Non vedere più il cielo

di Claudio Kulesko

Cielo (dal web)
Il modo in cui viviamo riflette già il modo in cui moriremo.
Per me, questo è il messaggio più fondamentale degli insegnamenti del Bardo.
Il modo in cui, oggi, affrontiamo i piccoli cambiamenti, è già il segno di come, domani, affronteremo i grandi cambiamenti.
Il modo in cui ci relazioniamo al disfacimento in questo stesso istante, prefigura il modo in cui ci relazioneremo al disfacimento nel momento della nostra morte.
Pema Chodron, How We Live is How We Die
 
 
 
È qualche giorno che non riesco a smettere di pensare alla morte della zia di mio padre. Era una signora anziana e gentile, vedova da che ne ho memoria, ottima cuoca e chissà quant’altro. Il punto, però, è che non si tratta di un fatto recente; è accaduto più di un anno fa, forse due. L’ho scoperto unicamente perché ho chiesto a mio padre come fosse andato il suo solito viaggio di ritorno al paese, come andavano le cose a casa nostra e come stavano i parenti, finché non sono arrivato a questa zia in particolare. La risposta è giunta da mia madre: “ma zia è morta, da più di un anno, forse due”. Mi sono subito sentito in colpa per questa dimenticanza; non solo per aver mancato di rispetto a mio padre e aver dimostrato scarsa attenzione nei suoi confronti ma, soprattutto, per essermi completamente fatto sfuggire un fatto così importante, che riguardava una persona che conoscevo da quando avevo sei anni. 
Continuo a ripetermi di avere la scusante di essere stato male proprio in quel periodo, di non essere stato in grado di elaborare informazioni in modo efficace per più di un anno. E anche quella di avere un figlio piccolo, che ha assorbito (e assorbe) in modo pressoché esclusivo l’attenzione mia e della mia compagna. Tuttavia, resta il fatto che ho preso sottogamba la morte di una persona cara, di averla trattata alla stregua di un fatto di cronaca. Ero così concentrato sul mio ego chiassoso e ingombrante, da aver del tutto perso di vista gli altri. Non “altri” qualsiasi, un’alterità generica da saggio accademico francese, ma l’alterità concreta delle persone a me più vicine. Ero intrappolato all’interno del mio stesso Io. 
Imparando a conoscere la mia malattia, ho scoperto che è quello che accade quando l’amigdala – la parte più “primitiva” del nostro cervello, quella che induce la cosiddetta risposta fight-flee-freeze – è iperattiva: le scariche alternate di adrenalina e cortisolo non fanno che spingere di continuo il corpo-mente all’interno di dinamiche di sopravvivenza basilare, nelle quali l’unica cosa che conta è la paura. Un meccanismo che innalza di continuo la soglia di attivazione dell’adrenalina, inducendo il soggetto a cercare stimoli sempre più forti per poter sfuggire all’ansia. Un circuito letale per un individuo arrivato a credere di non valere niente e di essere degno solo di morire. Non si fa altro che naufragare in balia di pensieri intrusivi (che possono essere anche molto violenti e inquietanti), cercare di toglierseli dalla testa e passare il resto del tempo a dormire per recuperare le forze.
Riesco persino a ricordare il momento esatto in cui la gabbia ha cominciato a incrinarsi e rompersi: mentre stavo guidando, ho guardato in alto e ho visto il cielo. Erano mesi e mesi che non vedevo il cielo ed era immenso, sconfinato e bellissimo. Non credevo neppure che si potesse vivere senza alzare mai lo sguardo al cielo, eppure, era esattamente ciò che avevo fatto per tutto quel tempo. In quel preciso istante, per una minuscola frazione di secondo, è stato come se non esistessi, come se di tutti i miei problemi, di tutti i miei pensieri, non vi fosse più traccia alcuna. Non c’era altro che il cielo.
Ero così concentrato sull’eventualità e sul progetto della mia morte, da essermi totalmente dimenticato della morte in sé e per sé.
 
Ho iniziato a star meglio più o meno nello stesso periodo in cui ho cominciato a praticare mindfulness in un centro diurno della mia zona. Prima, frequentavo un gruppo di social skill: un tipo di attività nella quale ci si vede una volta a settimana per parlare di specifiche occorrenze della vita quotidiana – come ringraziare, ricevere critiche o complimenti o chiedere un’informazione – e metterle in scena tutti insieme. Può sembrare facile ma non lo è affatto. In primo luogo, perché si tratta di ostacoli a volte quasi insuperabili per persone con certe diagnosi. In secondo, perché sono tutte occasioni che ci paiono scontate ma nelle quali, in realtà, diamo spesso il peggio di noi (come quando andiamo in escandescenze al primo appunto, o quando sminuiamo gli apprezzamenti che gli altri fanno al nostro lavoro). In questo contesto terapeutico si apprende a sviluppare una primissima forma embrionale di consapevolezza, riguardante le modalità con le quali rispondiamo agli stimoli sociali. Una tecnica del sé a cui la mindfulness aggiunge ulteriore spessore: la capacità – più unica che rara – di non fare assolutamente nulla in risposta a un dato stimolo. 
Il protocollo standard di un programma Mindfulness Based Stress Reduction (MBSR) dura otto settimane. Da parecchi anni, ormai, le ricerche di laboratorio effettuate attraverso neuroimaging hanno dimostrato che la meditazione induce, già dopo otto settimane, non solo una notevole diminuzione dell’attività dell’amigdala, ma anche l’ispessimento della corteccia prefrontale, l’area cerebrale più caratteristica della specie umana, sede delle funzioni esecutive, responsabile dell’attenzione, della regolazione emotiva, della pianificazione, del cosiddetto “senso di sé narrativo” e dell’inibizione degli impulsi. Tutto ciò che ci rende umani, in breve, è sostenuto dalla funzionalità di questo semplice agglomerato di tessuti. E ciò che, andando estremamente nello specifico, ci rende davvero umani è questa stessa capacità di non fare niente. 
 
