Orwell a Kyiv. Una riflessione sull’invasione russa in Ucraina

di Francesco Brusa

Statua della Patria a Kiev. Foto di Zeynep Elif Ozdemir / unsplash

Rileggendo dentro la congiuntura attuale gli Appunti sul nazionalismo che George Orwell pubblicò a stretto giro dalla conclusione della Seconda Guerra Mondiale, si è tentati, per descrivere lo stato del dibattito sull’invasione russa in Ucraina, di utilizzare una famosa espressione anch’essa di ascendenza letteraria (riferita però stavolta al grande conflitto del 1914-18, dal romanzo del veterano Erich Maria Remarque): niente di nuovo sul fronte occidentale. Davvero, alcune pagine di quello “scarno zibaldone” redatto dall’intellettuale britannico – già volontario nelle fila antifasciste durante la guerra civile spagnola – mentre Varsavia o Dresda erano ancora un cumulo di macerie e le forze alleate liberavano il campo di Mauthausen sembrano sovrapporsi perfettamente a discussioni, tic discorsivi e atteggiamenti che vediamo proliferare su giornali, social e mezzi di informazione in generale: la stolida convinzione da parte di taluni commentatori che le operazioni militari si risolvano sempre a favore dell’armata che si reputa essere “nel giusto”, il narcisismo di certi “uomini di cultura” che per spiegare gli eventi in corso si esercitano in ragionamenti talmente astrusi da sfociare in un conclamato complottismo, la totale e irremovibile indifferenza ai dati di realtà perché ci si rifiuta di prendere coscienza che quella che magari si sente essere “la propria parte” ha commesso crimini di guerra o atrocità di vario tipo…

Nel momento in cui scoppia uno scontro cruento, e a maggior ragione quando questo – almeno da un punto di vista di mera “meccanica” delle sue fasi iniziali – è indubitabilmente avviato da un’aggressione di stampo unilaterale da parte di un esercito statale nei confronti di un altro paese, sarebbe strano che per chi osserva “da lontano” non ci sia una polarizzazione delle opinioni. Anzi, sarebbe per certi versi agghiacciante che si verifichi il contrario: poche cose come la guerra mettono le persone (letteralmente e metaforicamente) “con le spalle al muro”, spingono a interrogarsi sulle proprie nozioni di giusto e sbagliato, chiamano in causa visioni del mondo e della storia, nel senso di interpretazioni valoriali rispetto al percorso che ci ha condotti fin qui. Il problema, annota Orwell, è che tante volte prese di posizione, argomentazioni e ragionamenti sono viziate da forme di nazionalismo: vale a dire, modalità, consce ma forse soprattutto inconsce, di adesione fideistica alla linea di pensiero o di condotta espressa da un determinato gruppo in cui si pensa di riconoscersi (sia questo una “patria” concreta oppure un partito) o in cui, magari, si riconosce la concretizzazione di un’idea o di ideali in cui si sente di credere (com’è stato per molti il “socialismo realizzato” dell’Unione Sovietica, da un lato, o il “sogno della libertà individuale” rappresentato dagli Stati Uniti). Abdicazione dello spirito critico, si potrebbe riassumere in modo molto semplice, cui però – nel momento in cui il clamore delle armi e delle morti alimenta a dismisura l’emotività e sembra assottigliare lo spazio della scelta – si associano continue strategie, invero molto psicologiche, di negazione e razionalizzazione, di rimozione, quando non rifiuto esplicito, della realtà. In particolare a inquinare irrimediabilmente il dibattito sulla guerra in Ucraina sembrano delle dinamiche di transfert dalla propria dimensione mentale ai soggetti implicati direttamente nel conflitto, e dunque di un rimuginio sovraintepretativo al limite del parossismo e irrispettoso, a livello analitico ancor prima che morale, della materialità degli eventi e delle vite umane in essa coinvolte. C’è un motivo, molto prosaico, per cui succede tutto questo: da un punto di vista italiano (o comunque europeo), a “surriscaldare gli animi” (e a polarizzarli di conseguenza) c’è il fatto che ciò che avviene oggi a Kyiv, a Lviv o Donec’k e Luhans’k ha delle ripercussioni dirette sul contesto in cui viviamo. Per quanto cinico possa suonare, e quale che sia la propria opinione sulle origini e sull’andamento del conflitto, contrariamente ad altri “teatri di guerra” sparsi per il mondo l’invasione russa produce degli effetti tangibili nelle nostre società, dalle linee delle forze politiche ai prezzi del gas e delle materie prime, dalle domande di stampo identitario e culturale fino ai più recenti mutamenti nel campo dell’organizzazione della difesa europea e di un eventuale riarmo continentale. Qualsiasi posizionamento a livello di società civile o di classe intellettuale, benché dal punto di vista decisionale le leve stiano quasi sempre “un po’ più in alto”, non può avvenire a costo zero: implica sempre conseguenze molto pratiche. Se questo oggi può sembrare poco consistente, o se la questione dell’invio delle armi può comunque apparire come qualcosa di in fin dei conti interno alle “normali” relazioni fra stati, si pensi alle prime settimane di guerra in cui fra le richieste delle piazze c’era stabilire una no-fly zone a guida NATO sull’Ucraina mentre le truppe russe puntavano verso la capitale.

