Roberto Castello. Riflessioni sul dialogo
di Sara Casini
Il mondo è quadrato e saltella è una frase che anni fa Roberto Castello ha visto su un muro di Torino. «Era una scritta piccola, verde brillante, l’unica di quel colore, ma soprattutto l’unica che esprimesse un tono diverso dalle scritte circostanti, rosse o nere, espressioni di tifo calcistico o politico», racconta. Una poesia postmoderna monoverso? Chi lo sa. Di certo, in mezzo a tante frasi che gridano a gran voce il proprio monolitico schieramento e il reciproco disprezzo, dire che il mondo è quadrato e saltella apre di colpo un beffardo cambio di prospettiva.
Nello scegliere questo titolo per una rassegna di incontri su questioni cruciali del presente, come la crisi climatica, il colonialismo, l’attivismo, le identità plurali, c’è già in controluce una dichiarazione di intenti. McLuhan diceva che il mezzo è il messaggio; ma se i media sono oggi viziati da una faziosità che rende difficile prestare fede a quanto si legge, del messaggio cosa resta? «Il medium universale ha la forma di qualcuno che ci parla da uno schermo televisivo o, se va molto bene, da un palco, e con cui non possiamo veramente interloquire», riflette Roberto Castello. Nel ciclo di incontri che si sono svolti a Capannori nelle ultime settimane del 2024, invece, il segno principale era proprio il dialogo.
Allargherei ancora di più la riflessione: anche quando interloquiamo – o pensiamo di farlo – ad esempio su un social media, è quasi certo che ci stiamo muovendo all’interno di una filter bubble costruita per noi, spesso col nostro inconsapevole consenso, e che il confronto sia dunque un continuo misurarsi con opinioni molto simili alle nostre. È forse l’abitudine a cercare nell’altro lo specchio di sé, la necessità di riconoscere e riconoscersi una coerenza inflessibile, che rende apparentemente incomprensibili le posizioni diverse dalle nostre. Se l’altro non è percepito nella ricchezza della propria alterità, ma nella povertà del proprio non allineamento con noi, avremo la sensazione di essere isolati e incompresi: «Coviamo il nostro malcontento e il nostro dissenso con l’impressione, spesso, di essere gli unici disadattati a pensarla in un certo modo. Ma può capitare anche di credere che ciò che pensiamo sia assolutamente banale e scoprire invece l’esatto contrario», spiega Castello.
Oggi è possibile conoscere dettagliatamente opinioni di persone che vivono fisicamente molto distanti da noi e, al contrario, non sappiamo quasi nulla delle posizioni politiche o etiche delle persone che ci vivono accanto, con cui condividiamo lo spazio. Ci accorgiamo, ad esempio, che Fratelli d’Italia è il primo partito del Paese mentre, magari, tutte le persone che conosciamo sembrano aver convintamente votato dall’altra parte; in situazioni del genere il mondo diventa scarsamente comprensibile, ma così facendo svela la sostanziale limitatezza del nostro punto di vista e della possibilità delle nostre relazioni individuali.
Secondo Roberto Castello questa parcellizzazione del pensiero è il frutto della disintermediazione dei nostri giorni: quando era normale ritrovarsi nelle sedi di partito o nelle parrocchie, parlarsi e conoscere il pensiero dell’altro era un’azione quotidiana, alla portata di tutti. Per questioni anagrafiche non ho potuto conoscere questa dimensione di cui parla, ma mi risolvo a credergli. «Il mondo è quadrato e saltella vuole provare ad essere l’occasione per discutere con passione di ciò che è bene e ciò che è male, di ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, dal vivo, con degli esseri umani cui possiamo rispondere e che ci possono rispondere a loro volta».
È naturale, credo, che si scivoli nella tendenza a vivere comodamente, rifugiandoci in spazi sicuri e in paradigmi dati che ci rendano la realtà comprensibile e perciò sostenibile; quello che forse dovremmo dirci con maggior lucidità è che tutti i paradigmi si stanno facendo insufficienti, dal momento che il globo è sull’orlo di un collasso climatico e demografico e che l’emergenza è puramente umana.
