Viaggio

di Giuliano Battiston

Foto di Juan Goyache – Unsplash

«Le scrivo per chiederLe un suo parere, consiglio su un’eventuale visita in Afganistan e come vede in questo momento la situazione di sicurezza, culturale etc in Afganistan per un viaggio conoscitivo da donna solo traveller. Quello che mi motiva ad andarci è sopratutto per conoscere la sua gente, i suoi luoghi di storia e cultura e verificare da me quale è la reale natura e situazione di questo popolo». Così una email ricevuta nell’agosto 2023, inviata da una viaggiatrice italiana, allora in Pakistan, incerta se varcare il confine per un viaggio in Afghanistan.
A poco più di un anno di distanza, nell’ottobre 2024 a Kabul incontriamo turisti e turiste cinesi, europei, australiani, anche un’italiana, arrivata fin qui «per conoscere la sua gente, i suoi luoghi di storia e cultura», come la mittente dell’email. La presenza dei turisti in Afghanistan è sintomatica di molte cose. È un sintomo della fine del conflitto militare tra i Talebani da un lato, i soldati dell’esercito della vecchia Repubblica islamica e i loro alleati occidentali dall’altro. Un segnale dunque di quella sicurezza che i Talebani rivendicano di aver portato nel Paese con una vittoria guadagnata tanto sul campo di battaglia quanto al tavolo negoziale, incassando nel febbraio 2020 un accordo storico con il governo Usa. Ma è anche un sintomo dello stato del turismo globale, venuta meno la parentesi pandemica.

Oggi forse appare inverosimile, ma per qualche tempo – tempo di Covid, restrizioni, vincoli sanitari, voli interrotti – qualcuno ha coltivato l’idea che la pandemia potesse trasformare quella che Marco d’Eramo ne Il selfie del mondo (Feltrinelli) definisce “un’economia intrinsecamente espansiva”. Ci si è illusi che potesse essere ricondotta entro parametri di sostenibilità sociale ed ecologica un’industria che genera il 13% del prodotto interno lordo mondiale, dà lavoro a un lavoratore ogni dieci e che, ci raccontava tempo fa Valentina Doorly, autrice di Megatrends Defining the Future of Tourism (Springer), «per volumi è passata dai 527 milioni di movimenti internazionali del 1995 a 1,5 miliardi nel 2019». L’illusione era forte. Ricordiamo articoli e pronostici: la bolla dell’overtourism si sgonfierà una volta per tutte, si diceva, si passerà al turismo delle tre “p” (povero, popolare, di prossimità). Una tesi parte della più ampia retorica sul Covid come mezzo di trasformazione e palingenesi sociale.
In realtà la bolla dell’overtourism si è sgonfiata soltanto per pochi mesi, mesi di costrizione domestica e vaccini inoculati e contestati, ma è presto tornata a crescere. Siamo tornati a consumare il pianeta. A visitare le città globali quanto gli angoli più sperduti, inclusi quelli afghani appunto. Da qui la domanda: città del turismo globale e angoli sperduti sono rovesci della stessa medaglia, o luoghi destinati a classi di turisti completamente diversi?

Kabul, che per semplificazione usiamo qui come esempio di “angolo sperduto” sebbene vi arrivino voli internazionali, non è certo Roma, città devota al turismo e diventata, secondo Marco d’Eramo, un semplice “guscio vuoto”, un “fondale di teatro” sul quale viene messo in atto lo spettacolo turistico. Kabul non è neanche Firenze, altra città divenuta oggetto di consumo frenetico e occasionale, come dimostrano Grazia Galli e Massimo Lensi ne La filosofia del trolley. Indagine sull’overtourism a Firenze (Garmagni editrice 2019). Ed è senz’altro vero che i turisti incontrati a Kabul e lungo altre rotte afghane non fanno parte dei trenta milioni di passeggeri che, prima del Covid, venivano trasportati ogni anno dalle grandi navi da crociera.
Chi viene qui in Afghanistan lo fa con intenzioni diverse, rispetto ai turisti da crociera. Appartiene a una classe di persone differente, a prima vista. Una classe composta da persone che sempre d’Eramo definisce come condizionate dalla “coscienza infelice del turista”, il quale vuole costantemente stare dove non ci sono altri turisti, dove non ci sono suoi simili, verso i quali anzi rivendica una diversità radicale, grazie a cui potersi definire viaggiatore. Non turista. Da una parte dunque ci sarebbe la classe sociale – con annesso corollario di status rivendicato e percepito – del viaggiatore: autentico, impavido, indipendente, dotato di protesi culturali sufficienti da capire il proprio posto nel mondo. Dall’altra la classe del turista: gregario, ingenuo, culturalmente plebeo (così almeno secondo i viaggiatori).
Ma è poi reale questa differenza di classe e di sguardi? Partiamo dalla classe, dall’economia politica. Seguendo il ragionamento di d’Eramo, sintetizzandolo, possiamo dire che il turismo storicamente è il frutto di due rivoluzioni, una tecnologica, delle telecomunicazioni e dei trasporti, che è poi la rivoluzione del capitalismo (uccidere lo spazio per mezzo del tempo), la quale ha reso possibile il viaggio. L’altra è la rivoluzione sociale che ha reso possibili i viaggiatori: l’introduzione del lavoro salariato e del tempo libero retribuito. Prima della metà dell’Ottocento erano i nobili, che vivano di rendita, a disporre di tempo libero per i viaggi. Poi quel privilegio – i viaggi, non la rendita – si è ampliato. Oggi nel 99% dei casi i turisti sono pensionati o lavoratori salariati in ferie. Rodolphe Christin, autore di alcuni libri fondamentali sull’argomento, in Turismo di massa e usura del mondo (Eluthera) lo chiama “il sogno vacanziero della società salariale”.
Un sogno ormai di massa, e che – ecco il punto – sembra valere anche per gli intrepidi viaggiatori nelle lande afghane. Tra loro abbiamo incontrato un ventenne australiano che ha messo da parte, lavorando in miniera, soldi sufficienti per venti mesi di viaggio; un tecnico informatico della Nuova Zelanda che ha fatto lo stesso nel suo settore e, alla guida di una jeep attrezzata, attraversa l’Asia centrale; una coppia di pensionati europei dediti a macinare chilometri su chilometri con il loro furgone opportunamente modificato. Forse a ben guardare rientrano nella stessa classe sociale dei croceristi.

