La battaglia attorno al “gender”: una ricostruzione del caso inglese
di Norma Felli e Emma Gainsforth

La recente sentenza della corte suprema inglese che si esprime sul significato della parola “donna” – così ha titolato la stampa arrivando al punto più controverso – è l’ultima tappa di quella che viene chiamata “guerra del gender”. In un libro uscito da poco, intitolato appunto Chi ha paura del gender?, la filosofa Judith Butler ci introduce alle vicende di questo scontro notando l’asimmetria dei due “poli”. Il termine gender, in italiano “genere”, è usato come termine ombrello per nominare una serie di questioni che vanno dalla diseguaglianza delle donne, all’omosessualità, o in senso più specifico per funzionare come sinonimo di sesso, sebbene il femminismo abbia storicamente distinto il genere, usato per indicare le “forme sociali e culturali del divenire”, dalla dimensione biologica del sesso. Come vedremo, oggi “sesso” indica anche la dimensione dell’assegnazione giuridica. La mutevolezza dell’uso della parola gender corrisponde dunque a cambiamenti e a necessità diverse che provano a dirsi nel linguaggio che abbiamo. Il fronte opposto, al contrario, è compatto e univoco: bolla come “ideologia gender” tutto ciò che rompe l’ordine “tradizionale” basato sulla famiglia eterosessuale, che addirittura minaccerebbe la sicurezza nazionale e assumerebbe le fattezze di un “fantasma dotato di poteri distruttivi”.
Il gender è un significante attorno a cui si compatta un fronte reazionario da molti anni. Nel 2010, quando Orbán eliminava dalla nuova costituzione il matrimonio tra persone dello stesso sesso, o nel 2013, quando Putin introduceva la legge contro la “propaganda gay”, si può dire che quel significante già anticipava il collasso della democrazia – oggi esplicito – in paesi che si definivano occidentali. Vanessa Bilancetti scrive su Dinamopress che stiamo assistendo alla «stabilizzazione di un nuovo blocco reazionario globale», la cui egemonia si è costruita negli ultimi quindici anni, con un progetto che ha avuto la «capacità di fondare le proprie basi prima nelle lotte culturali che in quelle economiche, costruendo delle vere e proprie macchine ideologiche molto efficaci». Ma l’affermazione di questo blocco avviene «dentro e contro il progetto egemonico neoliberale». Da questo punto di vista è legittimo dire che la crisi dei «movimenti più radicali nati in opposizione al neoliberalismo» sia causata anche dal modo in cui questi si sono trovati schiacciati tra due fronti. Se «la teoria gender, il politicamente corretto, il wokeism, la sostituzione etnica, il ‘non possiamo accoglierli tutti’ sono stati alcuni dei grimaldelli tramite i quali puntellare e fare a pezzi la razionalità (neo)liberale, il sistema legale e dei diritti, il pensiero scientifico e l’universalismo occidentale», le difficoltà interne ai movimenti sono derivate anche dal modo in cui ci si trovava improvvisamente ‘arruolati’ o comunque corteggiati dal fronte neoliberale, lo stesso che nel frattempo eliminava «tutte le reali opposizioni progressiste» di sinistra.
Dai rischi generati da questo scenario metteva in guardia per esempio Mimmo Cangiano in Guerre culturali e neoliberismo, che ci parlava del finto progressismo di Amazon e Netflix, o del politicamente corretto dei grandi partiti democratici (quando il partito dem statunitense ha perso le presidenziali nel 2024, l’unica cosa su cui i vari membri sembravano essere d’accordo, nel caos seguito alla sconfitta, era la necessità di rinnegare il sostegno ai diritti trans). Lo stesso pensiero queer evidenziava i rischi delle promesse del fronte neoliberale già molti anni fa. Pensiamo per esempio al volume collettaneo Il genere tra neoliberismo e neofondamentalismo, uscito nel 2016 con la cura di Federico Zappino, che nell’introduzione descrive precisamente quella competizione tra neoliberismo e neofondamentalismo. Rispetto al primo polo Zappino descrive l’uso che viene fatto di strumenti «inclusivi nei riguardi delle ‘minoranze’ – come, ad esempio, il diversity management, o il pinkwashing», che assumono una funzione pacificante lasciando sostanzialmente intoccate le strutture di potere e le gerarchie che articolano le società.
