Sull’assenza di empatia attorno al conflitto in Medio Oriente
di Simon Levis Sullam

In una nota intervista del 2000 al giornale israeliano “Haaretz”, il grande critico letterario palestinese Edward Said disse provocatoriamente di essere “l’ultimo intellettuale ebreo”, sulla scia di Theodor Adorno e di altri studiosi ebrei che avevano influenzato la sua opera. Ciò che Said proponeva in modo immaginativo era che nelle sue esperienze di intellettuale esule e di attivista per la causa del suo popolo, potessero rispecchiarsi e convivere anche le esperienze e lo sguardo di ebrei diasporici, se non di israeliani. In un certo senso Said suggeriva che fosse più quello che arabi ed ebrei condividono, di quello che li divide.
Sullo sfondo della tragedia che ha avuto inizio con la violenta aggressione di Hamas il 7 ottobre 2023 ed è proseguita con la sanguinosa ritorsione israeliana dei mesi successivi, uno degli aspetti che più mi hanno colpito nei rapporti tra israeliani e palestinesi, tra ebrei ed arabi, è l’assenza non solo di dialogo, ma di qualsiasi forma di empatia. Ciò è in buona parte comprensibile e probabilmente inevitabile in un conflitto cruento che si è rinnovato e acuito. Ma è anche drammatico tra due soggetti che condividono esperienze storiche, geografiche e in parte culturali. Nonché l’amore per la stessa terra: ciò che naturalmente allo stesso tempo li divide.
Circa un secolo fa alcuni intellettuali ebrei tedeschi trasferitisi nella Palestina mandataria o che si interrogavano sulla prospettiva di creare uno stato ebraico – tra cui lo storico Gershom Scholem e, più tardi, la filosofa Hanna Arendt – elaborarono per primi il progetto di uno stato binazionale ebraico ed arabo (oggi israeliano e palestinese), basato sulla convivenza, sulla condivisione di alcune funzioni di governo, infrastrutture e servizi, nonché di un comune destino nella regione mediorientale. Oggi questa prospettiva pare molto lontana o decisamente utopica. Ma anche il ritorno più concreto, seppure non immediatamente intravedibile, all’idea di “due popoli, due stati” non può basarsi evidentemente sulla conflittualità e contrapposizione. Richiede invece disponibilità al dialogo, elementi di condivisione e la possibilità di una coesistenza pacifica.
Il percorso per realizzare questa prospettiva di convivenza pare oggi decisamente lungo ed in salita. Ma una delle premesse necessarie è quella di elaborare delle narrazioni condivise. Queste narrazioni, che devono riguardare la storia della regione nell’ultimo secolo e oltre, il conflitto e le rispettive e reciproche responsabilità, non possono fondarsi immediatamente – e probabilmente nemmeno in seguito – su racconti identici per le due parti. Ma devono avere come base anche una capacità di empatia: cioè la possibilità di mettersi nei panni degli altri, di condividerne almeno in parte sofferenze, aspirazioni, affetti.
Un analogo percorso venne intrapreso negli anni Novanta del secolo scorso, al termine dell’esperienza dell’apartheid, dalle comunità bianca e nera del Sud Africa con la Truth and Reconciliation Commission, voluta da Nelson Mandela e presieduta da Desmond Tutu. Gli sforzi di ricostruzione, riparazione e riabilitazione con strumenti storici e giuridici dovevano fungere da premessa per la ridefinizione delle regole di convivenza e di un futuro comune. Non so se sarà possibile realizzare questo per israeliani e palestinesi, anche se ritengo che dovranno essere in qualche modo riconosciuti i reciproci torti, dalla Nakba (la catastrofe palestinese del 1948) al massacro del 7 ottobre, su cui le narrazioni oggi divergono. Esistono cioè delle memorie – e quindi delle identità – che attendono di essere riconosciute nel discorso pubblico israeliano e palestinese, ma anche da parte delle rispettive diaspore e dalla comunità internazionale.
Un esempio concreto di narrazioni contrapposte ai tempi della guerra di Gaza mi sembrano gli angoscianti e provocatori rituali di restituzione dei prigionieri israeliani da parte di Hamas – di quelli per la restituzione dei palestinesi da parte di Israele non ci è stata nemmeno consentita la vista – escogitati e condotti con evidenti intenti politici strumentali, anche per offendere l’altro politicamente e psicologicamente, degradando la dignità di uomini e donne e facendo tabula rasa di ogni elemento di umanità e compassione. D’altra parte, se è comprensibile la prostrazione degli israeliani e degli ebrei della diaspora in occasione dei funerali della famiglia Bibas (madri e figli piccoli trucidati da Hamas), divenuti in qualche modo simbolo universale della violenza del 7 ottobre, è vero che per il mondo israeliano e per quello ebraico pareva esistere solo e soltanto quella atroce storia di sofferenza e di dolore. Senza che potesse esserci alcuno spazio, nemmeno per una loro evocazione, per le migliaia di altre storie di sofferenza e dolore dei palestinesi, prodotte da Israele nei mesi passati.
Ciò che mi ha colpito dal 7 ottobre in avanti è stata, in effetti, l’assenza di condivisione ed empatia che emergeva nei racconti di quanto era avvenuto e continuava a svilupparsi in una inarrestabile scia di sangue. Non mancava solo il riconoscimento reciproco della violenza scatenata da entrambe le parti e delle rispettive sofferenze. Questo riconoscimento mancava anche nel pur sacrosanto discorso internazionale di critica alla guerra e di censura dei comportamenti di israeliani e palestinesi. Sia chi definiva “nazista” la violenza palestinese, che chi bollava di “genocidio” la risposta israeliana cruenta, dimostrava tra l’altro l’incapacità di mettersi nei pani degli altri e l’assenza di rispetto per la storica sofferenza dei soggetti coinvolti.
Quando Edward Said rivendicava di essere l’“ultimo intellettuale ebreo” ci indicava invece la difficile e straniante, ma umanissima possibilità di identificarsi con l’altro, di farsi carico almeno in parte della sua storia e dei suoi ricordi dolorosi, ma anche di assumerne la ricchezza della visione e della capacità dialogica.
Simon Levis Sullam
Simon Levis Sullam è professore ordinario di Storia contemporanea. Ha studiato a Venezia, UCLA e l’EHESS di Parigi, conseguendo la laurea e il dottorato in storia a Ca’ Foscari. E’ stato borsista della Fondazione Einaudi di Torino (2000); Research Associate Fellow all’Italian Academy della Columbia University di New York (2005-6).
Si occupa di storia d’Italia tra Ottocento e Novecento con particolare attenzione per la storia politica, della cultura, degli intellettuali e delle idee; di storia degli ebrei; di storia dell’antisemitismo e dell’Olocausto. Tra i suoi interessi la storia della storiografia e i problemi di metodo storico. Tra le sue pubblicazioni, Una comunità immaginata. Gli ebrei a Venezia, 1900-1938 (Unicopli 2001), L’archivio antiebraico. Il linguaggio dell’antisemitismo moderno, Bari-Roma (Laterza, 2008); I fantasmi del fascismo. Le metamorfosi degli intellettuali italiani nel dopoguerra (Feltrinelli, 2021).