Il teatro che serve

di Graziano Graziani

"Trattato di economia" di-con A. Cosentino e R. Castello. Foto di Ilaria Scarpa
“Trattato di economia” di-con Andrea Cosentino e Roberto Castello. Foto di Ilaria Scarpa

Quella sul senso di fare teatro, di articolare questioni attraverso questa forma d’arte millenaria, è una domanda che ha attraversato le epoche. La contemporaneità, tuttavia, memore della centralità del teatro nell’epoca classica o nell’Inghilterra vittoriana, ha finito per porsi questo problema in termini non tanto filosofici, o politici, ma pratici. Forse per curare un malcelato senso di marginalità che, chi fa teatro, finisce prima o poi per avvertire. Basta tuttavia tornare indietro nel tempo per accorgersi che alcune questioni sono, in fondo, sempre le stesse. August Strindberg, ad esempio, già nella seconda metà dell’Ottocento si chiedeva se non fosse un’illusione pensare di poter incidere in qualche modo sulla vita pubblica del proprio paese, la Svezia, che all’epoca contava una popolazione di circa quattro milioni di persone, di cui soltanto poche andavano a teatro. In un’epoca in cui assistere agli spettacoli era comunque un’attività assidua e raccontata sui giornali, svolta in grandi palcoscenici e per teniture ben più lunghe di quelle odierne, Strindberg calcolava di poter raggiungere nel ciclo di vita di un allestimento al massimo l’un per cento della popolazione, circa quarantamila persone. E considerava questa prospettiva alquanto deprimente per un autore che si prefiggesse di incidere sullo spirito del tempo e dei suoi connazionali (questo divertente ragionamento è incluso nel volume “Se la classe inferiore sapesse”, pubblicato qualche anno fa dalle Edizioni dell’Asino di Goffredo Fofi, che ha recuperato alcuni scritti preziosi del drammaturgo svedese). Le considerazioni di Strindberg, lette oggi, fanno sorridere perché sono del tutto simili a quelle di alcuni artisti contemporanei, ma con proporzioni del tutto diverse, perché nel frattempo il teatro è diventato più marginale di allora nella vita culturale dei paesi occidentali. Le questioni, come si accennava all’inizio, sembrerebbero essere sempre le stesse. Ma le cose, in realtà, non stanno esattamente così. In primo luogo perché questi crucci appartengono soprattutto alla classe intellettuale, mentre è esistito nel mondo del teatro un filone popolare, di compagnie di giro, che ha sviluppato un rapporto del tutto diverso con il proprio pubblico (anche perché la sopravvivenza di dette compagnie dipendeva proprio dalla loro capacità di attrarre un buon numero di spettatori paganti). In secondo luogo perché subentra la questione “pratica”: il teatro d’arte, sostenuto quasi interamente dal denaro pubblico, avverte di dover giustificare la propria presenza, il proprio “anacronismo”, rivendicando una presa di parola sulle questioni capitali del nostro presente, qualche volta a livelli di temi – il cosiddetto teatro esplicitamente “politico” – e qualche altra volta a livello di visione del mondo – che può essere sollecitata da un discorso meno diretto e più “estetico”.

A ben vedere, però, si tratta di un’inversione di senso: la marginalità, che consente agli artisti di teatro di guardare il mainstream comunicativo che pervade la società da una prospettiva differente, più libera, diventa in questo quasi una “colpa”. Mentre ciò che caratterizza un processo trasformativo innescato da un gesto estetico, come la danza o il teatro, è il fatto di incarnare – semplicemente facendosi – una possibilità di visione differente. Ma in fondo, in un mondo che ha interiorizzato anche in termini filosofici la lezione economicista e utilitaristica del presente, il tempio della performance artistica non poteva che assorbire, fatalmente, le contraddizioni che l’imperativo sociale della performatività si porta dietro.

In questo numero di 93% abbiamo quindi chiesto agli artisti se, secondo loro, il teatro ha davvero un impatto sulla società e di che tipo. Se l’importanza di fare teatro è una cosa che ci raccontiamo tra noi, che il teatro lo guardiamo e lo facciamo. Se l’utilità del prendere parola è un mito, un atto identitario più che critico, o se nella presa di parola esiste qualcosa in sé che, più che giustificare il nostro perseverare in un’arte “improduttiva”, ci libera dal meccanismo stesso che ci porta a valutare le cose secondo questa scala di valori. Lo abbiamo chiesto a chi fa teatro da prospettive diverse: a chi fa spettacoli drammatici e a chi fa spettacoli comici; a chi appartiene alle generazioni più recenti e a chi ha un percorso lungo alle spalle; a chi affronta temi esplicitamente politici e a chi sceglie di portare in modo diverso in scena questioni altrettanto capitali. Si tratta, come è evidente, di una domanda provocatoria, ma che ciclicamente va fatta: non perché esista una risposta definitiva, ma perché nell’oscillazione tra la responsabilità di prendere parola e la consapevolezza della marginalità del discorso artistico, si possono scorgere nuove pratiche e nuovi orizzonti di senso.