Una volta era il canto
di Graziano Graziani

“Quando leggiamo versi davvero straordinari, davvero belli, tendiamo a farlo ad alta voce. Un bel verso non si lascia leggere a bassa voce o in silenzio. Se possiamo farlo, non è un verso riuscito: il verso esige di essere declamato. Il verso non dimentica di essere stato un’arte orale prima di essere un’arte scritta, non dimentica di essere stato un canto”. Questa riflessione di Jorge Luis Borges, espressa in una conferenza dedicata alla Divina Commedia, rende conto in modo puntuale del legame profondo e antico che c’è tra la poesia e il teatro. Un legame ancora visibile, intuitivo, ma di cui spesso dimentichiamo le implicazioni. La radice del canto implica che la poesia, come il teatro, sia – o sia stata – sostanzialmente un atto pubblico, quantomeno un atto condiviso, relazionale; e la sfera pubblica legata al canto ci riporta a un’ulteriore dimensione del gesto artistico che, in epoca antica, lungi dall’essere semplicemente un fatto estetico aveva invece profonde connessioni con il rito. Sul rapporto tra il rito e il teatro sono stati versati fiumi di inchiostro, ma se invece spostiamo l’attenzione sull’atto poetico allora si evidenzia come la dimensione della creazione poetica – che siamo soliti, noi contemporanei, relegare alla sfera del privato, anzi del privatissimo, della scrittura in solitaria – trova la sua genesi in una forma di relazione.
A partire da questa apparente contraddizione abbiamo voluto esplorare le connessioni odierne tra la poesia e l’arte relazionale per eccellenza, la performance. Intendendo con essa tutte quelle forme espressive, di teatro, danza, arte contemporanea che si concepiscono non come un’opera chiusa, ma come una forma di rapporto col pubblico. Un rapporto da cui scaturisce un senso ulteriore, quando non più profondo, dell’atto artistico (sia esso una declamazione, una forma di recitazione, una danza).
Persino quando vengono concepite come una branca della letteratura – e cioè, segnatamente, nella loro incarnazione editoriale – il teatro e la poesia condividono una sorte simile, attigua, che ha a che vedere con la marginalizzazione negli scaffali meno visibili delle librerie. Generi cadetti della scrittura, perché alla scrittura non concedono, a differenza del saggio e del romanzo, la loro interezza. Quella teatrale è sempre una scrittura “monca”, che prefigura il suo completamento in scena. La poesia, invece, ha trovato nel tempo una collocazione precisa sulla pagina scritta, ma anche, potremmo dire, la sua “comfort zone”. Eppure, dalle incarnazioni più pop come la slam poetry ai grandi raduni di poesia che hanno segnato l’immaginario, come Castel Porziano, c’è sempre in agguato lo spettro della dimensione performativa a suggerire che esiste un di più, una possibile deflagrazione verso altre zone del senso e della relazione con il pubblico.
A partire da queste considerazioni abbiamo chiesto a quattro poeti e poete di ragionare attorno alla propria arte poetica in relazione alla performance. Ogni scrittura, chiaramente, ha un’origine differente che illumina il percorso in modo diverso. Azzurra D’Agostino, poetessa in italiano e in dialetto, è anche autrice di versi per il teatro. Giorgiomaria Cornelio scrive e pubblica poesie e saggi con una direzione di ricerca comune ed è allestitore di festival e di riti teatrali. Legata alla tradizione della ricerca poetica, dal Gruppo 63 alle contaminazioni delle avanguardie, Lidia Riviello scrive poesia ma ha maturato il proprio percorso in ambiti teatrali e performativi. Gioia Salvatori infine, performer e autrice di prose e versi, cerca da tempo – e con successo – il modo di far abitare una precisa “voce” nella dimensione cartacea come sul palco senza perderne la specificità. Quattro storie, quattro percorsi che raccontano anche altrettante pratiche. Perché, proprio in virtù della comune origine performativa, è proprio la prassi artistica a rivelare il nesso più profondo della “poesia come forma di relazione”, che è il tema che cerchiamo di affrontare in questo numero di 93%.
