IL GESTO DI FARE TEATRO
di Niccolò Fettarappa

Il gesto in sé di fare teatro, di allestire uno spettacolo, è davvero in grado di intervenire nel dibattito pubblico e di influenzarlo? O si tratta di un’illusione nella quale il nostro mondo si rinchiude?
Non so bene come rispondere a questa domanda.
Forse anche perché non me la sono mai posta seriamente. O magari, me la sono posta, dando delle risposte sbrigative.
Allora parto analizzando le mie risposte sbrigative.
La prima risposta sbrigativa che solitamente do a questa domanda è: no, il teatro non è in grado di intervenire in nulla. Siamo troppo pochi, troppo divisi e abbiamo poco a cuore che il teatro accada nel mondo. Ci basta che il teatro accada nel mondo teatrale, cioè che influenzi il gusto del momento, inclini di qualche grado il dibattito della nostra comunità, intervenga su un tema attuale, ma lo faccia attraverso forme e estetiche sofisticate, che solo chi ha un gusto allenato sarà in grado di valutare. Il Teatro è questo piccolo circolo delle bocce per letterati, una riserva protetta di intellettuali, un piccolo bunker in mezzo al campo di una guerra già vinta, ma non da noi. Mai da noi.
Ecco, quando solitamente do questa risposta a questa domanda, poi non sto bene.
Non è rasserenante pensare che quello che uno fa, che quello a cui uno si dedica sia totalmente inutile. Dico “totalmente” perché, sì, in primo grado lo sappiamo tutti che il teatro, l’arte e tutta l’estetica è inutile, ma nel senso nobile della parola. Non serve immediatamente a uno scopo pratico. Non si usa il teatro per aggiustare lo scaldabagno, non adoperi un Picasso per sbrinare il frigo e non ti sarà utile, appunto, aver letto Flaubert per sfiatare un termosifone. Ora, dagli esempi che ho fatto, sembra che uno nella vita sia diviso tra riparare elettrodomestici in casa o dedicarsi tutto all’arte. Esiste un’area a metà tra queste due attività, una sorta di esistenza ibrida, che non cade né sotto l’ombrello del pratico né sotto quello estetico, in cui le due cose possono trovarsi ibridate, appunto.
Per esempio, quando discuto in una riunione di condominio, può darsi che aver letto Flaubert potrà tornarmi utile a elaborare un qualche argomento più toccante e persuasivo per non installare il videocitofono. Ma insomma, non è questo il punto. Anche perché Flaubert non mi risulta abbia mai parlato di videocitofoni. Vabbè.
Dicevo, quando sono in scena e penso a queste cose, io non solo non sto bene, ma mi affatico di più.
Se penso che è totalmente inutile, mi viene voglia di riposarmi. Di fermare tutto e dire: posso sedermi un attimo? Perché, se penso che è inutile, comincio a considerare il teatro, un lavoro (1). Cioè, sento il peso del lavoro, il peso di star facendo questo mestiere solo per un ritorno economico, mi dimentico del ludico, del magico e dell’incanto di star parlando a delle o con delle persone. È come se un prete avesse una crisi di fede durante la messa. Mentre sta inzuppando l’ostia nel vino, si rende conto che Dio è morto, rimette tutto in discussione, guarda il costume che si è messo, gli scappa da ridere o da piangere e tanti saluti allo Spirito Santo.
Ecco, ma passiamo alla seconda risposta che sbrigativamente mi do, cioè: sì, il teatro interviene. Il teatro è partecipe. Il teatro è un testimone diretto. Il teatro cambia le cose. Il teatro è più rapido del cinema, più vibrante di un quadro, più ecumenico della musica. Il teatro è un format abbastanza preistorico ed evergreen, la narrazione. E quindi, per quanto il suo bacino di utenza sia ridotto, non è quello il punto, il punto è che partecipo a un rito che si ripete da secoli. E non importa se davanti a me ci sono dieci o diecimila spettatori, questo spettacolo è solo una macchia di colore di un grande affresco rupestre, una Lascaux universale, una grande grotta preistorica in cui sono incise tutte le stagioni teatrali, le residenze artistiche e le regie di sempre. Ecco, di solito dura poco, questo momento un po’ ierofantico, in cui mi sento ancestrale e fingo che il teatro abbia questo ruolo sciamanico nei confronti della comunità umana. Dura poco e quando mi risveglio, torna a credere che contiamo poco e che contiamo solo fra di noi. E sto di nuovo male.
La questione, però, secondo me è un’altra.
Cioè che nessuno saprà davvero dire quanto il proprio lavoro conti, quanto il proprio spettacolo incida nel reale.
Il Ministero non potrà mai valutare l’importanza di un’opera teatrale, a partire dalla valutazione scientifica di quanto abbia cambiato la vita degli spettatori.
È un dato che sfugge a qualsiasi presa analitica.
Perché non è un dato, non è quantificabile. E per fortuna.