Il problema della guerra in Ucraina è un problema europeo, e questo perché tanto l’Ucraina quanto la Russia sono di fatto nazioni europee. Così come – sia che il Cremlino riesca a occupare in maniera permanente una porzione di Donbas o che, come sembrava ben intenzionato a fare durante le prime fasi del conflitto, arrivi a soggiogare con il suo esercito anche le regioni occidentali del paese confinante – un’aggressione militare di tale portata mette in discussione gli equilibri politici e di difesa di tutto il continente. È su questo terreno che cominciano i transfert, le proiezioni valoriali. Non è un segreto che Putin e il suo entourage abbiano coltivato un rapporto complesso, magari strumentale, con le destre estreme di diversi paesi, la cui entità è oggetto di dibattito (un “tango nero” lo definiva lo studioso Anton Shekovtsov, che ha pubblicato uno dei libri più completi sul tema). Al di là delle strategie specifiche e dei finanziamenti ai partiti, è evidente che per molti soggetti della “galassia conservatrice” o dell’alt-right contemporanea – a cui oggi si aggiunge il movimento MAGA di Trump a guida della nazione più potente della terra – la Russia rappresenti un punto di riferimento, una sorta di “significante vuoto” che viene riempito delle più disparate aspettative: da sogni di restaurazione neo-imperiali alla salvaguardia dei “valori tradizionali contro la minaccia globalista”, dalla nostalgia per uno stato forte (benché autoritario) alla volontà di opporsi, senza se e senza ma e ovunque, a qualsiasi sviluppo che favorisca in una certa misura gli Stati Uniti, il “capitale americano”, la Cia o simili… Invero, nelle sue manifestazioni più astratte e disincarnate, talvolta la simpatia verso il Cremlino sembra essere poco più che un sostegno intuitivo a qualsiasi cosa esista di altro dallo status-quo europeo e occidentale. Allo stesso tempo, però, è anche l’Ucraina a essere interessata a livello di dibattito pubblico (ma non solo) da investimenti emozionali e ideologici di diversa natura: c’è chi ne vede, in maniera speculare a quanti scorgono nella Russia una promessa di un “nuovo ordine mondiale multipolare”, nient’altro che un avamposto contro la “barbarie eurasiatica”, oppure l’esempio perfetto (data la persistente volontà espressa da una parte significativa del paese di integrarsi nell’Unione Europea e nella NATO) della superiorità del modello di sviluppo euroatlantico rispetto ad altri presenti sulla scena globale (siano questi rappresentati dalla Russia, o dalla Cina, oppure ancora in un sentimento confuso e retroattivo che ricalca gli schemi della Guerra Fredda dal “comunismo”). Probabilmente, nelle dirigenze europee, alligna anche la speranza di poter rinvigorire, attraverso il sostegno a Kyiv, il proprio consenso o comunque il consenso per il progetto comunitario – che, però, dentro alla congiuntura bellica si tinge anche di un rilancio del riarmo dall’alto e di una maggiore chiusura delle frontiere, andando così ad aumentare la disaffezione di alcuni strati della popolazione.

