vedevo sue cose. Nulla ho saputo della sua malattia anche se col senno di poi dai suoi lunghi periodi di silenzio qualcosa avrei dovuto immaginare.
Poi nel gennaio di quest’anno mi aveva mandato due progetti che come sempre mescolavano presenza e distanza tecnologica. Mi raccontava di essersi associato alla Factory ALDES di Roberto Castello. Avrebbe voluto realizzare due idee: SettAzioni – tra teatro e tecnoperformance in estate e Solitudine in tempo di sport in autunno-inverno. Qui una parte del programma di Solitudine, che mi ricordava gli anni Ottanta del trio tecno-punk anni Bandamagnetica:

«Solitudine in tempo di sport vuole raccontare, attraverso una specie di musical proto-rap ed azioni concrete, l’ipotetico pomeriggio di un ‘anziano sportivo da divano’ che, saltando dai videogame alle dirette televisive a YouTube, elabora le proprie mitologie agonistiche nella solitudine del suo salotto. La scena è semplice: un divano con un grande schermo alle spalle. Si comincia così per poi popolare lo spazio di cose e materiali scaturiti dalla mente dello ‘sportivo’.
Lo spettacolo è scandito come i tempi di una partita: l’annuncio dell’evento e della sua preparazione; l’entrata in campo dei contendenti; il primo tempo di gioco; l’intervallo; il secondo tempo; i tempi supplementari con finale. Ogni tempo è scandito da un brano musicale con testi rielaborati dalle cronache sportive e declamati contemporaneamente a improbabili e paradossali azioni di allenamento e incitamento al tifo. L’epilogo è affidato all’entrata in campo di un estintore!!! Le musiche e i testi sono la rielaborazione dei materiali utilizzati negli anni Ottanta dal trio Bandamagnetica per il mitico spettacolo Vita in tempo di sport».

Mi chiedeva, come aveva fatto con altri, di aiutarlo a individuare qualche teatro o organizzazione, festival ecc. cui proporlo. 
Oggi, in epoca di Covid-19, il liveness a distanza sarebbe stato suo pane.

Non ho dimenticato, in questo arruffato andare indietro nel tempo, la sua collaborazione col Teatro delle Albe, verso la fine degli anni Ottanta. Mi sembra di ricordarlo in Lunga vita all’albero (1990) scendere nella notte dalla collina di Torriana (Festival di Santarcangelo) suonando la cornamusa. Lui là, in quella storia ambientata tra la resistenza ai francesi in Senegal e la nostra resistenza in Romagna era il Narratore, con un ramo d’albero dietro alla schiena. Ma forse mi sbaglio, sul suonare la cornamusa (ma credo di no), perché era Giordano il pastore zampognaro in Siamo asini o pedanti (1989) e chiudeva lo spettacolo con un lungo, bellissimo monologo di Marco Martinelli ispirato a Giordano Bruno:
«Io, Giordano, pastore zampognaro / vengo dal buio del passato, dalla notte dei tempi / e arrivo a questa luce disarmato / luce senza ombre / luce del mondo a venire / luce nuova, accecante / che mi costringe a tutto vedere / anche se chiudo gli occhi / questa luce me li trapassa / al punto che non so più / se li tengo aperti o se li tengo chiusi / se sto dormendo o se sono sveglio […]». E finiva così, quella storia di avidità umana e di asine che sentono, con le loro grandi orecchie, il dolore del mondo: «Io, Giordano, pastore zampognaro / posso vedere le infinite minuzzarie / ch’ dint’ o paese ordina la Divina Provvidenza / ma ancora non capisco / non mi capacito / perché / la gente / continua a versare lacrime».
Ecco, Giacomo, solo un’ultima cosa, continuando a versare parole per lacrime: ci mancherai.

 

Massimo Marino

Massimo Marino è saggista, storico e critico teatrale. Scrive per la pagina culturale del “Corriere della Sera” edizione di Bologna e per riviste e pubblicazioni specializzate. Si occupa di problemi del teatro contemporaneo, di temi legati alla critica e alla storia del teatro, di attualità culturale. Conduce laboratori di critica teatrale. Ha insegnato al Dams di Bologna e al Master in Critica giornalistica presso l’Accademia nazionale d’arte drammatica “Silvio D’Amico” di Roma. È docente di Drammaturgia musicale presso il Conservatorio «G.B. Martini» di Bologna.
Tra le sue pubblicazioni: Lo sguardo che racconta. Un laboratorio di critica teatrale, Carocci, Roma 2004, vari articoli sul teatro in carcere, Teatro delle Ariette, Titivillus, 2017, Teatro del Pratello, Titivillus, 2019. Coordina la sezione “Teatro” della rivista www.doppiozero.com e il blog del Conservatorio «G.B. Martini» http://chorusmartini.it.