Di fantasmi di fantasmi. Un piccolo tentativo di disinfestazione teatrale

di Jacopo Giacomoni

Fotogramma da "Shining" (1980)
Fotogramma da “Shining” (1980) di Stanley Kubrick

Del teatro possiamo dire due cose opposte:

1) Il teatro è un’arte di fantasmi
2) Il teatro scaccia i fantasmi


Prendiamo la prima affermazione:

1) Il teatro è essenzialmente hauntologico perché presentizza ogni cosa, è fatto dell’impalpabile memoria degli attori e perpetua costantemente, replica dopo replica, persone che non sono persone, fantasmi di tempi e spazi lontani. Il teatro è la culla degli spiriti, perché parola e immagine non sono mai solo se stesse, ma sempre anche il loro ectoplasma che nasce nella nostra immaginazione: gli eserciti in lotta, i suicidi, le città, l’amore sono apparizioni – alla lettera phantasmata – prodotti dall’incontro tra gli attori e il pubblico. In teatro si manifesta l’hauntology concepita da Derrida, che è in sintesi un invito a dialogare coi fantasmi e a pensare la conoscenza come segretezza strutturale (una raccolta di scritti sull’hauntologia si trova in: The Spectralities Reader. Ghosts and Haunting in Contemporary Cultural Theory, a cura di María del Pilar Blanco e Esther Peeren).
Il teatro è abitato da fantasmi di tutti i tipi, non solo da quelli dei personaggi o dei luoghi rappresentati. Senza la pretesa di essere esaustivi, ne facciamo un elenco, dividendoli in base all’areale in cui vivono: Fantasmi del palcoscenico, Fantasmi della platea e Fantasmi della sala prove. Tra quelli del palcoscenico troviamo alcuni degli spiriti più innocui, come ad esempio i classici:

1) Fantasmi della superstizione: il viola, il fischio, il copione che cade a terra e via dicendo. I fantasmi più inoffensivi – ma anche più rispettati – che ci siano;

poi ci sono gli inestirpabili:

2) Fantasmi dei Maestri: invadenti poltergeist che prendono possesso dei teatranti e li inducono a reiterare le proprie massime negli anni a venire;

meno appariscenti, ma più diffusi, sono invece i:

3) Fantasmi della replica: i Doppelgänger dello spettacolo, le repliche passate e future che gravano sul presente scenico. Ogni recita è infestata dal successo o l’insuccesso della recita precedente e dalla prossimità o lontananza (o inesistenza) della replica futura;

enormi, irremovibili, nebbie perenni sono i:

4) Fantasmi dello spettacolo immaginato: gli spiriti invisibili di ciò che il teatrante voleva mettere in scena, ma che mai – per inesperienza, incapacità, ma anche per sfortuna o banale impossibilità – vedrà realizzato.

Tra i fantasmi che infestano la platea, possiamo brevemente ricordare i seguenti:

1) Fantasmi del Pubblico assente: gli spettri delle persone che non sono andate a teatro e che aleggiano durante una replica semideserta, ma anche gli spettri dei critici e degli operatori a lungo invitati e mai comparsi in carne ed ossa;

5) Fantasmi del Grande pubblico: una fatamorgana sospesa tra le poltrone che dà l’illusione di una gran folla leggendaria. Chi ne viene ingannato comprometterà tutto sé stesso nello sforzo di vedere quella folla concretizzarsi;

6) Fantasmi del Pubblico estero: spiriti d’Oltralpe, Oltremanica, Oltreoceano, di altri lidi, altri teatri dove il pubblico non manca mai, dove “il teatro conta davvero”, che migrano verso i teatri italiani per spaventare i teatranti o per rassicurarli d’essere nati nel posto sbagliato.

Infine, escludendo i fantasmi personali che tormentano gli artisti, possiamo suddividere i fantasmi della sala prove in queste sottocategorie:

7) Fantasmi dell’Atto scorso: come nei simulatori di corsa in cui si gareggia col fantasma del proprio record, così ogni performer fa le prove inseguendo un gesto, una parola, un’intenzione di un sé passato. Lo spirito di un atto già compiuto che determina un atto futuro che lo supererà trasformandosi a sua volta in spirito;

8) Fantasmi della Necessità: spiritelli che bramano un corpo intraprendente da possedere. Il proprietario di quel corpo, iniziate le prove, sentirà il bisogno di giustificare i proprio gesti artistici con una Necessità inderogabile. Si declinano in diverse tipologie: la Necessità di Testimoniare, di Raccontare, di Non dimenticare etc.

