Cibo, animali, sofferenza. Il benessere animale e la possibilità del dialogo
di Simone Pollo

Gli animali non umani sono oggi al centro di un paradosso. Mai come oggi la riflessione ha prodotto argomenti a sostegno dell’idea (articolata in vari modi) che gli animali non siano oggetti a disposizione degli esseri umani, ma meritino una qualche forma di rispetto morale e di protezione giuridica. Inoltre, mai come oggi gli animali godono all’interno di specifici ordinamenti giuridici di tutele e protezioni che li sottraggono allo status di semplici cose per riconoscere ad essi una forma di soggettività giuridica. D’altra parte, però, mai come prima di oggi gli animali sono stati utilizzati dagli esseri umani, per quantità e per diverse modalità. Di questo uso senza precedenti l’esempio più importante è l’allevamento a scopi alimentari. Oggi più di 80 miliardi di animali terrestri vengono macellati ogni anno per diventare cibo. Di questi la quasi totalità nascono, crescono e muoiono in condizioni di allevamento intensivo e industriale. Nel caso dei pesci le stime sono più difficili, ma si ritiene che, fra pesca e acquacoltura, non meno di un trilione di pesci venga ucciso ogni anno per farne cibo. Sebbene i modi in cui gli esseri umani interagiscono con gli animali e li utilizzino siano molteplici (basti pensare all’uso degli animali nella ricerca o agli effetti sugli animali selvatici delle diverse attività umane), l’uso alimentare degli animali ha una centralità e un’importanza diversa dalle altre. Questo per almeno due ragioni.
Anzitutto, l’uso alimentare degli animali è quello più antico e che ha avuto il ruolo più importante nella storia della nostra specie. Se nella dieta degli umani cacciatori/raccoglitori gli animali avevano una grande importanza, l’avvento della domesticazione rappresenta un evento cruciale nella storia umana. Allevamento (e agricoltura) cambiano la forma di vita umana rendendo possibile il tipo di società che di fatto è quella che ancora oggi caratterizza la condizione dell’Homo sapiens. Tuttavia, se è vero che l’allevamento ha determinato in modo profondo la vita della nostra specie è anche vero che la forma che esso ha preso nel corso dell’ultimo secolo non ha precedenti. L’allevamento intensivo e industriale, infatti, nasce e si sviluppa nel corso degli ultimi cento anni e l’incremento del numero di animali allevati è parte di quel processo di “grande accelerazione” che si avvia dopo la Seconda guerra mondiale (negli anni Sessanta gli umani mangiavano circa 70 milioni di tonnellate di carne ogni anno, mentre oggi ne consumano più di 350 milioni). L’allevamento degli animali per il cibo è un fatto che è profondamente radicato e strutturale della vita della nostra specie, ma che, allo stesso tempo, oggi è fortemente discontinuo con il passato.
In secondo luogo, ai giorni nostri l’uso alimentare degli animali è qualcosa su cui è possibile scegliere. Almeno per chi vive nelle società più sviluppate economicamente e ha mezzi economici oltre una certa soglia oggi l’alimentazione (in genere) è un ambito in cui è possibile esercitare la scelta individuale in modi che in passato erano pressoché impossibili. Anche se le generazioni precedenti consumavano molto meno cibo derivato da animali di quanto si faccia oggi, questa tipologia di cibo è parte dell’eredità che ogni membro della nostra specie si trova in dote. La grandissima parte degli esseri umani “nasce onnivora”, ovvero viene nutrita sin dalla nascita anche con cibo di origine animale. Questo fatto, tuttavia, non è un “destino”, dal momento che a un certo punto della vita diventa possibile decidere se continuare nelle abitudini acquisite o variarle. Fra tutti i diversi ambiti di relazione fra umani e animali, l’alimentazione è quello in cui attualmente la possibilità di scelta individuale è maggiore. Pensiamo a un altro campo di uso degli animali, quello della sperimentazione per ottenere farmaci e cure. Oggi chi, malato, voglia curarsi non può fare a meno di utilizzare farmaci e terapie ottenuti con la ricerca su modelli animali. Questo accade non solo perché (almeno nel contesto europeo) la sperimentazione preclinica di un farmaco deve necessariamente essere fatta su animali. Accade anche perché, di fatto, oggi la conoscenza che è raggiunta con la sperimentazione animale non può essere conseguita altrimenti (anche se la ricerca su modelli alternativi è in corso e sta già dando risultati).