Veniamo al loro sguardo, al loro rapporto con il mondo, all’immaginario di cui si nutrono e che contribuiscono ad alimentare. E continuiamo a seguire Marco d’Eramo, per il quale il turismo non è altro che una strategia globale con cui il moderno ha fronteggiato ed è venuto a patti con l’irruzione dell’altro da sé, un’irruzione figlia appunta della “globalizzazione precoce” dell’Ottocento, favorita dalle trasformazioni nelle comunicazioni e nei trasporti. Una strategia che si fonda sulla curiosità per l’altro da sé. Ma è proprio su questo punto che gli intrepidi viaggiatori non sembrano poi così diversi dai vituperati turisti di massa.
Gli intrepidi viaggiatori macinano chilometri, attraversano frontiere, si affacciano sul mondo, non cercano dunque ciò che Rodolphe Christin definisce come lo spazio-isola “che protegge dal mondo esterno”, “dove poter stare per i fatti propri, ripiegati su di sè, senza alcun contatto” con l’esterno. Al contrario dei croceristi, non cercano una vacanza protetta, garantita, sterilizzata. Evitano il ripiegamento nel proprio bozzolo, quella forma di cocooning che con la pandemia ha trovato nuove giustificazioni, temporanee.
Ma forse non sono altro che un aspetto e una manifestazione ulteriore della coscienza infelice del turista. Coscienza tormentata, confusa. A Kabul molti di questi viaggiatori che si vogliono diversi dai turisti si ritrovano infatti tutti nella stessa guesthouse, proprio quella suggerita dalla app per viaggiatori intrepidi e indipendenti. Una struttura in cui sanno di trovare persone simili a loro. Simili con cui trascorrono intere giornate a bere tè e raccontarsi di altri viaggi intrepidi, in altre parti del mondo. Dimenticandosi, ci è sembrato di notare, il posto in cui sono. Come se Kabul, Afghanistan, valesse quanto Dacca, Bangladesh, o Naypyidaw, Myanmar. Come se a prevalere fosse un’altra conseguenza delle rivoluzioni ottocentesche, quando diventa pensabile, concepibile, “l’inebriante sensazione di aver il mondo a disposizione” (ancora d’Eramo).
«Il loro movimento incessante, il forsennato mobilismo tra un Paese e l’altro, da un Paese e l’altro, interrotto soltanto dalle pause condivise con viaggiatori così simili, sembra rispondere a una sorta di frenesia motoria», nota Rodolphe Cristin. Un’ingiunzione al movimento che rivela – ecco il secondo punto – un immaginario del tutto uguale a quello dei croceristi. Per entrambi, il turismo è strumento per “gestire la geografia dei nostri divertimenti”. Per entrambi, il pianeta non è nient’altro che “un immenso catalogo commerciale”. Da consumare fino all’usura, fino all’ultima bandierina sulla mappa del globo. «L’Afghanistan? È il 150° Paese che visitiamo, con mia moglie», ci ha detto Fred, un sessantenne europeo che attraversava l’Asia, dopo aver spedito il furgone dai Paesi Bassi all’India. «Perché ci siamo venuti? Be’, era lungo la nostra strada».

 

Giuliano Battiston

Giornalista e ricercatore freelance, direttore dell’associazione di giornalisti indipendenti Lettera22, collabora con quotidiani e riviste. Docente alla Scuola di giornalismo della Fondazione Basso di Roma, per dieci anni ha curato il Salone dell’editoria sociale, ora organizza il festival MIP, il Mondo in periferia, Festival del giornalismo di esteri e di comunità.