9) Fantasma del Vuoto: anche detto Fantasma dell’Effimero, è un demone gassoso che resta sospeso sulle spalle dei teatranti fin dal primo momento in cui pensano a un nuovo spettacolo. È fatto della stessa sostanza di cui è fatta la depressione che segue il debutto. È la caducità di ogni atto teatrale. Ultimamente è cresciuto di dimensioni e, da semplice famiglio spiritico di ogni compagnia, è diventato un terrificante spettro che grava sulle produzioni. In questa forma è noto anche come Fantasma della Distribuzione inesistente.

Il teatro è una casa infestata, eppure, per un altro verso, possiamo affermare che è tutto il contrario. Infatti:

2) Il teatro è un dispositivo acchiappafantasmi. Se nel mondo ormai i supporti si sono smaterializzati e fruiamo l’arte solo attraverso spiriti di byte fuoriusciti da bare di datacenter, in teatro siamo finalmente in presenza della vera presenza. A teatro possiamo essere di nuovo analogici, corporei, vivi. Se, ad esempio, la musica elettronica è tutta hauntologica, poiché, come dice Mark Fisher, chi la produce è un «manipolatore di fantasmi sonori che sono stati separati dai corpi vivi», il teatro si smarca dai fantasmi perché richiede sempre un corpo vivo – se non quello del performer (che può anche non esserci), necessariamente quello dello spettatore. Gli spettatori sono lì, presenti, non sono orecchie future che ascolteranno la nostra canzone dai loro smartphone, né occhi futuri che vedranno i nostri video quando noi staremo facendo altro. Anche quando il teatro è fatto di inganni, di fantasmi di Pepper, di misteri visivi e labirinti acustici, sappiamo che tutto sta avvenendo ora, di fronte a noi, nella cornice di un sipario. Spettatori e attori condividono le medesime regole e in quella trama di minuti possono plasmare una temporalità diversa e, finalmente, condivisa. Questa peculiarità del teatro è ciò che gli permette di affrontare gli spettri del tempo e di non esserne semplicemente posseduto. Vale a dire che il teatro può – se vuole – non limitarsi a riverberare lo Zeitgeist contemporaneo, ma metterlo in discussione e, infine, tentare di disinfestarlo.

C’è uno spettro che si aggira per i teatri…

Dunque il teatro è un generatore di fantasmi e insieme un luogo in cui liberarsi dai fantasmi.
Possiamo dire che, essendoci nato insieme (un po’ come Blade coi vampiri), il teatro sa come affrontare i fantasmi e può aiutarci a riconoscere quelli benigni da quelli maligni. Per fare teatro ci sono, insomma, molti fantasmi che dobbiamo accettare e altri di cui possiamo fare a meno. Tra questi ce n’è uno di cui ci occuperemo qui e di cui sarebbe bene tentare la disinfestazione. Andiamone a caccia seguendo i moderni cantori di fantasmi.

Se è Derrida a dare il via alla “spectral turn”, è Mark Fisher ad applicare il concetto di hauntologia alla cultura musicale e da lì all’epoca che stiamo attraversando. Non viviamo il presente perché non vediamo il futuro; ci siamo imprigionati nell’affollata fotografia del salone di Shining, mentre attorno a noi ci sono il vuoto e la solitudine. La definizione più efficace di Fisher dell’hauntologia viene non a caso dalle note di copertina di un disco di The Caretaker, Theoretically pure anterograde amnesia e dice così: «davvero possediamo più sostanza degli spettri che non ci stanchiamo di applaudire? Il passato non si può dimenticare, il presente non si può ricordare. Attenzione. C’è un deserto là fuori…»
Là fuori il mondo fa schifo, rimaniamo nel tepore avvolgente dei loop (musicali, ma non solo) del passato. Immergiamoci nella nostalgia, ma non quella dei vecchi, dei reduci, di Itaca: questa è una nostalgia nuova, è per qualcosa che non abbiamo mai vissuto. «Il genere di nostalgia oggi così pervasiva può essere immaginato non come brama del passato, ma come incapacità di generare nuovi ricordi» (Mark Fisher, Spettri della mia vita).
In Derrida i fantasmi sono una possibilità, perché interrompono la linearità del tempo e ci obbligano a fare i conti con ciò che è escluso, dimenticato o represso. In Fisher i fantasmi sono una condanna: «Non soltanto il futuro non è mai arrivato, ma neppure sembra più possibile».
Il precursore di ogni hauntologia (e della contemporanea classe disagiata, come la definisce Raffaele Alberto Ventura) viene dal teatro ed è Amleto. La sua battuta più citata dagli hauntologisti è: «The time is out of joint», il tempo è fuor di sesto, fuori dall’articolazione, slogato. Si sono persi i riferimenti temporali, addio ai riti di passaggio, è tutto un presente infestato di passato. Lo spirito del padre Amleto – l’ur-fantasma del teatro – grava su di noi adombrando il futuro. Ma, come scrive Ventura ne La conquista dell’infelicità, Amleto «alla pressione sociale che vorrebbe spingerlo a vendicare il padre, […] reagisce tentennando». Questo è l’impasse dell’hauntologia: alla mancanza di futuro non si reagisce, non si combatte, si tergiversa, si elucubra, e poi magari, come nella tragedia, finisce tutto in un bagno di sangue. Citando il più famoso slogan fisheriano, Ventura conclude che «oggi siamo tutti Amleto, principi decaduti di un regno immaginario, esiliati nelle terre del realismo capitalista».
Ecco che si scorge la sagoma del fantasma che stiamo cacciando.