Possiamo scegliere, quindi, di non cibarci con cibo di origine animale. Ma perché dovremmo farlo? Alcune delle ragioni per cui molte persone decidono una dieta vegetariana (che abolisce carne e pesce, ma mantiene latte e uova) o vegana (che abolisce qualsiasi prodotto di origine animale) sono ormai parte della conoscenza comune. Al di là delle questioni legate alla salute, infatti, la scelta vegana o vegetariana è motivata da ragioni morali. Queste possono essere articolate in molti modi, ma alla base c’è sempre il fatto che tutti gli animali che vengono utilizzati per produrre cibo sono esseri senzienti, capaci di provare piacere e dolore. A parte pochissime forme di allevamento non intensivo/industriale che sono del tutto irrilevanti dal punto di vista quantitativo, la produzione di cibo con animali comporta sempre malessere e sofferenza negli animali. Tralasciando la questione della uccisione degli animali, la sofferenza prodotta è sicuramente una ragione sufficiente per ritenere che, laddove si possa scegliere altrimenti, nell’usare animali per il cibo ci sia un problema morale. Di che genere di problema morale si tratta?
Spesso nel rispondere a questa domanda nelle conversazioni private e nel discorso pubblico si creano forti polarizzazioni e contrapposizioni. Queste contrapposizioni vedono a un estremo chi ritiene che mantenere un animale confinato in un allevamento sia equivalente alla schiavitù e che ucciderlo per ottenere cibo sia in tutto e per tutto un omicidio. Per chi muove da una posizione del genere l’alimentazione vegana è un obbligo morale del tutto identico a quello di non torturare altri esseri umani. All’estremo opposto c’è invece chi nega del tutto l’esistenza di un problema morale nell’uso di animali e nella loro uccisione per produrre cibo. A sostegno di questa indifferenza spesso c’è la convinzione di una superiorità dell’essere umano sugli altri viventi o anche l’idea che la sorte degli animali che finiscono sulle tavole umane sia parte di un “ordine naturale” delle cose. Una tigre del resto non uccide una gazzella per procurarsi del cibo? Perché l’essere umano dovrebbe fare eccezione?
Qui non ci occupiamo delle argomentazioni a sostegno delle varie posizioni, né di quelle estreme né di quelle che si collocano nello spazio fra queste. Ci chiediamo, invece, se ci sia un qualche punto fermo per il dialogo, privato e pubblico, su questo tema. Detto in altri termini, rispetto all’alimentazione che fa uso di animali c’è un qualche dato in comune su cui possono convergere diverse prospettive sugli animali, il loro status morale e le scelte alimentari degli esseri umani? Questo dato può essere il disvalore morale della sofferenza. Ciò ovviamente richiede che si muova dal riconoscimento che gli animali soffrano, ovvero abbiano una mente, cioè emozioni, cognizioni, pensieri, intenzioni e così via. Sebbene scienza e filosofia abbiano spesso dubitato della mente animale, oggi la mole di prove empiriche che la biologia e le scienze cognitive, nel quadro darwiniano del vivente, portano a sostegno della mente animale è tale da non consentire più alcuno scetticismo o negazione radicali in merito. Negare la mente animale oggi significa, di fatto, essere un “terrapiattista”. Le questioni sono essere, sicuramente, aperte circa l’articolazione e l’estensione delle facoltà mentali delle diverse specie non umane, ma non sul fatto che il mentale sia un tratto che supera i confini della nostra specie.