È chiaro che, nel momento in cui la percezione della posta in gioco con la guerra in Ucraina assume tutta questa serie di stratificazioni, le discussioni in merito diventano estremamente complicate e pressoché impossibili: molto spesso, non ci si sta realmente scontrando su quanto accade ma su altro, sugli impliciti politici che il conflitto reca con sé. Una dinamica che, se possibile, acquisisce un’ulteriore dimensione di complessità data dalla strumentalizzazione della memoria e della storia portata avanti, a vario grado, dagli attori in campo. Semplificando molto: se il Cremlino, non solo per compattare l’opinione pubblica al suo interno ma anche per reclamare autorità per il proprio paese sulla scena internazionale, insiste sul mito della Grande Guerra Patriottica e sulla vittoria russo-sovietica contro il nazifascismo (un mito che, tuttavia, tende a inquadrare il secondo conflitto mondiale in un’ottica più sciovinista che resistenziale, glissando peraltro sui punti più critici come il patto Molotov-Ribbentrop), una buona fetta della leadership politica e dell’intellighenzia culturale ucraina, intensificando un processo già in atto da un paio di decenni, rilegge e reinterpreta gli eventi dei secoli XIX e XX forzandoli dentro un lungo continuum di lotta per la liberazione nazionale dal “giogo di Mosca”, rischiando però così di appiattire sfumature e differenze e soprattutto di edulcorare i lati più oscuri di una tale epopea, come il collaborazionismo con l’occupazione nazista e la complicità nell’Olocausto. In generale, l’invasione su larga scala ha fatto riemergere diatribe e incomprensioni legate a quella “memoria tripartita” rispetto al significato della Seconda Guerra Mondiale che divide il continente europeo lungo linee di sensibilità diverse: se a ovest si ricorda giustamente la liberazione dal nazifascismo ponendo l’accento anche sul contributo delle forze socialiste e comuniste, nelle “piccole nazioni” centro-orientali (per usare un’espressione dello scrittore ceco Milan Kundera) si scorge la tragedia di una perdita di sovranità e di una doppia occupazione (simboleggiata da una parte dai lager e dall’altra dai gulag), mentre in Russia la rievocazione di Stalingrado unisce commozione per il dolore patito all’esaltazione di un senso di eroismo che diventa segno (e sogno) di potenza imperiale. Ecco allora che, spesso, l’inconciliabilità di vedute su quanto accade oggi in Ucraina si poggia anche su differenze interpretative che arrivano da molto lontano e che, soprattutto, chiamano in causa elementi cruciali e fondanti dell’ordine discorsivo attorno a cui si sono costituite le nostre società nel secondo dopoguerra.

Inevitabile perciò che l’analisi dei fatti si trasformi spesso in ricatto morale e che ogni tipo di presa di posizione, pure quella mossa da un sincero sentimento di solidarietà, porti con sé il rischio di proiezioni indebite e di transfert valoriali operati sulla pelle di chi ha molto meno margine di scelta e ragionamento. Ciononostante, il tentativo di arginare per quanto possibile la polarizzazione del dibattito non significa certo rimuovere le implicazioni etiche del proprio discorso. Al contrario, è proprio dall’esigenza di occultare quelle che Orwell definisce “verità intollerabili” che le teorie si fanno dogmi e i pensieri – tutti i tipi di pensiero, incluso il pacifismo – diventano forme di nazionalismo e così è forse giusto pretendere, in nome dell’onestà intellettuale, che ogni opinione si sforzi di esplicitare e affrontare anche le proprie contraddizioni e i propri punti ciechi: chi sostiene la resistenza armata dell’Ucraina dovrebbe per esempio fare i conti con la quota, sempre più in crescita, di quanti invece fra le fila di Kyiv disertano i combattimenti e magari provare a spiegare chiaramente, di maniera proporzionale all’andamento e al mutamento del conflitto, quali siano i limiti di legittimità di una tale resistenza; chi in nome della pace invoca il disarmo o la resa del paese aggredito dovrebbe forse riconoscere come, nel contesto di un’invasione militare, un’opzione di quel tipo sia estremamente poco percorribile e indicare con precisione quali strategie alternative alla deterrenza potrebbero essere messe in campo per soddisfare le necessità di sicurezza di diversi stati europei; chi trova giustificazioni nelle azioni di Putin dovrebbe dunque assumersi responsabilità della sofferenza che queste causano alle persone, tanto in Ucraina che in Russia, e chiedersi se è disposto ad applicare gli stessi criteri di giudizio in modo universale, a proposito di altri contesti di conflitto o riguardo ad altre entità statali – e via dicendo. Come accennato, l’intellettuale e militante britannico scriveva i suoi appunti al termine di una lunga e cruenta guerra di resistenza sulla cui necessità pochi avrebbero dei dubbi e che, in maniera più o meno strumentale, viene evocata anche oggi per giustificare il sostegno a Kyiv. Altri, nell’osservare quanto (non) avviene sul “fronte occidentale” si sentono certo più vicini alla prospettiva di Remarque e vedono analogie fra il momento attuale e l’isteria interventista che preparò l’“inutile strage” del 1914-18. Ogni analogia storica rivela qualcosa, ma nasconde qualcos’altro: in mezzo c’è forse l’impotenza delle parole di fronte alle bombe e ai massacri, sapendo però che quella per la verità e la trasparenza del discorso è una delle battaglie principali da combattere.

 

Francesco Brusa

Francesco Brusa è giornalista freelance, specializzato sulle aree dell’Europa centro-orientale e della Turchia. Collabora, fra gli altri, con Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa, il manifesto, Micromega. Si occupa anche di critica teatrale con la redazione intermittente di Altre Velocità.