IL TEMPO DELLA DOMANDA
di Miriam Selima Fieno

Chi fa teatro – e intendo tutte le professioni che gravitano nell’universo teatrale – spesso non contempla nemmeno la possibilità che il teatro possa, o meno, influenzare il dibattito pubblico.
Non perché abbia maturato un pensiero critico in merito.
Ma perché proprio non si pone la domanda.
E chi non se la pone, non può nemmeno illudersi.
L’illusione è concessa a chi si espone, chi rischia.
Gran parte del settore è intrappolata in una produzione che diventa sopravvivenza.
Una macchina che chiede di esistere più che di interrogarsi.
Che raramente concede il tempo di una vera sospensione. Di una pausa.
E nella corsa ci si dimentica il perché.
Ci si dimentica di chiedersi:
“Cosa dovrebbe generare questo gesto?”
“A chi parla?”
Non è un’accusa.
Né un giudizio morale.
È un dato.
Si produce per produrre.
Si costruisce un oggetto estetico, lo si rifinisce, lo si esibisce.
A volte con dedizione, cura e fatica, altre meno.
Ma poco cambia: il risultato resta chiuso in un perimetro noto.
In questo automatismo, spesso, si perde la domanda.
Eppure, la domanda, ogni tanto, riaffiora.
Come una crepa nel ritmo.
Una febbre.
Una voce che interrompe il rumore di fondo.
Come fosse la prima volta.
Ma non lo è mai.
Ritorna.
A volte con rabbia, altre con malinconia, altre in silenzio.
Scrivendo questo pezzo avevo pensato di citare Maestre e Maestri.
Che ci ricordano che non siamo i primi a porci certi quesiti.
Ci fanno sentire parte di un’eredità.
Offrono parole in cui riposare per un attimo.
Frasi dette in un tempo altro, che ancora vibrano.
Sistemano il dubbio, ci proteggono.
Ma non siamo qui per ripetere.
E il teatro, nel 2025, non ha bisogno di pacificazione.
Così come la domanda non è nuova, nemmeno la risposta lo è.
Ma ogni risposta va sentita nel tempo in cui si vive.
Va trovata nel disordine in cui siamo immersi – che è anche il teatro che facciamo.
E credo valga la pena rispondere. Sempre.
Credo nell’onestà del tentativo.
Ogni volta che ci chiediamo:
“Che peso ha il gesto teatrale nella sfera pubblica?”, stiamo provando a riscrivere il nostro
spazio.
Forse, a salvare qualcosa.
È importante parlare di questa possibilità.
Non come certezza, ma come scelta.
Come posizione.
Vengo dalla realizzazione di uno spettacolo che ci ha impegnati due anni tra ricerca e creazione.
Io e Nicola – con cui ho fondato la compagnia FIENO DI CHIO – ci siamo dedicati a uno studio sulle generazioni che migrano via terra, diventando adulte lungo le feroci frontiere europee, nel tentativo di raggiungere una vita migliore.
Abbiamo intrapreso un viaggio a ritroso lungo la rotta balcanica, dall’Italia alla Turchia, per chiederci che Europa stiamo costruendo.
Durante il percorso, a tutte le persone incontrate – migranti, cooperanti, volontari, attivisti, trafficanti, poliziotti, accademici, antropologi – abbiamo spiegato cosa stavamo cercando di fare, perché volevamo parlare con loro.
Appena nominavamo il teatro, accadeva qualcosa.
Una luce.
Un’apertura.
Una fiducia.
Come se, lontano dai tavoli ufficiali, la gente – senza dirlo – ne riconoscesse il valore autentico.
Non solo come pratica culturale, ma come spazio possibile.
Erano loro a ricordarci perché vale ancora la pena farlo.
La frase che ci siamo sentiti ripetere più spesso – anche da chi meno ci aspettavamo – è stata:
“Solo il teatro può far scoppiare la bolla. Tutto il resto ha fallito.”
Una dichiarazione di fede.
Una richiesta.
Una responsabilità.
Fragile.
Ma reale.
Non è retorica.
L’abbiamo visto succedere.
Nel modo in cui siamo stati accolti.
Nel modo in cui il teatro ha fatto da tramite.
Da testimone.
Da sismografo.
Il teatro non salva.
Non risolve.
Ma disinnesca.
Non riproduce il mondo.
Lo interroga.
Non lo cambia.
Ma genera spiragli in chi guarda.
Tutto si gioca lì.
Tra gesto e responsabilità.
Nel rapporto tra scena e spettatore.
Il teatro, ogni volta che accade, rompe l’isolamento.
Sospende il tempo dei dispositivi.
Chiede attenzione.
Obbliga alla prossimità.
Ed è in questa esistenza condivisa che si crea il terreno per un tempo reale di riflessione e confronto.
Come si può sprecare un’opportunità così?
In diversi Paesi, il gesto teatrale è ancora un atto politico, un gesto che incide nella polis e agisce come strumento di trasformazione sociale.
L’artista è percepito come figura esposta, spesso scomoda.
In alcuni casi ostacolata, silenziata.
Perché pone domande, smonta narrazioni, parla di ciò che si preferirebbe tenere fuori dallo sguardo collettivo.