Acquisito ciò, perché la valutazione morale della sofferenza degli animali non umani dovrebbe rappresentare un terreno comune per le varie posizioni sulle scelte alimentari? Perché dovrebbe, ad esempio, indurre gli onnivori convinti a riconoscere comunque un problema morale nello loro stile alimentare? O persuadere i vegani più radicali che anche uno stile alimentare diverso (vegetariano, flexitariano, onnivoro coscienzioso ecc.) può essere un modo di riconoscere e farsi comunque carico del problema morale della sofferenza degli animali di allevamento? In termini generali la risposta sta nel ruolo che il riconoscimento del disvalore morale della sofferenza ha nelle società moderne e contemporanee a partire dal XVIII secolo. Il ripudio della sofferenza è, a tutti gli effetti, un elemento fondativo delle società liberali e democratiche contemporanee. Fra le varie trasformazioni provocate dalla cultura illuminista ci fu anche una diversa attenzione ai sentimenti, alle passioni e alle emozioni degli esseri umani. L’invenzione di quella istituzione tutta moderna che sono i diritti dell’uomo, che oggi chiamiamo diritti umani, fu anche il prodotto dello sviluppo di una simpatia verso la sofferenza altrui (questa storia la racconta la storica Lynn Hunt nel volume La forza dell’empatia. Una storia dei diritti dell’uomo, Laterza, 2010). In discontinuità con la visione tradizionale dell’etica precedente, di matrice cristiana, a partire dal XVIII secolo la sofferenza non è più un dato costitutivo della condizione umana da accettare passivamente, se non da intendere come una forma di elevazione spirituale. La sofferenza diventa qualcosa di moralmente inaccettabile.
Oggi viviamo in un contesto sociale e culturale (una civiltà, si potrebbe dire) che ha al suo centro proprio questo rifiuto della sofferenza. Da questa nuova consapevolezza del disvalore della sofferenza nasce anche il moderno interesse morale per gli animali non umani. In un famosissimo passaggio della Introduzione ai principi della morale e della legislazione (1789), Jeremy Bentham (1748-1832), capostipite dell’utilitarismo (una concezione dell’etica che mette al centro proprio piacere e dolore), afferma che gli animali meritano considerazione morale perché anche nel loro caso possiamo rispondere affermativamente alla domanda “Possono soffrire?”. Se per Bentham questa domanda era l’unica rilevante per includere o escludere un soggetto dalla considerazione morale, possiamo ritenere che oggi questa domanda non possa – o meglio: non debba – essere ignorata da nessun cittadino delle nostre società, anche se di convinzioni morali diverse da quelle dell’utilitarismo benthamiano. Il ripudio della sofferenza è uno dei dati fondamentali della nostra attuale forma di vita. A testimonianza di quanto profondamente appartenga alla modernità questo ripudio e come esso debba riguardare anche gli animali si può portare il pensiero Humphry Primatt (1735-1776/7), un teologo del XVIII secolo. Primatt non nega il tradizionale ordine metafisico del cristianesimo e ribadisce la superiorità umana sul resto del vivente. Tuttavia, proprio questa superiorità assegna agli esseri umani una peculiare responsabilità verso gli animali. Questa responsabilità è verso la sofferenza. Scrive Primatt in The duty of mercy and the sin of cruelty to brute animals (1776):
[…] il dolore è il dolore, sia esso inflitto a un uomo o a una bestia; e la creatura che lo soffre, sia uomo o bestia, essendo sensibile alla sua miseria fintanto che dura, soffre un male; e la sofferenza di un male, in modo immeritato, non provocato, laddove non sia stata recata alcuna offesa, e non corrisponda ad alcuno scopo buono, ma solo per esibire potere o gratificare la malvagità, è crudeltà e ingiustizia in colui che lo provoca (trad. mia).
Così come per Primatt la convinzione di un ordine gerarchico che assegna il primato agli umani non è una ragione per ignorare le sofferenze degli animali, oggi si può pensare che la convergenza sul disvalore morale della sofferenza possa rappresentare un punto di incontro fra diverse visioni delle relazioni fra umani e animali e diversi modi di intendere, di conseguenza, l’alimentazione umana. Di fatto, nella nostra società questo già accade. L’articolo 13 del cosiddetto Trattato di Lisbona che rappresenta una sorta di costituzione dell’Unione Europea afferma che gli animali possono essere impiegati nei diversi campi di utilizzo (alimentazione, ricerca ecc.), ma in quanto “esseri senzienti” il loro benessere deve sempre essere salvaguardato. Il “benessere animale” rappresenta il modo in cui l’attenzione alla sofferenza, anche animale, è istituzionalizzato nelle nostre società.