La guerra attorno al gender che si è scatenata in Gran Bretagna, attorno alla pronuncia della Corte Suprema britannica del 16 aprile 2025, ci fornisce allora un punto di vista privilegiato dentro questo contesto, da cui osservare come la particolarità dei diritti trans e lgbtq+ nei paesi a capitalismo avanzato sia quella di essere agganciati allo stato di salute della democrazia. Da ciò deriva una possibile generalizzazione, che riguarda il modo in cui il fronte neoliberale predispone l’architettura che rende possibile l’avanzata delle destre: non solo smantellando il pubblico, tagliando le tasse ai ricchi, incoraggiando la formazione dei monopoli, ma intestandosi la difesa di una serie di diritti civili senza avere più a disposizione una cultura dei diritti. La particolarità dei diritti trans è allora quella di aver acquisito una centralità sempre maggiore nel discorso pubblico nel momento in cui si registrava l’arretramento stesso della cultura dei diritti. La loro traiettoria è quella del tramonto della democrazia espansiva. Se in passato si è parlato di “allargamenti” democratici di ciò che veniva “concesso” solo perché smetteva di svolgere una funzione di inclusione sociale – pensiamo all’ingresso delle donne nel mondo del lavoro che diventava precario, sottopagato, intermittente – lo stesso si potrebbe affermare di una certa visibilità accordata alle questioni lgbtq+ che appaiono sulla scena nel momento in cui si registra il collasso della sfera pubblica. A Gayatri Spivak che, alla fine degli anni Ottanta, si chiedeva se le identità subalterne possono parlare, oggi Mark Zuckerberg risponderebbe: certo che possono parlare, basta che abbiano un account su Facebook o Instagram. Tutte possono parlare, se nessuno ascolta.
Il caso inglese ci parla allora anche di come, in assenza di strumenti politici, i diritti sembrano traslocare verso due ambiti specifici che sono il piano immediatamente legale, dei tribunali e delle sentenze, e il “comparto” mediatico che nei paesi a capitalismo avanzato si è intestato la “rappresentanza” dei problemi sociali. Si tratta di un complesso che occupa la sfera pubblica post-politica in cui convergono industria culturale, attivismo istituzionalizzato, risorse umane, industria dello spettacolo, il terzo settore, realtà che si legittimano come attori politici nel tramonto della tradizionale politica dei partiti. Questo settore è impegnato in una sorta di pedagogizzazione diffusa che avviene ricorrendo agli strumenti della cultura aziendale. Punto focale di questo complesso sono i dipartimenti delle risorse umane, luoghi che hanno agito come catena di trasmissione tra le università, le aziende, il sapere prodotto dai movimenti – già accademizzato dagli Studies – e come centro di produzione di quell’inclusività neoliberale (le cosiddette politiche DEI, ossia Diversity, Equity, Inclusion) che oggi sostituisce l’inclusione sociale – basti pensare che le politiche DEI sono anche lo strumento per la «gestione soft del conflitto con la forza-lavoro» e per lo scoraggiamento dell’azione sindacale.
Così, questo piano incontra il piano della legge e degli strumenti che l’ordine democratico neoliberale carica di compiti che spetterebbero alla politica – parliamo della normativa contro le discriminazioni, il sistema delle quote, l’affirmative action statunitense, tutte misure che in nessun modo possono intaccare il sistema che produce le discriminazioni e le disuguaglianze. Che promuovono invece la categorizzazione e la competizione. Guardando ai transfemminismi in varie parti del mondo, Jack Halberstam rimarca la chiusura dello spazio di azione proprio nei paesi a capitalismo più avanzato: mentre i movimenti «negli Stati Uniti, nel Regno Unito e in Europa si sono generalmente accontentati di chiedere il ‘riconoscimento del genere’, mantenendosi strettamente all’interno della politica di riconoscimento che ha alimentato il neoliberismo, come vediamo nel caso dell’Ecuador, il femminismo trans* altrove articola obiettivi molto più ampi non limitati alle persone trans*, ma che estendono l’esperienza delle persone trans* a tutte le persone».
Nella prima parte analizziamo la storia del caso inglese in dettaglio e in maniera un po’ tecnica, dal momento che la contesa attorno al gender si è svolta su un piano istituzionale a partire dal 2018. Ciò serve a complicare la versione che vede i diritti trans attaccati solo dal fronte reazionario e a individuare altri attori in questa vicenda che hanno contribuito alla generazione di una “guerra del gender” con effetti catastrofici. Scriviamo da un punto di vista parziale, che riproduce per esempio l’assenza delle voci dei movimenti di base, dei collettivi, delle persone in carne e ossa nel “dibattito” presso l’opinione pubblica inglese. Questa è una storia che potrebbe – e forse dovrebbe – essere raccontata da una pluralità di punti di vista. Quello adottato qui è inevitabilmente un punto di vista parziale e, proprio per questo, suscettibile di critica. L’intento tuttavia, da una posizione parziale anche nel senso di essere femminista, che dunque non può non farsi carico della centralità sempre maggiore accordata al meccanismo delle “quote rosa”, è quello di provare a scardinare le strettoie in cui il dibattito si è incanalato per tentare di allargare il terreno della discussione, interrogando la costruzione di un “format” per provare a uscirne, se è vero che i diritti in questione articolano «obiettivi molto più ampi non limitati alle persone trans».