A questo punto della disinfestazione si pone una questione: l’innamoramento col fantasma. Una casa davvero vuota ci fa più paura di una casa piena di spiriti ingombranti. Gli spifferi, i sussurri, i cigolii fanno più paura se sappiamo che i fantasmi sono fuggiti. E un fantasma di cui ci si innamora in teatro è proprio quello dell’assenza di futuro. È l’hauntologia stessa ad aver infestato la scena. Il problema insomma è che il racconto del fantasma è a sua volta un fantasma che perseguita gli spettacoli. Un fantasma che ci illude di aver trovato la narrazione che smonta le altre narrazioni, che ci fa sentire svelatori di veli di Maya, censori di occidenti tramontati, e ci spinge in un vicolo cieco che abbiamo accecato noi. L’hauntologia – così come l’autorappresentarsi classe disagiata – ha il pregio di volgere in spettro le nostre ansie, di dare un nome all’innominato, di denunciare la mancanza di narrazioni efficaci, ma in realtà, a volte subdolamente, a volte vanitosamente, si trasforma a sua volta in un grande fantasma spettrivoro che rischia solo di bloccare i teatranti, di prosciugare l’arte del dettaglio e dell’eccezione, di arrestare qualsiasi propulsione verso il futuro, verso il tramandare, e infine di soffocare ogni cosa nell’autocommiserazione o nell’apocalisse. Si prende il ruolo di Amleto con la scusa che Amleto si è preso il ruolo di ciascuno.

Un possibile fucile protonico per immobilizzare questo über-fantasma è quello di diventare noi stessi fantasmi. Non nel senso di farci eterei e impalpabili adesso, quanto di diventare infestatori di teatri futuri. Il grosso limite, infatti, del fermarci in quel limbo di terrore e amore che scatenano i fantasmi del presente è quello di pensarci gli ultimi abitanti della casa. Quando invece, per fortuna, siamo solo l’anello di congiunzione tra due generazioni di abitanti. Quelli prima di noi, che si sono fatti fantasmi o che hanno prodotto i fantasmi, e quelli dopo, per i quali noi dovremmo farci fantasmi o produrre fantasmi.
È vero, come dice Derrida, che essere abitati dagli spettri significa accettare la responsabilità verso il passato, ma questo non deve condannarci alla completa disillusione verso il futuro. È forse a partire dal rifiuto di certe guide, maître à penser dell’intersezionalità della catastrofe, dal rifiuto di certi cantori dei fantasmi – e sì, anche dell’hauntologia di Fisher – che possiamo iniziare a cacciare certi spettri dai nostri teatri e farci padri di Amleti futuri.

 

 

 

 

Jacopo Giacomoni

Performer e dramaturg della compagnia Malmadur, con cui ha creato gli spettacoli 50 minuti di ritardo, Homo ludens, Starlùc e Lear/Del conflitto generazionale. Fra i suoi ultimi lavori: Rapimento – spettacolo per uno spettatore solo in un teatro vuoto (2021), il testo La più grande tragedia dell’umanità (2020); partecipa al Pergine Festival con la performance in solo Ebbrezza distruttiva di una scimmia cappuccina; è performer di X-machine del Teatro dei servi disobbedienti, finalista al bando Biennale under 30; e scrive il monologo Lludwig W. per Roberto Latini e Kilowatt Festival.