«Io credo – continua Castello con un pizzico di ottimismo – che tutti ci poniamo la domanda di come dovrebbe essere il mondo per funzionare meglio, così come ci aspettiamo che chi si candida a rappresentarci ne abbia una. La politica invece ha smesso da tempo di essere confronto di visioni del mondo, per trasformarsi in un competitivo mercato del consenso. Etica e politica dovrebbero essere indissolubilmente intrecciate. È stata l’invisibile mano del mercato a generare il modello di sviluppo di cui ora si vedono tutti i limiti. Ci sono aspetti dell’esistenza che devono necessariamente essere sottratti alla logica della convenienza individuale contingente e affrontati come questioni di interesse comune di lungo periodo. In quale quadro etico? Occorre un sistema di valori che ci aiuti a collocarci in modo non distruttivo e non violento su questo piccolo pianeta».
A fare da filo rosso a questi tre incontri è un libro, Decolonizzare la mente, di Ngugi Wa Thiong’o, intellettuale kenyota oggi ottantaseienne, docente all’università di New York. Wa Thiong’o fa della lingua un ricco strumento di riappropriazione culturale, e dopo aver pubblicato i primi libri in inglese dagli anni Settanta decide di scrivere nella sua lingua nativa, il kikuyu, scelta che gli ha procurato un anno di detenzione. «Un libro che è tutt’ora il punto di riferimento di molte riflessioni che vanno anche molto al di là dei suoi peraltro pacatissimi ragionamenti su quanto lingua e sistema scolastico, molto più delle armi, siano stati gli strumenti per radicare indelebilmente la cultura dei colonizzatori in Africa». Questi incontri si inseriscono insomma nel non sistematico progetto culturale promosso da tempo da ALDES | SPAM!, che da anni fa sì che nella piana lucchese si entri in contatto con culture e visioni diverse da quella eurocentrica. Se si inizia un percorso di riflessione in cui si cerca di comprendere le posizioni di scrittori e intellettuali che, ad esempio, hanno partecipato al processo di decolonizzazione africana, diventa naturale rendersi conto che il colonialismo è una modalità di lettura del mondo e delle relazioni di cui siamo inevitabilmente impregnati.
«Mi sembra sano e rassicurante – dice Castello in apertura della prima serata – che stasera siamo così tanti ad imbastire ragionamenti che partono dal pensiero di un intellettuale africano. Ci aiuta infatti a prendere, almeno per un attimo, le distanze dall’idea che il mondo abbia un solo centro e tante periferie. Che esista per l’umanità un’unica strada in cui alcuni sono più avanti e altri più indietro, che ci sia dunque qualcuno che ha il diritto di imporre, più o meno gentilmente, agli altri – per il loro bene – il proprio dio, le cose in cui credere, le cose da volere e le cose da fare. Mettere tutto in discussione, anche le cose che potrebbero sembrare più indiscutibili, coltivando la qualità della lingua e la linearità del ragionamento è la migliore prevenzione per la sclerosi del pensiero e la catena di devastanti idiozie che inevitabilmente ne derivano».
Seppur con brillanti premesse, ammetto di aver partecipato ai tre incontri, nell’atmosfera distesa e familiare di Artè, con il sospetto che tanto io quanto il resto del pubblico cercassimo in parte il conforto di riflessioni che ci facessero sentire intellettualmente attivi senza costringerci ad esserlo davvero una volta usciti dalla sala. L’altro inevitabile rischio è che il dibattito divenisse un modo per dimostrarsi reciprocamente le proprie abilità oratorie, l’articolazione delle proprie opinioni, e non la voglia di metterle in discussione. Già il primo incontro, conclusosi con una quantità tale di domande assolutamente diverse tra loro e che pure hanno trovato reciproca e ricca risposta, ha almeno in parte fugato il rischio di autoreferenzialità. Il fatto poi che nei giorni successivi ad ogni incontro mi sia ritrovata a parlare con più d’una persona di quanto discusso mi ha poi rincuorato dimostrandomi che un vivo desiderio di confronto è (ancora) possibile.
Perché un confronto sia fruttuoso, insegna Ngugi Wa Thiong’o, è necessario che non si provi ad occultare la scarsa densità del pensiero con una manieristica densità della lingua; mi sembra che questo non sia accaduto se non per sporadici istanti nei tre incontri, e spero (sarà il lettore a giudicare) non accada nei resoconti degli stessi, che costituiscono questo numero di 93%.
Sara Casini
Laureata in italianistica, si è occupata di critica teatrale all’interno della rivista Lo sguardo di Arlecchino. Oggi lavora come libraia, ha scoperto una passione per gli albi illustrati e si occupa saltuariamente di teatro e poesia.