La riforma del Gender Recognition Act
Nel 2018 il governo britannico avviò un processo di consultazione sulla necessità di riformare il Gender Recognition Act (la legge sul riconoscimento di genere) del 2004. Queste consultazioni erano state avviate in seguito a un rapporto redatto da un comitato governativo, allora a maggioranza conservatrice. Secondo il rapporto la legislazione sul riconoscimento di genere era obsoleta: criticava l’approccio medicalizzato che «patologizza le identità transgender e contrasta con la dignità e l’autonomia personale delle persone che ne fanno richiesta». Chiedeva di aggiornarlo in linea con i «principi dell’autodichiarazione». Al centro delle consultazioni c’era la proposta di eliminare il processo di “verifica” condotto da una commissione di giudici e medici che approva la richiesta per la modifica dell’identità sui documenti di riconoscimento. Le consultazioni iniziarono dunque a luglio del 2018 e si conclusero a ottobre dello stesso anno. Nel testo oggetto della consultazione, il governo scriveva che molte persone «considerano l’attuale procedura eccessivamente invasiva, umiliante e amministrativamente onerosa». L’intento era scollegare la salute trans dal riconoscimento giuridico e separare la dimensione della salute («eventuali trattamenti medici, come terapie ormonali o interventi chirurgici») dalla dimensione psichiatrica: per un verso il governo riconosceva la necessità di migliorare l’accesso ai servizi per la salute, per altro il rapporto affermava che il requisito della «diagnosi psichiatrica perpetua l’idea obsoleta e falsa che essere transgender sia una malattia mentale».
Sebbene il processo di consultazione – avviato dal governo di Theresa May – si concluse nel 2018, il governo attese altri due anni per pubblicare i risultati ed esprimersi, ora nella persona di Liz Truss, che dichiarò che il Gender Recognition Act andava bene così com’era, limitandosi ad abbassare il costo della procedura burocratica e a spostarla in parte online. Si trattava di un arretramento clamoroso, causato dal fatto che nel frattempo, durante i due anni impiegati a pubblicare i risultati, fuori dalle istituzioni si era scatenata una guerra violentissima attorno al gender, con la formazione di una fazione che si accaniva contro l’avanzamento dei diritti trans che vedeva protagoniste alcune donne, definite TERF (che sta per «trans-exclusionary radical feminists»), tra cui la più famosa è probabilmente la scrittrice J. K. Rowling.
Di rado si è tentato di capire quanta responsabilità, in questa “deflagrazione”, avessero i due attori principali di questa vicenda, che sono il governo, con il suo processo di consultazione, e l’ente che in Gran Bretagna assunse il ruolo di promotore dei diritti trans. Si tratta di un’associazione che è una sorta di “behemoth” del diversity and inclusion, ovvero dei programmi aziendali DEI, chiamato Stonewall. Il rapporto del 2016 che indicava la necessità di riformare il Gender Recognition Act del 2004, redatto da una commissione governativa, era in realtà il frutto del lavoro di un’altra organizzazione chiamata Press for Change, che storicamente si occupava di diritti trans. Stonewall, che si era sempre e solo occupata di diritti LGB, e che anzi era stata accusata di essere transfobica, subentrò nel 2015. Nel 2013 era stato approvato il matrimonio tra persone dello stesso sesso e l’organizzazione sembrava interrogarsi su quale sarebbe stato il suo ruolo nel futuro. Decise di espandere il proprio acronimo e aggiungere la T di trans, causando anche una frattura interna che portò all’uscita di alcuni membri fondatori. Ad ogni modo, ora le due associazioni uniscono i loro sforzi, la prima riconoscendo che la seconda aveva un’influenza molto maggiore, non tanto presso il governo quanto presso la società civile, essendo Stonewall già a capo dei programmi quali il Diversity Champions scheme, che fornisce consulenze alle aziende sull’inclusione nei luoghi del lavoro, e il Workplace Equality Index, che assegna un punteggio alle aziende in base al grado di inclusività. All’epoca in cui decise di occuparsi anche di diritti trans tutte le più grandi aziende del paese, ma anche il settore pubblico, quindi gli uffici governativi, le emittenti nazionali come la BBC o le università più importanti del paese, aderivano ai suoi programmi.