È sicuramente vero che nel contesto della produzione alimentare oggi il benessere animale è una locuzione quasi sempre vuota, per via di leggi inadeguate e di pratiche non rispettose delle poche disposizioni normative in materia. Anche per questo si può auspicare che le conversazioni private e pubbliche sull’uso alimentare degli animali tengano per fermo il rifiuto della sofferenza animale e, quindi, ritengano una vera tutela del benessere degli animali allevati un fatto imprescindibile per tutti, quali che siano le proprie convinzioni morali e i propri stili alimentari. Questo vale sia per chi si colloca fra quanti non intendono rinunciare al cibo di origine animale, ma anche per chi al lato opposto dello spettro ritiene inaccettabile qualsiasi uso degli animali. Spesso chi afferma una tale posizione invoca per gli animali diritti inalienabili come quelli umani e ritiene l’idea e la pratica del benessere animale solo un alibi per perpetuare lo sfruttamento. A tale proposito vale la pena ricordare la posizione del primo teorico dei diritti animali, Henry Salt, autore di un lavoro pionieristico: I diritti degli animali considerati in relazione al progresso sociale (1892). Scrive in quest’opera Salt:
Noi dobbiamo affrontare il fatto che i servizi degli animali domestici siano diventati, giustamente o ingiustamente, parte integrante del sistema della società moderna; noi non possiamo immediatamente fare a meno di questi servigi, non più di quanto possiamo fare a meno dello stesso lavoro umano. Ma noi possiamo fare in modo, per lo meno come un primo passo verso una più ideale relazione futura, che le condizioni sotto le quali tutti questi lavori vengono svolti, sia dagli uomini sia dagli animali, siano tali da permettere al lavoratore di trarre qualche apprezzabile piacere dal lavoro, anziché di sperimentare ingiustizia e maltrattamenti nel corso di tutta la vita.
Salt non rinuncia all’idea di un progresso morale che conduca all’affermazione di diritti per gli animali e, quindi, alla cessazione del loro uso. Questo progresso dovrebbe essere parte integrante dello sviluppo della democrazia. Tuttavia, è consapevole della impraticabilità di una rapida realizzazione dell’abolizione dell’uso degli animali. Nel frattempo si pone il problema della condizione di vita degli animali che vengono ancora utilizzati. Se questo era valido per Salt in un’epoca in cui la popolazione umana era di poco più di un miliardo e mezzo, lo è ancora di più oggi che la Terra è popolata da otto miliardi persone.
Simone Pollo
Simone Pollo è Professore associato di Filosofia morale presso il Dipartimento di Filosofia dell’Università di Roma Sapienza, dove insegna “Bioetica” ed “Etica e scienze del vivente”. Svolge attività didattica sui temi dell’etica animale anche presso il corso di laurea magistrale in “Evoluzione del comportamento umano e animale” dell’Università di Torino, presso il Máster en Derecho Animal y Sociedad dell’Universitat Autònoma de Barcelona e presso l’Università Kardinal Wyszyński di Varsavia. È membro del Collegio dei docenti del Dottorato in Filosofia della Sapienza, del Comitato scientifico e tecnico di Politeia-Centro per la ricerca e la formazione in politica ed etica, e della Direzione editoriale della rivista Iride. Filosofia e discussione pubblica. Ha pubblicato, fra l’altro, le monografie: Scegliere chi nasce. L’etica della riproduzione umana tra libertà e responsabilità (Guerini & Associati 2003), La morale della natura (Laterza 2008), Umani e animali. Questioni di etica (Carocci 2016), Manifesto per un animalismo democratico (Carocci 2016). Ha curato, insieme ad Augusto Vitale, il volume Human/Animal Relationships in Transformation: Scientific, Moral and Legal Perspectives (Palgrave MacMillan 2022). Considera gli animali (Laterza, 2025) è il suo ultimo libro.