In molti contesti il teatro ha generato: lettere pubbliche, riscrittura di policy culturali, reti solidali, movimenti, proteste, confronti nelle scuole, nei quartieri, nei palazzi istituzionali, dibattiti pubblici, iniziative di inclusione sociale, campagne di sensibilizzazione, azioni di rivendicazione dei diritti, nuovi modi di fare comunità…
È documentato.
Quando il teatro entra nei vuoti del presente, la domanda iniziale diventa ciò che dà senso a ogni fatica.
Non si fa teatro solo per “mettere in scena”.
Ma per compiere un’azione che guarda oltre lo spettacolo e traccia un segno capace di accendere nuove consapevolezze e innescare nuovi inizi.
Eppure, in Italia, questa attitudine spesso si traduce in eventi isolati, eccezionali, legati a giornate tematiche, focus, occasioni che riuniscono, ancora una volta, chi ha già scelto da che parte stare.
Ed ecco la contraddizione.
La domanda sulla domanda, che offusca anche l’illusione:
“Come si può pensare di parlare a una comunità se – pur con le migliori intenzioni – si raggiunge sempre la stessa piccola parte?”
Serve un lavoro profondo.
Paziente.
Una rivoluzione lenta.
Tentativi, fallimenti, altri tentativi.
Non basta più dirsi che il teatro ha una forza vitale.
E affidarsi ogni tanto a un paio di progetti che “smuovano qualcosa”, per poi tornare agli stessi spettacoli, senza che nulla sia cambiato.
Quella forza va messa in atto.
Liberata.
Resa continuativa.
Il teatro va scosso dalle radici, tolto dal riparo in cui spesso lo si conserva.
Non è un compito solo dell’artista.
È un’emergenza che deve attraversare ogni ruolo dentro il teatro.
Bisogna rischiare.
Scomodarsi.
Fare spazio.
Non spingere solo le voci che rassicurano.
Se sopravvivono sempre le stesse forme, il teatro apparirà chiuso.
Esclusivo.
E chi resta fuori penserà che non gli appartiene.
Così diventa un passatempo elegante, ma senza risonanza.
Un rito colto, ma privo di impatto.
Per i soliti.
E invece il teatro può essere molto di più.
Per molti di più.
A patto di trattare la scena non come simulacro, ma come luogo vivo, in evoluzione, in ascolto del presente, dove qualcosa accade davvero.
E il pubblico ne è coinvolto.
Ma deve esserlo a monte, nel pensiero.
Se si comincia a spostare l’asse, a cambiare abitudini – con prospettiva – allora chi guarda, anche da lontano, forse potrà avvicinarsi.
Riconoscerà un’apertura, una continuità, non un’eccezione a cui comunque spesso non si sente invitato.
Vedrà che c’è qualcosa che lo riguarda.
Che lo interroga. Che lo scuote. Che parla a lui, non su di lui.
Sì, è tempo di una forte disobbedienza interna.
Perché il sistema che sostiene il teatro – e che dovrebbe nutrirlo – spesso lo piega a logiche che lo depotenziano, lo rendono zoppicante, anacronistico.
E in questo momento storico attraversato da fratture profonde, regressioni democratiche e un senso crescente di impotenza collettiva, il teatro dovrebbe essere un presidio critico.
Allora il punto non è solo se il gesto teatrale può influenzare il dibattito pubblico.
Il punto è: siamo disposti a rimettere questa possibilità al centro della nostra pratica?
A prenderci la responsabilità di questa domanda?
Perché già solo recuperarla è un gesto di rottura.
Implica una scelta.
Un posizionamento.
Se la lasciamo inascoltata, prolunghiamo un’esistenza senza visione.
E fare esistere il teatro, oggi, non basta più.
A quel punto, davvero, tanto vale smettere di farlo.
Miriam Selima Fieno
Miriam Selima Fieno nasce ad Alessandria da mamma italiana e papà libico. E’ attrice, regista e autrice. Dopo la laurea in Archeologia si diploma all’Accademia d’Arte Drammatica “Nico Pepe” e si specializza in linguaggi audiovisivi.
Dal 2011 porta avanti con Nicola Di Chio un percorso di produzione artistica che attraversa le arti performative e la drammaturgia contemporanea, indagando i confini tra fiction e non fiction. Tra i lavori più rilevanti: Odissea Minore. Per un’educazione della frontiera, Fuga dall’Egitto, From Syria: is this a child?, Libya. Back Home, Human Animal.
La sua ricerca fonde teatro e cinema del reale in opere dove la scena si arricchisce di materiali documentari, tecnologie interattive e dispositivi digitali per costruire connessioni tra i temi della contemporaneità. Collabora con professionisti di diverse discipline, in un dialogo costante tra linguaggi e immaginari. E’ stata artista associata al Centro IAC (Inter Arts Center) di Malmö, è una delle protagoniste del progetto PERFORMING ITALY video ritratti di artisti con un passato migratorio, a cura dell’Istituto Italiano di Cultura a Londra. Firma performance audiovisive come Mediterranean e il cortometraggio Stato d’Assedio selezionato al Filmmaker Festival di Milano. Conduce laboratori e percorsi formativi dedicati al teatro documentario. E’ attualmente impegnata nello sviluppo del suo primo lungometraggio.