Il linguaggio inclusivo e gli spazi per sole donne
Alla deflagrazione dello scontro contribuirono una serie di fattori, tra cui l’elezione di Donald Trump nel 2016, la ripresa negli Stati Uniti delle guerre culturali, la nomina di Liz Truss (più reazionaria sicuramente di May) a Equalities Secretary sotto il governo di Johnson insediatosi nel 2019. Tuttavia, in Gran Bretagna, il 2018 era anche l’anno in cui la campagna di “sensibilizzazione” lanciata da Stonewall nel 2015 si poneva come obiettivo il raggiungimento di un linguaggio «pienamente inclusivo». Questa campagna consisteva principalmente in una serie di nuove regole a cui le istituzioni si adeguavano se volevano continuare ad avere un punteggio alto. Di fatto la campagna era portata avanti con gli strumenti del diversity and inclusion, l’elaborazione di norme che quando venivano recepite si trasformavano in direttive aziendali. Per linguaggio «pienamente inclusivo» Stonewall intendeva la sostituzione di parole di genere maschile e femminile con termini neutri. Era dunque scoraggiata la parola “madre”, “donna”, “lei” o “lui”. Nel 2021, per esempio, le linee guida del servizio sanitario nazionale usavano un linguaggio inclusivo pienamente neutrale: bisognava eliminare l’uso dei pronomi (lei, lui) e sostituirli con il plurale they (loro) anche quando ci si riferiva a una persona singola. La rivista di ostetricia British Journal of Midwifery nel 2021 rilevava che solo 22 siti di istituti medici su 130 usavano ancora pronomi femminili e parole come “donna” per riferirsi a «persone incinte». Nel dibattito pubblico l’espressione «cancellazione delle donne» era dunque riferita a questa prassi, ai vari inviti a sostituire per esempio la parola breastfeeding, allattamento, che letteralmente significa alimentare con il seno, con il neologismo chestfeeding, “alimentare con il petto”.
Il problema di questa campagna di “sensibilizzazione” aveva innanzitutto a che vedere con il potere di Stonewall e con gli effetti di queste direttive che hanno portato in alcuni casi al licenziamento di chi le contestava. In generale la guerra scatenata attorno al linguaggio inclusivo, anche in Italia, non ha mai veramente distinto tra le istanze provenienti dai movimenti e il mondo del diversity manegement. Anche in Italia, per esempio, dove il dibattito ha infiammato il mainstream, l’indicazione di sostituire il linguaggio inclusivo con il linguaggio ampio avveniva in contemporanea alla comparsa di nuove direttive elaborate dai dipartimenti delle risorse umane negli Stati Uniti che registravano la conflittualità generata dall’inclusività. Avendo constatato che il termine inclusivity faceva aumentare, anziché diminuire, i livelli di conflitto, di ostilità e di risentimento dentro le aziende, nonché il senso di costante vittimizzazione delle persone marginalizzate, si chiedeva ora di sostituirlo con belonging, a indicare un senso di appartenenza: nessuna parte di sé doveva essere lasciata fuori dai luoghi di lavoro (bring your whole self). In realtà il cambiamento nella terminologia impiegata dai programmi DEI rifletteva l’insostenibilità dei livelli di conflitto che erano stati generati dalle stesse politiche DEI, un clima di polemica costante, lamentato dai manager, attorno alle varie identità e alle pratiche di presa di coscienza del proprio razzismo inconscio o del proprio privilegio. Era l’inizio di un passo indietro da parte delle compagnie di consulenza e dei dipartimenti delle risorse umane che riconoscevano di aver generato «un’attenzione quasi offensiva per le etichette di gruppo» che «costringeva le persone a stereotiparsi a vicenda». L’espressione “appartenenza” era un «tacito riconoscimento del fatto che il D.E.I. tradizionale non aveva funzionato».
Il secondo punto controverso nella “guerra” scatenata attorno all’inclusione riguardava gli spazi monosessuali, chiamati comunemente “spazi per sole donne”. Se l’Equality Act del 2010 vieta la segregazione in base a caratteristiche protette come il sesso, consente eccezioni in circostanze specifiche che sono soggette a proporzionalità, ovvero devono essere «un modo ragionevole per raggiungere un obiettivo legittimo». La necessità di spazi separati è in altre parole ammessa, come eccezione all’uguaglianza, ma è limitata.
Nel 2015 Stonewall aveva espresso la propria opinione su questo punto in un parere fornito al governo in cui chiedeva di riformare l’Equality Act. Tra le altre cose scriveva che queste eccezioni erano «in contrasto con la legge sul riconoscimento del genere». Lo stesso fecero altre organizzazioni come la Scottish Transgender Alliance, parte della Equality Network, che chiese al governo di «eliminare l’eccezione che consente ai servizi monosessuali di discriminare le persone trans». Ma quando il dibattito si infiammò nel 2018 – proprio questo punto sarebbe diventato il cavallo di battaglia delle associazioni in difesa dei “diritti delle donne” – Stonewall negò di aver mai fatto una richiesta del genere, anzi produsse un report specifico sui centri anti-violenza, i luoghi più contesi, in cui erano stati sentiti i più importanti servizi, che facevano presente che «molti servizi sostengono già le donne trans sulla base dell’auto-identificazione», senza distinguere tra quante avevano completato il percorso formale di riconoscimento di genere e quelle che non lo avevano fatto, ovvero ignorando la cavillosità della legge. Infatti, se l’accesso di questi spazi fosse stato “imposto” dalla legge senza una riforma del Gender Recognition Act ciò avrebbe significato lavorare solo con donne trans provviste di un certificato di riconoscimento di genere, che sono ad oggi una piccola minoranza.
