Non son sicura di aver capito. Qualche riflessione su poesia e teatro
di Azzurra D’Agostino

Riflettendo su cosa esattamente scrivere (da quando Graziano Graziani mi ha fatto questo invito ho un tarlo che non mi molla), ho alla fine deciso di tentare una piccola cronologia di fatti, nella speranza che l’unire quelle che sono delle esperienze fino a qui incontrate e osservarle, più che un approccio soltanto teorico, mi possa mostrare qualcosa su quello che significa per me pensare a: poesia e teatro. Perché siano due parole che continuano a interessarmi, anche e talvolta soprattutto, nei loro intrecci. Due parole, due mondi, due linguaggi, due insiemi di relazioni, due occasioni di incontro che hanno portato nella concretezza della mia vita persone, situazioni, amicizie, amori, viaggi, opere. Questo, con un’attitudine antropologica piuttosto che autobiografica (o agiografica): una piccola auto-etnografia che possa partire dal mondo e dalle cose del mondo, per ricomporre così fenomenologicamente una mappa, un quadro in movimento, da cui forse leggere o intravedere dialoghi e direzioni.
Parto dal teatro altrui, vissuto come spettatore.
Bologna. I biglietti per Chioma al Teatro di Leo (con De Berardinis presente ad accogliere in sala) li comprai in lire. Ero studentessa universitaria e avevo incontrato il teatro tramite dei laboratori scolastici tenuti nel mio liceo di provincia dal Teatro dell’Argine. Andrea Paolucci e Nicola Bonazzi, poco più che ventenni, che mi insegnavano che potevo trovare lo spazio per inserire una poesia di Sandro Penna nel copione. E mi mostravano che potevo essere lì, parte di quella cosa che si faceva, senza essere per forza sul palco (e questo è continuato a succedere assieme a loro, di tanto in tanto, nei decenni successivi: loro sono per me la meraviglia di pensare che gli adolescenti abbiano diritto di esistere ed essere educati alla bellezza e alla cooperazione). All’università, ai tempi di quella sera in San Vitale, di teatro oltre questo non sapevo niente. Ma avevamo iniziato, con Daria Balducelli, che ora lavora con passione al Teatro Metastasio di Prato, a girare nei localini che allora consentivano di seguire opere di giovani attori. Su quei palchetti improvvisati abbiamo visto, giusto per citare uno spettacolo solo (ma non a caso), Diario di provincia di Oscar De Summa. Ma torno a Chioma. L’ingresso di Gabriella Rusticali quella sera, avvenuto prima del suo apparire fisico tramite una voce sovrumana che pronunciava i versi di Mariangela Gualtieri, credo abbia segnato profondamente il mio percepire il teatro come qualcosa di legato allo spazio e al suono. L’accadimento poi veniva nel miracolo di un corpo stravolto, ma era la parola a guidare, la parola detta, l’essere noi vivi lì a sentire quelle parole entrare nel nostro corpo. E questo è quello che, allo stesso modo, credo sia il potere più grande della poesia, anche. Che succede sulla carta solo come un accidente. Il suo posto è altrove. In una terra di mezzo che può ospitare anche chi non te lo aspetti. Dopo quella sera, ho sentito che qualcosa era cambiato e faccio risalire a quel momento una fede nella possibilità che tutto questo si manifesti nel mondo, per davvero. Che esista e si possa costruire.
Firenze. Forse una decina di anni dopo. Sempre con Daria, mangiamo vicino alla sinagoga con Giuliano Scabia. Prima, o dopo, visitiamo il suo studio. Il legno in terra, e tutto quel materiale di carte, dipinti, bozzetti, scritti, libri. Giuliano Scabia è stato come una continua e al contempo intermittente apparizione nella mia esistenza, artistica e umana. Ho di lui lampi in mezzo ai boschi, risate cristalline al telefono dopo avermi parlato della “nostra” allodola, buio che canta, come costruire percorsi con gli sconosciuti credendo nel festival che facevamo con Daria, i piccoli volumi del suo poema che arrivavano in dono sotto Natale. L’invito costante alla gioia. Il fare teatro come qualcosa che deve accadere per tutti, in mezzo alle persone che possono imparare a sentirlo come fatto reale, non come moto dell’intelletto o scelta professionale. Giuliano ha mostrato, con l’esempio, un modo di fare le cose che sostanzialmente era (è) un modo di stare al mondo. Un modo che ha come unica vera parola possibile la poesia. Nel suo Canto del Monaco Silvano prendono parola le corone di monti, le stelle, il silenzio stesso: il gran teatro del mondo se lo ascolti può parlare la poesia. Forse solo quella. E il teatro avviene tra le persone, per rendere possibili quelle parole.
