Nel mentre del tempo

di Paola Bianchi

Paola Bianchi a Tempi di reazione 2018 / SPAM! – ph Andrea Simi

Fattore determinante e condizionante della coreografia, elemento basilare nell’arte scenica, essenza astratta eppure tangibile, entità che acquista corpo nel suo farsi scena, azione performativa, il tempo, uno dei quattro elementi fondanti della coreografia – insieme a spazio, forza e idea/progetto – difficilmente svincolabile dagli altri elementi, ha, come lo spazio e la forza, una suddivisione in interno ed esterno. «Il tempo interno è costituito dal ritmo cardiaco, dallo stato emozionale e fisiologico del corpo. Il tempo esterno è la musica, il suono, il silenzio, il rumoreggiare del pubblico» (1).
Da qui si potrebbe partire con una ormai storica discussione e disquisizione sul complicato rapporto tra musica/suono e coreografia. Credo in un movimento musicale e non melodico, ritmicamente consonante rispetto all’evento sonoro, mai descrittivo, in cui l’evento musicale diventa il performer e non la musica. Ma non è di questo che vorrei parlare. Vorrei concentrare il mio intervento sul tempo della scena, o meglio il tempo nella scena, dentro, in chi sta nella scena (e dico volutamente nella e non sulla), e precisamente sulla mia percezione del tempo, percezione che si dichiara personale e che rifugge l’idea di universalità.
Nell’atto di agire una coreografia non c’è un prima, non c’è mai. Il prima esiste nell’atto compositivo, nella coreografia stessa, nella sua creazione, ma non nel suo agire. Il prima sparisce nell’istante in cui diventa prima e io non ci sono più, c’è il ricordo del mio essere stato, c’è lo stato attuale del mio corpo – stanco, sudato, in tensione o meno – ma quel prima è svanito, è svanito non nella memoria corporea, è svanito nella tensione verso il dopo, nella concentrazione dell’azione in atto. C’è un mentre, la cui durata non è misurabile, e c’è un dopo. Nel mentre il dopo è già presente, è già in atto il pensiero corporeo del dopo. Sarebbe impossibile non avere il corpo che pensa il dopo, la coreografia si interromperebbe. Il corpo è nel mentre, ma anche proiettato verso il dopo, in tensione verso il movimento successivo. È un processo inevitabile di sdoppiamento della presenza: un sono e sarò continui e compresenti.
È possibile allora un mentre senza il pensiero corporeo del dopo?
Invitata da Roberto Castello allo spazio SPAM! ho partecipato alla rassegna di improvvisazione “Tempi di reazione”. In cinque giorni si sono alternati musicisti, attori, danzatrici e danzatori che hanno improvvisato per mezz’ora senza un tema deciso a priori. L’improvvisazione senza tema è una pratica a cui non sono avvezza. Improvviso, e molto, durante la creazione; dall’improvvisazione nasce lo stato del corpo, la modalità (la coreografia nasce successivamente, quando quell’improvvisazione si è fatta azione da poter ripetere, da poter rivivere infinite volte, quando a quell’improvvisazione è stato consegnato un tempo, un ritmo, una musicalità, una collocazione precisa nello spazio), improvviso ma sempre con un tema ben preciso. Improvvisare senza tema e senza cadere negli stereotipi propri della danza personale, è altra cosa.
Mi è stato chiesto di improvvisare con un musicista che a sua volta improvvisava e che non conoscevo, Edoardo Ricci. La richiesta è stata quella di improvvisare per trenta minuti circa; a improvvisare eravamo in tre: il musicista, io e un light designer. Il primo problema ovvio e comune a tutti è la durata: come posso sapere se sono trascorsi dieci minuti o mezz’ora? Un dettaglio non da poco ma risolvibile con l’ausilio della luce: l’accensione di un particolare faro era il segnale per arrivare con calma a una conclusione. Primo problema legato al tempo nel senso della durata, risolto.
La cosa in realtà per me estremamente affascinante di questa improvvisazione e di cui vorrei parlare è stata la percezione del mentre per tutta la durata dell’improvvisazione. Per tutta quella mezz’ora non ho mai avuto un’idea corporea o mentale del dopo. È stato un mentre continuo. Mentre è parola che non presuppone un passato, un presente e un futuro. È l’azione nel suo farsi, nel suo essere azione. Mi chiedo se la caratteristica del mio modo di danzare che presuppone un’estrema concentrazione nell’interno sia la causa della percezione avuta durante l’improvvisazione. Analizzando il mio stare nella scena, anni fa parlai di due aspetti della coreografia, aspetti che definii come danza esterna e danza interna. «La prima riguarda il movimento nello spazio, le linee disegnate dal corpo in movimento, la forma del corpo in contatto e in relazione con lo spazio; la seconda è esclusivamente interna al corpo stesso, è fatta di muscoli, di tensioni interne, di vibrazioni muscolari e nervose, di vene, la forma del corpo in contatto e relazione con il proprio confine, la pelle che, oltre a svelare la forma, è medium percettivo. La prima necessita distanza nella visione, per dare la possibilità all’occhio di comprenderne (nel senso di accogliere, lasciare agire, prendere con lo sguardo) la totalità e poterla mettere in relazione con lo spazio in cui agisce; la seconda necessita di vicinanza, l’occhio deve seguire il percorso della pelle, deve poter cogliere il dettaglio, entrare dentro la vibrazione per comprenderne il disegno» (2).