Stonewall sembrava cercava di rimediare quando era ormai troppo tardi. Scriveva che gran parte dell’attenzione alle questioni trans era stata «suscitata dall’annuncio del governo britannico di voler riformare il Gender Recognition Act (2004)», non dalle sue direttive sul linguaggio inclusivo e non dall’idea che andasse eliminata l’esistenza di spazi per sole donne. Queste questioni non solo non erano oggetto della consultazione, ma neanche sembravano rispecchiare le priorità avvertite come urgenti dalle persone direttamente interessate, più preoccupate da problemi come le liste di attesa presso servizi per la salute.
È legittimo chiedersi se il risultato di questa strategia non sia stata l’alienazione della popolazione scarsamente interessata al gender ma improvvisamente attivata da una situazione di polemica permanente. La stessa J. K. Rowling iniziò a interessarsi di queste questioni solamente nel 2018. Ancora oggi si tende a chiamare in causa litigi interni ai femminismi che sono sempre esistiti, scomodando teorie filosofiche altamente complesse elaborate negli anni Settanta, Ottanta e Novanta in risposta a situazioni storiche molto diverse da quella attuale, dove il protagonismo dei femminismi sembra però lasciare in ombra un altro problema, forse più urgente, che è il modo in cui una figura come J. K. Rowling ha potuto costruire consenso presso un ampio strato della popolazione femminile che non era mai stata veramente interessata al femminismo, ma che aveva appreso dalla stampa che la parola “donna” era politicamente scorretta o che la “maternità” era escludente. All’apice del conflitto, quando la guerra sul “genere” infuriava sui social con un format molto rigido, le istituzioni iniziarono a dissociarsi da Stonewall. La prima fu la University College London, secondo cui l’adesione a Stonewall metteva a repentaglio la libertà accademica e di parola. Seguirono gli organi governativi come la commissione per i diritti umani, la BBC, il parlamento scozzese… Si verificò un esodo di massa, che coincise con l’inizio del backlash, il contraccolpo capeggiato da donne che avevano nel frattempo acquisito notorietà e followers e che potevano ora procedere facilmente all’equiparazione tra “diritti trans” e un presunto attacco ai “diritti delle donne”.
Processi democratici alla prova dei diritti trans
Il problema, in un certo senso, era il collasso di due dimensioni diverse, che anzi andavano in due direzione opposte. La cosa più singolare di questo “collasso” è l’inversione di ruolo che sembra esserci stata tra la posizione del governo, che andava verso un ridimensionamento del ruolo della legge nei confronti del riconoscimento di genere, grazie all’introduzione dell’autodichiarazione, e la posizione di Stonewall che sembrava concentrare tutti i suoi sforzi sulla produzione di nuove norme.
Sebbene il governo e Stonewall avessero realizzato una divaricazione, un lavoro sui diritti portato avanti su due fronti paralleli, uno a livello istituzionale, l’altro a livello “culturale”, dove proprio il lavoro di “sensibilizzazione” affossò la riforma, entrambi questi attori condividevano una certa idea di “inclusione”, che a sua volta, automaticamente, evoca, o chiama in causa, una certa idea di “donna”. Nel caso del governo questa “evocazione” fu reale, dal momento che furono chiamate a partecipare alla consultazione alcune associazioni a favore dei «diritti delle donne». In linea con la concezione propugnata dal femminismo dell’uguaglianza, a sua volta coniugata nei termini delle quote, il problema di queste organizzazioni è che non solo si ergono a rappresentanza delle “donne” tutte, ma sembrano pensare che le donne siano una sorta di minoranza sociologicamente a rischio di estinzione che va tutelata dalla legge. Il problema delle quote e della creazione delle categorie protette è infatti che la normativa crea delle eccezioni al dettato dell’uguaglianza. Dire dunque che anche le donne trans sono donne significa, nell’ottica delle quote, aggiungere una nuova categoria a una quota già protetta e chiedere alla prima arrivata se è d’accordo a far entrare la seconda – le associazioni in questione negarono il loro consenso. Il governo le avrebbe ignorate, erano peraltro la netta minoranza dei soggetti interpellati, ma la guerra culturale che imperversava fuori dall’aula le aveva nel frattempo legittimate, presentandole come un gruppo di interesse che andava ascoltato. Il governo stesso ora si esprimeva dicendo che la questione era controversa. Esito singolare se consideriamo che il partito conservatore, interessato a rinforzare la sua immagine liberal, era stato ottimista sulla riforma del Gender Recognition Act, convinto si trattasse di un passo che era sia importante che politicamente facile.