Vari luoghi d’Italia. Per molti anni fino a, direi, poco prima del primo lockdown. Claudio Morganti e Rita Frongia, il grande dono di condividere tempo, riflessioni, prove, risate nelle occasioni create all’interno del LGSAS (Libero Gruppo di Studio delle Arti Sceniche). La poesia, nei lavori di forse la maggior parte dei molti e diversissimi artisti coinvolti nel gruppo, avviene non nella parola e basta. Avviene nel silenzio. Nel corpo dell’attore. Nell’occhio dipinto del burattino. In testi che non per forza sono poesia, come forma, ma hanno la forza della poesia. Qual è la forza della poesia in questo caso, cosa ha in comune col teatro? Che non è spettacolo. Che non si ripete, anche quando stampata. Perché è mobile, dipende da quel sottile imprendibile tentativo di tenere l’anima, e quindi il corpo, in un’attenzione vigile che consenta di dimenticarsi di sé, far spazio. E, infine, avvenire. La poesia, dunque, come forma del pensiero, come qualità del silenzio, come relazione, nel suo arrivare alla bocca, con l’improvvisazione. Non posso più nascondermi ormai che la poesia per me non è un genere letterario. E nemmeno un testo e basta.
Provo a dire qualcosa a questo punto sul teatro che provo a collaborare a fare, vissuto da dentro. Mi baso sugli ultimi anni e su quello che mi ha mostrato ancora altre possibilità. Vorrei dire di tante altre esperienze perché ciascuna mi ha dato infinite occasioni di riflessioni e scoperta, ma per limiti di spazio racconto le due più continuative e ricche proprio nella loro estrema differenza. Francesca Grilli, sperimentare (per me) per la prima volta la performance, anche in contesti europei e non solo nazionali (il mio fare finora era legato soprattutto alla mia lingua madre). Trovare la poesia come possibilità senza parole, come dispositivo che generi poesia, non un testo ma pochi versi che puntellano e rendono possibile un accadimento. Il resto altrove. Anche il testo, altrove. Al servizio della relazione che avviene nel qui-e-ora tra i performer e chi li incontra, come un sottinteso, sempre in dialogo con l’idea e la poetica dell’artista. Il testo come sottotesto, come amplificazione di un gesto. Non so se si possa parlare di traduzione intersemiotica: più che altro, manifestazione in altra forma di qualcosa che resta nel nucleo lo stesso, ma che può venire fuori solo in quella forma lì. E che magari non sono parole tue.
Teatro dei Venti, che dopo decenni di lavoro in strada con poche parole, si affida alla poesia e la sfida a essere detta nelle piazze, tra i passanti, per i bambini e gli stranieri e i distratti dalla strada, dal movimento. La poesia in carcere, le parole che per poter essere credibili devono essere pronunciabili da voci e corpi che vengono da storie complesse, che conoscono questioni che la maggior parte delle persone ignorano. È in questi contesti, la piazza e la reclusione, che la poesia come parola deve essere rigorosissima nel suo porsi come ascolto, più che come emittente (come è il poeta quando scrive). Diventa fatto e agisce con concretezza, sommuovendo o dichiarando o unendo o opponendosi, solo se regge più prove contemporaneamente: quella della pagina, quella del contesto, quella di chi parla, di chi ascolta, della costruzione drammaturgica, della relazione, del rumore di fondo, del silenzio. Soprattutto del silenzio.
Tutto questo è tentativo: non sto dicendo che le prove siano riuscite. Ma so che sono state tentate e in alcuni casi ho avuto la conferma che riverberassero in modo collettivo.
