Moni Ovadia. Riflessioni sul colonialismo
di Sara Casini
Stilare un resoconto del primo incontro di Il mondo è quadrato e saltella, tenutosi il 22 novembre ad Arté, è un’operazione di sintesi che difficilmente può restituire la ricchezza della conversazione tra Moni Ovadia, Graziano Graziani e un certo numero di spettatori: quello che segue è quindi un collage che cerca di mettere insieme le impressioni su una serata significativamente lunga e densa di parole. La conversazione prende il nome di Riflessioni sul colonialismo.
La scoperta dell’altro
Graziani dà inizio all’incontro citando Orientalismo di Edward Said, pubblicato in Italia con il significativo sottotitolo L’immagine europea dell’occidente: in esso, l’intellettuale palestinese-statunitense sottolinea quanto concetti che noi facilmente diamo per scontati (come quello di ‘Oriente’), siano in realtà costruzioni culturali che spesso aderiscono a modelli di dominio. Ecco dunque, dice Graziani, che «scoprire che siamo noi europei ad aver definito molto di quell’Oriente è significato anche scoprire l’altro: la scoperta dell’altro ha significato anche mettere in crisi il nostro punto di vista. Perdendo l’universalismo che ha caratterizzato l’Europa ha significato acquisire altre identità e conoscenze».
L’opposizione Occidente-Oriente si snoda nella risposta di Moni Ovadia a partire dall’origine del cristianesimo, che «perde la propria connotazione orientale e diventa religione dell’impero, assumendo un ruolo politico dominante», e infine «il colonialismo prende anche l’evangelizzazione come ruolo». Se la parola di Cristo è destinata all’intera umanità, con un afflato universalistico potenzialmente egualitario, è dunque nella perdita della connotazione orientale, e nella contaminazione del potere, che il dettame si fa impositivo. Se l’altro è evangelizzabile insomma, è ovviamente perché si trova in una posizione di minorità che deve essere sanata (take up the White Man’s burden!).
Universalismo mendace
Il ‘progetto universale’ assume diverse connotazioni nelle varie epoche, eppure, sottolinea Graziani, «il grande rimosso, che produce senso di colpa, sta in un pensiero che si raccontava universale ma poi nella sua forma applicativa era solo per un pezzo del mondo, maschile, possibilmente bianco, eterosessuale». Emerge l’esempio di Toussaint Louverture, rivoluzionario haitiano che fece propri i valori della Francia rivoluzionaria al punto da applicarli contro la stessa Francia colonizzatrice. Si crea così un cortocircuito che rende manifesta la fallacia di un universalismo che può definirsi tale solo se si esprime tra simili. «C’è» incalza Graziani «una doppia morale nel progetto universale: penso che la grammatica del colonialismo sia in questa doppia morale. Se questa è la grammatica, il sostrato è poi l’economia e il perpetuarsi di un’economia schiavista che per lungo tempo è stata esplicita e adesso è implicita. La linea del colore è stata la maggior giustificazione, la più pratica, dell’applicazione di queste forme di discriminazione».
Ovadia disegna alcune coordinate storiche in cui inserire il problema, che lambisce ma di cui forse non colpisce il cuore: «È un cortocircuito gravissimo dell’intelligenza: distinguere sulla base del colore della pelle costituisce una regressione anche rispetto al passato, perché ad esempio i Romani questa distinzione non la facevano». Atterra poi alla fine del XIX secolo: «L’imperatore Franz Josef quando faceva i suoi discorsi pubblici si rivolgeva “ai miei popoli” non “al mio popolo”. Quando è finito l’impero ottomano ed è nata la giovane Turchia c’è stato il genocidio degli armeni, perché dovendo trovare una dimensione nazionale e non imperiale gli elementi allogeni dovevano essere liquidati». In una logica coloniale, l’alterità deve insomma essere contemporaneamente marcata, resa riconoscibile, e combattuta con armi culturali (la reificazione dell’altro) che ne giustifichino l’annientamento. L’economia gioca in questo, e forse sempre più, un ruolo dirimente, dato che «con lo sviluppo ipertrofico del capitalismo l’elemento della povertà prevale sulla linea del colore». Ovadia dipinge però con toni vivissimi quella che considera una speranza: «Quello che ci aspetta sarà un enorme cambiamento delle prospettive: molte delle nostre aziende diventeranno indiane o cinesi e/o a partecipazione. I porti europei già lo sono in gran parte. Allora forse finalmente ci libereremo di questa pestilenza che è stato il razzismo e il colonialismo».
Mi si risvegliano in testa le parole di una scrittrice – figlia di un nazista e amante di un ebreo – che ho letto forse troppo e i cui pensieri si confondono coi miei: «I miei pensieri sono politici, sociali o di qualche altra categoria ancora, di tanto in tanto sono anche pensieri solitari e inutili, ma in ogni caso fanno parte di un gioco dalle regole prestabilite, e io talvolta penso anche di cambiarle queste regole. Ma non il gioco. Il gioco mai!». Insomma nel gioco (che è la mentalità colonialista) mi chiedo quanto possa essere risolutivo che i personaggi cambino, che i padroni – che per secoli sono stati maschi dalla pelle chiara – cambino forma o colore, se non cambia la mentalità. L’ingiustizia di fondo, sospetto, rimarrebbe invariata.
