Nuove forme di classismo

di Graziano Graziani

Targa di ascensore fuori servizio

Una vecchia battuta sulla disparità economica e di status nelle nostre società recita così: non è l’ascensore sociale a non funzionare; è che qualcuno, all’ultimo piano, tiene la mano sulla fotocellula. Ciò che, in chiave umoristica, viene rappresentato da questa battuta è il fatto che le disuguaglianze non sono frutto del caso, ma di precisi rapporti di forza; rapporti di forza che nel tempo sono persino peggiorati, andado a segnare una sperequazione tra gli stipendi (e le possibilità) della classe medio-bassa e quelli delle élite economiche così sproporzionata che non si può nemmeno parlare più di disequilibri tra segmenti di cittadinanza, ma di veri e propri “mondi” differenti, il cui accesso – dal basso verso l’altro – è diventato semplicemente impensabile. D’altra parte questa accentuazione delle disparità poggia su un’ideologia che ritiene impossibile tornare a praticare una politica orientata alla redistribuzione, come era avvenuto a livello globale dopo la Seconda guerra mondiale; anzi, quella tensione che aveva caratterizzato gli anni della ricostruzione e del boom viene spesso bollata come irrealistica perché – come recita un abusato motto di Margater Thatcher, il cui governo nel Regno Unito segnò lo squillo di tromba dell’inversione di tendenza globale – “there is no alternative”. Memori di questa prospettiva, da più parti si è cominciato anche a criticare la stessa nozione di “ascensore sociale”, perché non si tratta di scendere e salire di posizione in un contesto competitivo, quanto di reimmaginare radicalmente quel contesto.
A inasprire le disparità del nostro tempo, tuttavia, concorrono non soltanto questioni esplicitamente economiche, ma anche i meccanismi odierni che influenzano le nostre vite, le cui dinamiche sembrano essere determinate sempre più dalle spinte del grande capitale finanziario, piuttosto che dai gruppi sociali interni alle società nazionali. Questo spostamento a livello globale del potere economi ha avuto l’effetto di rendere più difficili le vite anche a quei ceti sociali che, un tempo, erano in grado di condurre un’esistenza agiata o, quantomeno, senza profonde difficoltà. Ne è un esempio la trasformazione delle città in merce turistica, che espelle non solo i ceti popolari, ma anche quel ceto medio che non è in grado di far fronte alle trasformazioni del presente. Ma c’è dell’altro: tanto più il futuro si fa incerto e tanto più siamo pronti a investire tempo ed energie in attività che un tempo sarebbero state remunerative e che oggi, al contrario, non lo sono più, ma che tuttavia costituiscono un palliativo, un sostituto di status sociale, perché forniscono un effimero “senso” agli sforzi dell’edificazione del sé: queste attività sono soprattutto connesse al lavoro artistico, culturale, e più in generale al settore umanistico.
A partire da queste considerazioni abbiamo voluto dedicare il numero di novembre di 93% a un’indagine sui nuovi classismi, con un percorso che parte non casualmente dal lavoro culturale, si sposta verso la scuola – luogo di formazione a cui il pensiero democratico affida il compito di fornire gli strumenti per contrastare le disuguaglianze – e guarda infine alla città, vista come la “sindrome acuta” delle nuove disuguaglianze, e al viaggio, che costituisce l’ultima propaggine romantica e premiale delle esistenze della classe media (e che invece, visto da vicino, si rivela come la forma più compiuta del sistema di dissipazione di relazioni e valori operata dal capitalismo del XXI secolo). Il tentativo è quello di indagare le nuove forme di classismo, che intrecciano questioni economiche, strutturali, a questioni legate agli immaginari: è questo intreccio a fornire il carburante di un meccanismo dove, il più delle volte, siamo noi stessi i principali sfruttatori del nostro stesso tempo.