La legittimazione accordata alle associazioni in difesa dei «diritti delle donne», ma già il modo di impostare la consultazione, ha fatto coincidere il piano dei diritti trans con il piano della normativa sull’antidiscriminazione che tutela le donne, quando la riforma del riconoscimento di genere non aveva a che fare con quest’ultima, ma con la necessità di aggiornare una procedura ritenuta obsoleta dallo stesso partito conservatore. Il problema è anche il modo in cui questa equiparazione tra diritti e legislazione sulla discriminazione è diventa di senso comune – un problema simile è il modo in cui, a causa degli attacchi delle destre alle politiche DEI, l’espressione diversity and inclusion nella stampa è ormai usata come sinonimo di uguaglianza.
La legislazione sulla discriminazione nei regimi neoliberali assume un’importanza smisurata perché agisce in supplenza di meccanismi di creazione di uguaglianza sostanziale, che, se fosse perseguita sul serio, renderebbe l’esistenza di “categorie protette” sempre meno necessaria. Le quote, in altre parole, rispondono spesso proprio alla carenza di altri strumenti per la creazione di un’uguaglianza effettiva, che è il motivo per cui sono tenute in grande considerazione dai partiti progressisti che perseguono in parallelo il taglio della spesa sociale. Pensiamo per esempio ai tassi di occupazione femminile che, indubbiamente, trarrebbero beneficio da reali politiche di welfare, dalla costruzione di più asili nido a una effettiva uguale distribuzione dei carichi di cura fra i generi. O pensiamo agli Stati Uniti, dove le misure dell’affirmative action che regolano i criteri di ammissione alle università e cercano di correggere lo svantaggio delle minoranze cesserebbero di avere motivo di esistere se il sistema scolastico e universitario fosse uniforme per qualità, libero e gratuito. Al contrario, quando le quote garantiscono l’unica modalità di accesso al riconoscimento sociale, scambiando le leggi antidiscriminatorie per strumenti di reale emancipazione, si finisce per rafforzare la visione neoliberale della società che, nel capitalismo avanzato, è composta da gruppi portatori di interessi particolari in competizione tra loro.
Lungo questa direttrice si è giunti alla sentenza della Corte suprema inglese che si esprime sul significato che la parola “sesso”, “genere” e “donna” esclusivamente quando sono utilizzate nelle disposizioni dell’Equality Act 2010. Lo scopo della sentenza è «ridurre le disuguaglianze e proteggere dalla discriminazione le persone con caratteristiche protette». La Corte ha accettato un ricorso presentato da un’associazione chiamata For Women Scotland contro una legge scozzese che incoraggia il settore pubblico ad assegnare il 50% di posti di lavoro a donne. Il problema è che la legge scozzese definisce “donna” come «chi vive come donna e sta affrontando, ha affrontato o intende affrontare un percorso per diventare donna, anche se non ha un certificato legale di cambio di genere». Già tre tribunali si erano espressi su questa legge e le sentenze si esprimevano sulla definizione di “donna” e di “sesso”. La terza aveva rilevato che l’Equality Act del 2010, che recepisce la legge sul riconoscimento di genere del 2004, usa la parola “sesso” con due significati diversi, sottintendendo sia sesso “biologico” che sesso “acquisto” o “certificato”.
Il Gender Recognition Act del 2004 stabilisce che «quando a una persona viene rilasciato un certificato di riconoscimento di genere, il suo sesso diventa a tutti gli effetti quello acquisito», da cui l’espressione “sesso acquisito” o “certificato”. Il motivo di questa asserzione non è concettuale: legge, frutto di una stratificazione storica, conserva memoria di una fase in cui il cambiamento di genere implicava un trattamento chirurgico. In questo periodo, il fatto che la legge riconoscesse un cambiamento di “sesso” a chi si fosse sottoposto a un trattamento chirurgico era frutto dei requisiti imposti dalla legge stessa. Oggi, nella normativa inglese i termini “sesso” e “genere” sono usati in maniera interscambiabile e lo stesso termine “sesso” ha significati diversi a seconda di ciò che la legge tutela. La sentenza della Corte suprema fa notare che “sesso”, parlando di persone trans, significa sia “sesso acquisito” che “sesso biologico”, dal momento che ai fini del riconoscimento dell’identità di genere non è più necessario alcun intervento chirurgico. Menziona ad esempio il caso di un ragazzo trans che ha partorito facendo ricorso alla fecondazione assistita, pratica che sarebbe stata vietata nel caso in cui il “sesso” fosse inteso solo come “acquisito”. La sentenza ribadisce la tutela dei diritti legati al “sesso biologico” – come il diritto alle cure mediche – delle persone trans. In secondo luogo, una persona trans deve poter continuare a essere tutelata dalla legislazione sull’antidiscriminazione sotto due profili, dal momento che una donna trans può essere discriminata in quanto persona trans, quando la caratteristica oggetto della discriminazione è la riassegnazione del genere, o in quanto donna, invocando la discriminazione basata sul sesso, perché percepita socialmente come donna.