Oggi non posso più fare questa distinzione tra danza interna e danza esterna, oggi il mio essere corpo che danza non prevede più una separazione e parlerei piuttosto di drammaturgia della carne. A venirmi in aiuto nella comprensione del mio essere corpo nella scena fu Ambra Gatto Bergamasco, danzatrice butoh e direttrice del Teatro Espace di Torino. Dopo aver visto una replica di d’animanimale _ azione per corpo e voce, una performance creata insieme a Ivan Fantini e nata da un suo romanzo, Ambra mi spiegò che la trasmissione somatica passa attraverso il sistema connettivo miofasciale (una sorta di rete che avvolge, sostiene e collega tutte le unità funzionali del corpo) e che, secondo la medicina tradizionale cinese, a quaranta, sessanta e poi ottanta anni avvengono dei cambi fisiologici che, nel caso di un corpo nella scena, generano reazioni diverse in chi si pone in visione dell’atto. Questi cambi sono legati a una maggiore comprensione della sostanza del corpo, del suo interno. Parlando in termini di qualità del movimento succede che fino a quaranta anni la potenza esplosiva dei muscoli è l’arma naturale di chi danza, dai quaranta ai sessanta anni si penetra più in profondità a causa dell’attivazione del collegamento del sistema miofasciale con il sistema nervoso, il muscolo diventa fibra, si ammorbidisce e lascia fluire il collegamento con l’interno; di conseguenza, se il lavoro ha portato una attenzione all’interno del corpo come fonte di ogni movimento, il collegamento naturale porta il corpo danzante a essere veicolo di trasmissione empatica o, per dirlo con le parole di Francisco J. Varela, di enazione del movimento, ovvero chi guarda partecipa internamente al movimento di chi si muove, una partecipazione attiva definita azione incarnata. Vi sono poi altri due passaggi fisiologici connessi all’età che dai sessanta agli ottanta anni mettono in contatto diretto il sistema miofasciale con gli organi interni e il midollo, e dagli ottanta ai cento con il liquido cerebrale – fasi a me ancora empiricamente sconosciute.
Ritorno all’improvvisazione a “Tempi di reazione”, improvvisazione che mi ha fatto ragionare a fondo sullo stare. Le sensazioni sono state: perdita totale della durata, perdita dell’orientamento spaziale ma con una nitida coscienza istintiva dello spazio (intendo dire che non c’è stato un disegno, un lavoro sullo spazio, c’è stato solo istinto a volte guidato dalle luci, a volte incurante delle luci), completa dimenticanza del movimento passato, totale non-pianificazione del movimento successivo. È stato come essere in trance, ma una trance istintivamente cosciente, dove forse la conoscenza approfondita del luogo scenico si è attivata a livello animale, senza un’elaborazione mentale. Il corpo pensante ha agito in totale autonomia. La cosa sconvolgente è stata l’annullamento del ricordo, l’impermanenza dell’atto con una traccia nitida di memoria corporea non codificabile, irripetibile, impossibile da ritrovare perché fuori dalla coscienza, un vero atto effimero. Le parole venute dopo da parte dei singoli spettatori mi hanno fatto capire la meraviglia di quello stato: non ho fatto, non ho agito, ero, il corpo era, e il suo essere, e non il suo fare, vive e genera una potenza che porta alla verità del movimento.
Ciò che succede nel mentre della forma, ciò che muove la forma, che funge da motore dell’azione è la ricerca costante della bestialità, dell’istinto animale, della trasparenza, della verità del movimento, della sua credibilità. «Verità e credibilità sono parole che nel mondo della danza hanno un senso ben preciso e difficilmente vengono fraintese, ma che al di fuori di questa piccola cerchia acquistano un significato altro e sicuramente fuorviante. Verità non ha a che fare con “la conformità a principî dati o a una realtà obiettiva” (anche se il concetto di realtà obiettiva sarebbe tutto da discutere e indagare) come da vocabolario. Verità ha a che fare con il senso interno di ogni movimento di una azione coreografica, ha a che fare con il modo di stare dentro a quel movimento, al suo essere credibile e quindi non falso, appiccicato su un corpo che non conosce quel movimento nel suo intimo, nella sua natura. Verità ha a che fare con la carne, con il modo in cui il corpo incarna il movimento, ha a che fare con il nucleo di partenza del movimento, nucleo che non può trovarsi fuori, che non può essere un modello da seguire, ma che sta dentro ogni corpo. Quel nucleo è il motore, l’attivatore di tensioni e spostamenti, di sbilanciamenti, di equilibri, di relazioni con lo spazio. Cosa sono allora io, corpo in movimento, quando divento agente coreografico? Chi sono? Nel mentre dell’azione io mi dimentico del mio stato, mi dimentico di appartenere al genere femminile, mi dimentico di avere due gambe, due braccia, una testa, un bacino, una schiena. Mi dimentico ma lo sono esponenzialmente. La percezione del mio stato diventa profonda e quindi si annulla. Annullarsi per eccesso senza eccessi, questo è, credo, il modo di stare nella scena» (3).