La riflessione si orienta sul conflitto israelo-palestinese, in cui con dolorosa chiarezza si manifestano tutte le caratteristiche della mentalità coloniale finora elencate: l’asservimento dei dettami religiosi a dinamiche di potere, l’esaltazione dell’alterità fino alla disumanizzazione dell’altro. Ovadia si esprime con chiarezza pungente: «Rifiuto la definizione di Stato ebraico per Israele: richiedo che sia definito stato sionista. Il sionismo è un’ideologia colonialista, razzista e segregazionista, d’impianto occidentale. Pensare che questo viene da ebrei, esseri umani che hanno subito lo stesso processo da parte dei nazisti: questa cosa è così forte nell’essere umano da cancellare la memoria di chi sei. Io sono radicalmente antisionista perché ebraismo e sionismo non hanno niente a che fare l’uno con l’altro». E ancora: «il più grande crimine della storia non è stata la Shoah ma è stato il colonialismo, che permane ancora oggi».
Identità fluide
Se ‘ebraismo e sionismo non hanno niente a che fare l’uno con l’altro’ è perché per Ovadia l’identità ebraica è irriducibile ai termini limitanti in cui la costringono i seguaci del progetto sionista: «Quella ebraica è un’identità paradossale, insieme fortissima e fragilissima. L’identità ebraica non è di carattere nazionale né razziale». È oscillando sul filo del paradosso che l’identità cerca la propria definizione e si scopre in definitiva porosa, permeabile. “Giuridicamente” è ebreo chi è figlio di una donna ebrea o chi si sia convertito all’ebraismo. Eppure, «fuori dalle definizioni giuridiche, si potrebbe dire che ebreo è colui che passa la vita a chiedersi cos’è un ebreo. Si tratta insomma di un’identità molto labile che non richiede pratica né obbligo di fede perché l’ebraismo non ha dogmi». Ecco invece che – continua Ovadia – «I sionisti sono i peggiori nemici dell’ebraismo perché vogliono irrigidire in una terra nazionale un’identità che è nata nell’esilio». Se ne potrebbe forse trarre un discorso più ampio: l’irrigidimento dell’identità in categorie statiche è un’operazione sempre violenta e innaturale in cui incorriamo continuamente.
Prospettive per il superamento di una mentalità coloniale
Dopo aver molto parlato del passato e di come si ripercuote sul presente, l’ultimo intervento dirige l’attenzione verso il futuro. Tre ambiti in cui può articolarsi la possibilità del superamento di una mentalità violenta sarebbero dunque: il colonialismo, «diventata – dice Graziani – una griglia di lettura dei rapporti di forza molto più di qualche decennio fa, a partire da proteste anche iperboliche come il caso dell’abbattimento della statua di Edward Colston a Bristol», l’ecologia, strettamente legata a un’economia spietatamente consumistica, e i femminismi, al cui proposito Graziani ricorda Abdullah Öcalan, il cui progetto di confederalismo democratico passa dall’emancipazione femminile.
Su quest’ultimo aspetto Ovadia focalizza l’attenzione, sottolineando doverosamente che se si parla di emancipazione femminile «non si parla del fatto che una donna vada al potere cooptata da un sistema che è maschile» (e, aggiungo, magari rivendicando il proprio ruolo in forme tipicamente e intrinsecamente maschili, fino a pretendere di esser chiamata il e non la presidente, definendo insomma il proprio genere come un accidente della storia). Continua Ovadia: «Il processo di liberazione non è la maschilizzazione del mondo femminile ma avere il contributo dello specifico del mondo femminile che determina l’orientamento di fondo della società che intendiamo noi».
Al termine della conversazione, le prime domande che arrivano dal pubblico insistono proprio sulla questione dello specifico femminile (ed è paradossale, persino comico, un dialogo tra uomini su un tema come questo). E poi, quando il tempo dell’incontro è ormai scaduto, il desiderio di continuare a discutere di questi argomenti – decolonialità, mondo multipolare, rapporti di forza tra i paesi e disparità tra le persone sulla base di un’appartenza etnica – è più forte del richiamo del moderatore. Le questioni si sommano, si moltiplicano, ed è impossibile riportare tutte in questa sede. È sufficiente mettere a conclusione l’ultimo scambio di idee, che comincia con la domanda di una signora di nome Anna, le cui osservazioni io credo racchiudono uno dei nodi centrali della serata: «Il potere si basa sul creare sempre più divario tra le persone, tra chi lo detiene e chi lo subisce. Anche il colonialismo funziona così. Le giustificazioni che sostentono questo stato di cose sono tali e tante che talvolta sembra impossibile capire dove cominci la catena della discriminazione. È possibile invertire questo meccanismo e riavvicinare le persone?». Una risposta univoca non c’è, ma Ovadia, da mattatore della serata, conclude con una sua chiosa che strappa un applauso: «Il lavoro da fare è grande e ci vuole molto tempo e grande investimento di energie e possibilmente di risorse. Io, se mi permette, lascio a lei questo compito, perché le mie forze cominciano a scemare. Mi auguro però di vivere ancora a lungo, non perché mi interessi vivere tanto, ma per poter continuare a danneggiare ogni potere costituito».
Sara Casini
Laureata in italianistica, si è occupata di critica teatrale all’interno della rivista Lo sguardo di Arlecchino. Oggi lavora come libraia, ha scoperto una passione per gli albi illustrati e si occupa saltuariamente di teatro e poesia.