La sentenza non modifica la normativa vigente, ma stabilisce che uno stesso termine non può avere due significati diversi. Ribadisce che le donne trans non possono essere comprese nelle quote per le donne, dove la definizione di “donna” è riferita al sesso biologico. La sentenza, di per sé, non dice che le donne trans non sono donne, ma che non possono accedere agli spazi segregati, dove vale la definizione di donna basata sulla sua categoria protetta che è il “sesso biologico”. La posizione sostenuta dagli avvocati che rappresentavano il parlamento scozzese ne chiedeva invece l’ammissione, in virtù del fatto che il riconoscimento di genere coincide con la modifica del “sesso” secondo il Gender Recognition Act. Si tratta di una posizione comunque contraddittoria, perché al momento lascerebbe fuori tutte le donne trans che non hanno intrapreso un processo di riconoscimento di genere formale. Ma è importante non confondere questa sentenza con posizioni più estreme – come quelle propugnate da Trump negli Stati Uniti che vorrebbe semplicemente vietare qualsiasi riconoscimento dell’identità di genere. Nel caso inglese sono state distinte le quote, dove si applica la definizione di donna basata sul sesso biologico, dalle altre situazioni di discriminazione in cui la donna non è una categoria protetta, situazioni nelle quali una donna trans continua a essere tutelata perché percepita donna, indipendentemente dal sesso biologico.
Il punto è che se la definizione di “donna” legata al sesso biologico viene recepita come una sconfitta, la strategia adottata dagli avvocati del parlamento scozzese era destinata a fallire proprio perché sembra sopravvalutare il potere della definizione legale delle parole più di quanto non faccia la Corte. Quando la sentenza dice che «Né una donna biologica né una donna trans ‘presentano un reclamo per discriminazione sessuale diretta in quanto donne’» ma «in base alla caratteristica protetta del sesso», dovrebbe essere evidente la natura del tutto convenzionale di queste disposizioni. Che tuttavia continuano a tutelare situazioni reali in cui una donna trans è discriminata da qualcuno che crede che lei sia una donna “biologica”, senza che lei debba mai provare o giustificare la sua identità. Ciò che è paradossale è che la debolezza della posizione del parlamento scozzese derivi dal tentativo di modificare la legge sulle quote con una sorta di approccio essenzialista alle parole, come se la presenza della parola “sesso” nel Gender Recognition Act fosse sufficiente a forzare la normativa sulle quote, a determinare automaticamente una sua modifica. Mentre entrambe le parti nella contesa si appellavano alla definizione legale della parola “sesso”, la sentenza sembra ricordare che il diritto è sempre una convenzione. Di fatto le definizioni che adotta sono funzionali al riconoscimento delle situazioni che la legge già tutela. Non sono i diritti a essere ricavati dalle definizioni, ma queste a essere al servizio dei diritti riconosciuti. Il problema in questo caso non sembra risiedere nel rapporto tra sesso e genere, e nel riconoscimento giuridico di questo rapporto, su cui la Corte dichiara esplicitamente di non pronunciarsi, quanto un uso essenzialista della legge, che la legge stessa rifiuta.
Se la definizione di “sesso” è dunque problematica, i problemi concreti generati dalla sentenza avranno anche a che vedere con la chiusura di quello spazio che, nell’incertezza che era tollerata dalla legge riguardo al significato delle parole e che rispecchiava anche la stratificazione derivata dalla storia dei diritti, corrispondeva allo spazio non normato che nelle società era occupato da soluzioni pratiche, non legali, ai problemi posti dall’inclusione. Gli effetti materiali della sentenza – che a rigore non modifica nulla – deriveranno dal valore simbolico accordato non solo alla logica delle quote, che non va nella direzione di un loro ripensamento sulla base di altri fattori che non siano la definizione legale delle parole, ma alla stessa definizione legale della parola donna, che la contesa ha rinforzato. Il problema di fondo è che la questione dei diritti trans si è data, in questo contesto, nei termini dell’inclusione nella definizione ristretta di donna, con il rischio che ora spazi di qualsiasi tipo verranno trattati con la logica della segregazione.