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  1. P. Bianchi, Corpo politico – distopia del gesto, utopia del movimento, Editoria&Spettacolo 2014 Collana Spaesamenti, p. 32

  2. Ivi, p. 19

  3. P. Bianchi, Make the dance audible in «Teatro Akropolis – Testimonianze ricerca azioni Vol. 9» a cura di C. Tafuri e D. Beronio – AkropolisLibri 2018. Testo aggiornato.

 

Paola Bianchi

Coreografa e danzatrice. Con i suoi lavori partecipa a festival nazionali e internazionali. Ha inoltre creato opere video e audio presentate in festival ad esse dedicate. Collabora con musicisti, artisti visivi, videoartisti, registi cinematografici e teatrali. È cofondatrice del [collettivo] c_a_p che si impegna nella divulgazione della cultura della danza contemporanea. Conduce laboratori di ricerca coreografica e tiene lezioni teoriche presso alcuni atenei italiani. Ha curato la direzione artistica di rassegne e festival. Nel 2014 viene pubblicato il suo volume “Corpo Politico _ distopia del gesto, utopia del movimento” a cura di Silvia Bottiroli e Silvia Parlagreco, Editoria&Spettacolo collana Spaesamenti. Il corpo sulla scena è una forma, piena di contenuto. L’affermazione nasce da una sua particolare attenzione nei confronti del corpo, non solo come strumento e specifico linguistico, ma come area di indagine intorno a cui ruota la sua ricerca.

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