C’è un termine, divenuto ormai celebre, proveniente dalla tradizione taoista: Wu Wei, che significa, più o meno alla lettera, “senza azione” o “senza movimento” e che definisce un tipo di azione che si compie senza compiere alcuna azione. Nella tradizione mistica cristiana, e persino in quella buddhista, esiste un concetto molto simile, quello di “lasciare andare”. Semplicemente, ci si arrende. Si smette di opporre resistenza e si lascia che il corso degli eventi ci sommerga. Spesso, si definisce tale condizione come un “morire a se stessi”. In passato, si è addirittura arrivati a definire la meditazione come un far pratica in vista della morte.
A prima vista, soprattutto per noi moderni occidentali istintivamente razionalisti, può sembrare qualcosa di molto complicato – uno stato mistico al quale solo i santi e i guru, con un po’ di fortuna, possono avere accesso. In realtà, si tratta proprio del primo passo lungo il cammino. Riesci a stare nell’ansia, nel dolore, nell’angoscia, nel panico – ma anche nella gioia, nell’amore e nell’entusiasmo – senza essere travolt*? Riesci ad abitare i tuoi stati interiori? 
Morire a se stessi significa, innanzitutto, perdere il controllo, lasciare che tutto ciò che è, piacevole o spiacevole che sia, sia e basta.
 
In tibetano la parola tonglen significa “prendere e dare” e indica una pratica di addestramento mentale consistente nel respirare il dolore, proprio e altrui, ed espirare sollievo, compassione e gentilezza. Ovviamente, non si tratta di prendere letteralmente su di sé la sofferenza altrui – giacché ciò, purtroppo, è fisicamente impossibile. Lo scopo primario di questa tecnica, infatti, è quello di dissolvere le barriere (mentali e, soprattutto, emotive) che dividono il praticante da ciò che la cultura umana, da millenni, reputa sgradevole e sommamente evitabile: il dolore fisico, la sofferenza psichica e la morte. 
Più di ogni altro tipo di meditazione, il tonglen si basa sulla rottura degli argini e sul superamento delle zone di comfort. Ti piace accumulare libri e non hai più neppure un angolo libero dentro casa? Inizia con un libro che possiedi da anni ma che non hai neppure mai aperto: regalalo a qualcuno, oppure lascialo in biblioteca o a un bookcrossing; poi, quando ti senti pront*, riempi una bella busta della spesa e fai la stessa cosa. Hai paura di ammalarti? Vai a fare volontariato in un ospedale. Immagina una serie di cerchi concentrici: ogni volta un cerchio si spezza, passi a quello successivo; la tua mente, che all’inizio era il cerchio più piccolo, quello nello spazio centrale, ora è il secondo, terzo, quarto cerchio. Il tuo spazio interiore si è fatto sempre più ampio, sempre meno distinguibile da ciò che ti circonda. 
A un certo punto, a furia di spezzare cerchi, arriverai al grande spazio negativo – quello che sconfina nel vuoto più totale. È l’immenso, infinito spazio della morte.
Non si può provare dolore per la propria morte. Persino in quei casi nei quali veniamo a conoscere in anticipo, più o meno con precisione, il giorno della nostra morte, non siamo davvero in grado di addolorarci per essa. Questo perché non possiamo avvertire la nostra mancanza, percepire il tessuto del mondo che si sfalda e si ricompone gradualmente attorno a un vuoto. Perciò, è sommamente importante imparare a distogliere lo sguardo dal proprio ego e accogliere la presenza della morte in ogni sua forma, dal disfacimento fisico a quello mentale, fino a giungere all’impermanenza delle cose, delle percezioni e dei pensieri. Possiamo fare amicizia con la morte, prendere dimestichezza con essa e farla diventare una specie di collina innevata dalla quale poter scendere con uno slittino. In fondo, prima o poi, in un modo o nell’altro, tutt* dobbiamo morire; è un fatto elementare e non dev’essere per forza qualcosa di negativo. Si può morire ed essere come un palazzo che crolla collassando su se stesso, sollevando polvere e scagliando detriti in ogni dove, facendo un gran fracasso e ferendo i passanti. Oppure, si può morire ed essere come il cielo: vasto, accogliente e silenzioso, capace di abbracciare tutte le cose in una volta sola.
 

 

Claudio Kulesko

Claudio Kulesko è filosofo, scrittore e traduttore. Con NERO è autore dell’antologia di narrativa speculativa L’abisso personale di Abn Al-Farabi e altri racconti dell’orrore astratto (2022). Per Piano B ha pubblicato Ecopessimismo. Sentieri nell’Antropocene futuro (2023).