Questo insieme di riferimenti, figure, poetiche, eventi, mi consente a questo punto di trarre alcune provvisorie considerazioni. Le sto affrontando in un saggio che sto scrivendo inerente soprattutto la poesia, ma mi rendo conto che in qualche modo le questioni si rivelano strettamente interconnesse. Certo, il teatro ha poi un ordine ulteriore di elementi da considerare, ma se mi limito agli aspetti che hanno a che fare con la parola o il silenzio (se vogliamo circoscrivere la poesia al dire), tutto è molto legato nella mia percezione.
La poesia per come la intendo (e ogni intendimento è parziale) è un ipergenere che non si limita a questioni letterarie. In particolare, quella che mi interessa è quella in cui la parola detta è canto nel senso che favorisce l’incantamento, che smotta e smussa ogni comprensione puramente razionale. Che unisce le persone, che portandole fuori di sé, le fa parlare oltre di sé. La poesia, come il teatro, (leggi: quelli che interessano a me) non si “capiscono” nel senso che non c’è niente da “capire”. Il lavoro richiesto è un altro. Che non significa che la lingua debba essere criptica, esoterica, solo per adepti. Anzi, il suo maggiore potere si rivela quando scuote le fondamenta di chi non se l’aspetta e non la cerca. Non è qualcosa che sta su una pagina, ma un ponte. Proprio per questo il testo deve reggere sulla carta, anche, la prova del testo ci deve essere come devono essere sottoposti a verifiche strutturali i ponti e i viadotti. È una qualità dello sguardo, che mette sotto agli occhi l’invisibile, per un momento, con l’impressione forse di essersi sbagliati, confusi, di non aver proprio visto bene. Eppure, dopo quella visione siamo diversi, abbiamo condiviso qualcosa con qualcuno, abbiamo parlato coi fantasmi, preso posto tra le schiere di quelli che passano. Che orma resta? Perché la vogliamo lasciare? Forse, come piccolo segnavia per quelli dopo? Per aver conferma di esserci stati? Per far durare la morte dentro la vita (e viceversa)? Essere solo una piccola maglia di una catena o rete molto più grande. Essere l’altro, sentirlo, non aver paura di farci a pezzi, per ricomporci eventualmente in una visione d’insieme che possa farsi piccolo lampo di luce nel nero.
Sono lontana dall’idea che la poesia a teatro sia dire la poesia. Sono lontana anche da quella che dire la poesia in un teatro sia far accadere il teatro. Sono distinguo che ammazzano un po’ l’una e l’altro, o quantomeno, se non li ammazzano, fanno loro molto male. Il discorso è complesso e ha a che fare con le intenzioni che non si imbarazzano di essere messe alla prova, trasformarsi in gesto. E al contempo si rendono benissimo conto che in qualche modo aveva ragione Celan quando scriveva nei «Microliti» che “le prove fiaccano la verità”.
C’è molto da fare, ma anche molta possibilità. Però senza mai dimenticare la gioia, il più grande insegnamento di Scabia. Lasciando da parte i manifesti, in favore dei tentativi. E pure ogni saccenza, ogni tombale “si fa così”. Non sono insomma tanto sicura di aver capito cosa ci stia dietro a questo binomio, a questa relazione. Questo non significa che vale tutto. Proprio il contrario. Riprendendo il titolo del saggio di un appartato e coltissimo studioso italiano, Gianpiero Maragoni, mai dimenticare “il rigore dell’estro”, che mi ricorda che poesia e teatro non sono normativi, ma hanno delle regole. E che farle dialogare è potente. Commovente. Divertente anche, se si è molto bravi o anche solo disponibili a giocare sul serio.
Azzurra D’Agostino
Azzurra D’Agostino ha pubblicato raccolte poetiche, albi per bambini (Fatatrac, Electa Mondadori), oltre a curare antologie e traduzioni. Scrive per il teatro e collabora con artisti visivi e musicisti. Conduce laboratori di scrittura per adulti e bambini, intesi come spazi di condivisione creativa. Nel 2021 ha esordito nella narrativa per ragazzi con il romanzo Il giardino dei desideri (DeA Planeta Libri). È presidente dell’Associazione SassiScritti APS.