Uscire da un binarismo distopico
A poche ore dalla pubblicazione della sentenza, la polemica già infuriava sulla sua interpretazione. Inizialmente alcune organizzazioni per i diritti trans invitarono alla calma dicendo che nulla sarebbe cambiato nella vita delle persone trans. Avevano ragione e torto allo stesso tempo, perché i timori di una lettura estrema e faziosa si sono rivelati giusti in maniera quasi immediata. Kishwer Falkner, Presidente della Commissione per l’uguaglianza e i diritti umani (EHRC), dichiarava che bisognava riscrivere le regole per l’accesso agli spazi, indicando chiaramente l’intenzione di un ritorno a un binarismo rigido, sostenendo che le associazioni per i diritti trans dovrebbero battersi per la creazione di spazi terzi, come bagni separati. Paventando anche un sistema legato all’introduzione di carte di identità digitali. Questa interpretazione non è in linea con quello che dice la sentenza, che continua a lasciare libertà di scelta su come trattare questi spazi, ma ha chiaramente già dato il via a un’immaginazione distopica determinata a implementare un binarismo irrealistico e pericoloso. È da notare che in questo caso non sarebbe neanche corretto parlare di un “ritorno” a un binarismo rigido perché questo immaginario mira a qualcosa che somiglia più alla totale giuridificazione di tutti gli spazi pubblici e privati, alla saturazione cioè di tutte quelle situazioni a cui la stessa legge continua ad accordare autonomia. Uno dei possibili effetti di ciò è per esempio l’introduzione del controllo dell’identità “biologica” o “acquisita” di tutte le donne. In virtù di come siamo “percepite”, anche le donne “biologiche” potrebbero dover dimostrare di esserlo “davvero”. Un altro problema, già contemplato da questa stessa proposta, è quello di uomini trans nei bagni per le donne. Insomma, è prevedibile che anziché operare un definitivo chiarimento, la sentenza sia solo l’inizio di una sequela di battaglie legali.
Se il piano della legge, svolta in questo senso “legalitario” e concretamente insostenibile, andrebbe contrastato e distinto da quello dei diritti, in Gran Bretagna fare questo sarà difficile, perché la realtà è già plasmata da una fitta rete di indicazioni, linee guida, norme, policy che sostituiscono la politica. In generale, lo schiacciamento della dimensione del riconoscimento sul piano della discriminazione – pressoché totale negli Stati Uniti – che accorda riconoscimento nella forma stabilita dalle eccezioni all’uguaglianza, normalizza l’idea per cui le diseguaglianze vanno affrontate per mezzo della competizione, e dunque del ricorso alla legge che giudica le contese. Il danno maggiore derivante dal modo in cui il discorso attorno ai diritti trans è stato recepito dall’opinione pubblica, ha a che vedere con la legittimità acquisita da donne che concepiscono la libertà femminile come interamente dipendente dalla dimensione della legge, che hanno cioè normalizzato l’idea che le donne siano un gruppo protetto, vulnerabile e svantaggiato, meritevole della tutela costante dello Stato.
Nessuna giustizia sociale sarà ottenuta per mezzo delle quote o con la proliferazione di categorie protette. Ma proprio la polarizzazione attorno alle discriminazioni e alle identità, gestite perlopiù con tecniche manageriali estese alla società tutta, non può tornare a essere terreno di conflitto – rimane terreno di eterne guerre culturali – se questi fenomeni non sono intesi a partire dagli effetti della crisi della democrazia e delle sue forme. Una battaglia politica e collettiva per i diritti trans, dovrebbe, in questo senso, situarsi nelle contraddizioni aperte da questo scenario, dove il significato universalistico di questa battaglia ha chiaramente a che vedere con le strettoie verso cui tutti i diritti sono stati incanalati, prodotti di una visione neoliberale che presenta la società come un luogo di competizione generale per l’accesso a posti limitati.
Norma Felli
Dottoranda in Filosofia e cultrice della materia in Storia contemporanea presso il Dipartimento di Filosofia della Sapienza, tra i suoi interessi di ricerca vi sono la storia della salute pubblica, la storia ambientale, il dibattito sulle politiche pubbliche e le filosofie femministe. È socia SISSCO, AISO e SIS. Ha ideato, insieme ad Archivia e Noidonne, il Festival della Filosofia Femminista Percorsi in genere. È stata consigliera comunale a Poggio Moiano (RI) e porta avanti attività di attivismo politico in diverse forme.
Emma Gainsforth
Traduttrice, è dottoranda presso l’Università degli Studi di Salerno con una ricerca sugli effetti delle economie delle piattaforme sul giornalismo. Ha collaborato con Il manifesto e ha fatto parte della redazione di Dinamopress.