Quello che ho capito, però, e che mi sento di dire è che lavorare, pensando di non contare nulla, fa lavorare peggio. Che andare in scena, con la coscienza della propria minorità e irrilevanza, con la delusione di essere plancton, non fa lavorare bene.
E non solo in termini di prestazioni di palco. Fosse solo quello, non sarebbe preoccupante. Sarebbe solo una performance scadente. Il problema risiede in quello che succede a un artista, se si convince così radicalmente di essere superfluo.
Il rischio è peggiore, perché diventa una profezia che si autoavvera.
Se mi convinco che il teatro è superfluo, produrrò teatro superfluo.
C’è il rischio in alcuni, ma anche in noi, di un certo fanatismo marginalista.
C’è il rischio che, obbligati a stare in una nicchia, la nicchia cominci a piacerci.
C’è il rischio che tutto questo sentimento di irrilevanza, si traduca poi in un vanto, in forme di settarismo snobistico.
C’è il rischio che così il teatro diventi un rito esclusivo per un’enclave di sconfitti, convinti che restare inascoltati sia più cool che essere tenuti da conto.
E così si finisca a fare di quell’irrilevanza, una bandiera.
E l’irrilevanza diventa disappartenenza. Distacco. Dj-set.
E c’è il rischio che nutriti di questo nichilismo rosicone, il nostro teatro finisca per essere ugualmente nichilista e autoreferenziale.
E allora, che fare?
Sicuramente, non basta credere che il teatro sia rilevante, per far esserlo tale.
Ma forse, kantianamente, cominciare a fare teatro come se il teatro contasse davvero, darebbe l’impennata creativa che serve.
Spesso, si dice, prima di andare in scena: se va male, pazienza. Il bello di questo mestiere è che non muore nessuno. Non è mica un’operazione a cuore aperto.
Ecco, forse il problema è lì. Se cominciassimo a vivere il teatro come se fosse un’operazione a cuore aperto? Come se avesse lo stesso peso, la stessa importanza, lo stesso valore? Come se noi avessimo la stessa responsabilità di un chirurgo?
Scrivere o andare in scena, non facendo finta, ma per davvero e per bene, non accademicamente, ma coi nervi tirati, come se quella replica salverà il mondo, fare teatro come se avesse un senso, fare teatro come se potessimo cambiare il mondo, pensando questo NON come dato reale (il rischio del delirio di onnipotenza è dietro l’angolo e, con lui, di nuovo la condanna alla nicchia), ma come compito da realizzare, come ideale regolativo, come porto a cui approdare. Questo, cambierebbe qualcosa?
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1. Questa che faccio è una considerazione pericolosa, con dei rischi di derive antisindacali importanti. Quindi voglio fare delle precisazioni. Il Teatro per me non è una passione, non è una missione, non è la mia vita o altre robe ispirate di tale genere. Il Teatro è un lavoro a tutti gli effetti. E come tale va inquadrato e tutelato. Quello che qui cerco di dire è che se io, mentre lo faccio, vivo il teatro solo strictu sensu come lavoro, smetto di essere felice di farlo. E quindi non lo faccio bene. Io sento che se, mentre lavoro, mi dimentico di lavorare, lavoro meglio.
Niccolò Fettarappa
Niccolò Fettarappa Sandri è autore e regista di Apocalisse Tascabile (2020), spettacolo che ha ottenuto numerosi riconoscimenti, tra cui il Premio In-Box 2021, il Premio Direction Under30 2020, il Premio della Critica al Nolo Fringe Festival, il Premio Italia dei Visionari e arriva in finale al Premio Rete Critica 2022. Nel 2022 porta in scena Solo Quando Lavoro Sono Felice, prodotto e distribuito dalla Corte Ospitale, che riceve una Menzione Speciale al festival Forever Young e vince il Bando Ferrara OFF. Nello stesso anno collabora con Radio 3 per la messa in onda del suo testo Nel mio bagno di sangue. Nel 2023 debutta con La Sparanoia – Atto unico senza feriti gravi purtroppo, prodotto da Sardegna Teatro e AGIDI. Nel 2024 firma la drammaturgia e la regia, insieme a Nicola Borghesi, di Uno spettacolo italiano, con cui condivide anche la scena. Lo spettacolo è una produzione di Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale, AGIDI e Sardegna Teatro. Nel 2025, il progetto teatrale Scemi del villaggio – Sguardi spaesati sulla città, scritto e interpretato da Niccolò Fettarappa, con Niccolò Fettarappa e Lorenzo Guerrieri, vince il Bando SIAE – Per Chi Crea, nella sezione dedicata alle Nuove Opere. Nel maggio 2025 c’è stata la prima mise en espace del Il Perdente – Commedia con disprezzo, commissionato dal Teatro Stabile di Bolzano nell’ambito della rassegna Wordbox. I suoi testi sono pubblicati dalla casa editrice Ronzani. Per le edizioni Tlon esce a maggio 2025 il libro Showpero manifesto selvaggio contro il talento scritto insieme a Lorenzo Maragoni.