Fatalismo acido

di Claudio Kulesko

Fotogramma da Mars Attacks!, film del 1996 diretto da Tim Burton

I don’t care, this world means nothing
Life has no meaning
my feelings are numb
Faceless masses filed like gravestones
Sacrificed for the glory of one
Electric Wizard, “Funeralopolis”

 

I. In Search of Space

In uno dei suoi ultimi interventi dal vivo, Verso l’Acid Communism, Mark Fisher partiva dalla necessità di ripensare la coscienza psichedelica degli anni Sessanta e Settanta come manovra, per così dire, di “sblocco manuale” per uscire dall’impasse capitalista. «Per la coscienza psichedelica», dice Fisher, «il concetto chiave è la plasticità della realtà, l’esatto opposto quindi della rigidità, della permanenza o della immutabilità che non ci lascerebbero altra scelta che l’adattamento al realismo capitalista». Il concetto di plasticità è una della parole chiave della neurofilosofia contemporanea: per la filosofa francese Catherine Malabou essa descrive una sorta di epigenetica delle forme, attraverso la quale gli enti individuati (cose e organismi) si incontrano e scontrano con l’ambiente, ne assimiliamo e transcodificano le caratteristiche, per poi perire o mutare. Prendiamo, ad esempio, la cristallizzazione dei minerali o l’evoluzione delle specie, l’orogenesi o l’aggiustamento delle orbite planetarie; i fenomeni naturali sono in costante interazione reciproca. Sempre secondo Malabou, Homo Sapiens rappresenterebbe l’apice di tale tendenza, presentando in sé una duplice facoltà: quella di mutare pur rimanendo se stesso, e quella di donare o sottrarre forma al mondo esterno. Nel primo caso, pensiamo al passaggio dall’adolescenza all’età adulta o all’incrinamento del soggetto dovuto al disturbo post-traumatico; nel secondo, alla land art o all’agricoltura intensiva. Non sorprende che il capitalismo, in quanto forma economica più plastica in assoluto e dotata della maggiore adattabilità, abbia spopolato in tutto il mondo.
Ma la plasticità può anche essere condotta al suo estremo, al limite della distruzione o persino alla dissoluzione totale. Al di là di tale soglia, non vi è altro che assenza di concetto, di idea, di forma. È in questo rivolgimento catastrofico, all’incrocio tra coscienza, realtà e immaginario, che si innesta la proposta fisheriana.
In tempi recenti è stato dimostrato che le sostanze psicoattive sono in grado di riattivare o amplificare la plasticità cerebrale. In una serie di esperimenti, pazienti affetti da Alzheimer, disturbo post-traumatico da stress o dipendenze sono stati trattati con psilocibina, acido lisergico, Ayahuasca, MDMA, ottenendo ottimi risultati fin dai primissimi trial. L’esperienza psichedelica, in breve, avrebbe il potere di mobilitare ciò che è immobile e sospingere verso l’esterno ciò che è rinchiuso in se stesso. “Acheronta movebo” (muoverò l’Inferno), recita la targa tutt’oggi apposta sulla porta d’ingresso dello studio di Freud; mai tali parole sono state così veritiere.

Recuperare la coscienza psichedelica significa anche riattivare il crogiolo di futuri possibili che il ventennio successivo al dopoguerra ha riversato nella musica, nel cinema e nella letteratura. Difficile sottovalutare il desiderio di liberazione implicito in un album come In Search of Space, degli inglesi Hawkwind, che nella traccia di apertura, “You Shouldn’t do That”, dichiarano: «You shouldn’t do that, you try so hard to get somewhere, they put you down and cut your hair, they’re saying you’re no good, they just don’t care […] you got no air»; per poi concludere nel brano finale, dall’emblematico titolo “Born to Go”: «We were born to go, we’re never turning back […] we were born to go, and leave no star unturned, we were born to grow, we were born to learn […] we were born to blaze a new clear way through space». Lo Space Rock degli Hawkwind pesca a piene mani sia dalla fantascienza di quegli anni, sia dalla cosiddetta coscienza psichedelica, tramutando lo spazio – ossia quanto di più vicino vi sia al nulla più totale – in una sua versione immaginaria, qualcosa che tanto più vale la pena esplorare tanto più è immaginata.
Due sono le opere cinematografiche di culto dell’epoca che più di ogni altra hanno contribuito a plasmare questo tipo di sensibilità nei confronti di un Fuori che è, al tempo stesso, fisico e mentale. La prima è senza dubbio la saga di Star Trek, nella quale l’universo infinito con le sue infinite specie e popolazioni, diviene la perfetta metafora per l’archivio post-moderno di possibilità: dalla brutale società guerriera dei Klingon e dalla civiltà ultra-capitalista dei Ferengi – che rappresentano in quegli anni i due poli lungo i quali oscilla la lancetta del mondo – si arriva al motto vulcaniano “IDIC” (Infinite Diversity in Infinite Combinations) e al pacifismo radicale degli Halkan. Star Trek è riuscita nel progetto, fino ad allora all’apparenza irraggiungibile, di spazializzare la storia-mondo della specie umana, presentando allo spettatore non solo delle ibridazioni tra sistemi economico-politici volte alla critica sociale (quello che spesso viene affibbiato alla fantascienza in quanto suo dovere politico), ma anche una serie di valide alternative.
La seconda, anch’essa una produzione televisiva (stavolta britannica), è la leggendaria saga di Doctor Who. Qui la rete differenziale dello spaziotempo viene proiettata lungo un duplice asse cartesiano: si può viaggiare nello spazio, questo è certo, ma lo si può fare anche nel tempo e, perché no, attraverso le dimensioni che compongono il multiverso. Se il soggetto di Star Trek è storico, oltre che materiale – così come l’idea stessa del viaggio – quello di Doctor Who è metafisico è, in quanto tale, indipendente dal supporto materiale. Di volta in volta il Dottore muore e si reincarna in una sua nuova versione, che egli stesso è costretto a esplorare, alla quale è costretto ad adattarsi e alla quale si deve abituare nel corso del tempo, fino all’inevitabile estinzione. Non ci si limita più al mero incontro trasformativo con l’alterità, poiché è l’alterità stessa a penetrare nell’osservatore e a privarlo del suo fondamento essenziale: è questo il fulcro dell’idea di “variante” – che verrà condotto al suo apice da un altro maestro della psichedelia, Jack Kirby.
Il punto zero sul quale poggiano le due rette del grafo dà egli stesso origine a una terza linea trasversale: il piano si fa tridimensionale, topologico. Soggetto e oggetto, mente e corpo, tempo e spazio, interno ed esterno: non vi è limite alla plasticità di cui il Dottore è capace. Una coscienza psichedelica perfetta, archetipale, che realizza e porta a compimento la transizione dal viaggio al trip.


II. Funeralopolis

Ma cosa accade quando il trip si rovescia in bad trip?
Nella scena musicale psichedelica contemporanea diversi artisti si sono interrogati riguardo alla dissoluzione del sé causata dalle sostanze psicoattive. Non a caso, l’immaginario di questi pionieri della psichedelia oscura va dalla fantascienza depressiva di H. P. Lovecraft al satanismo, fino alle parafilie e ai vecchi film horror degli anni Settanta (in particolare Bava e Argento). Tra le band più celebri di questa ondata recente vi sono senza dubbio gli Electric Wizard e gli Uncle Acid & the Deadbeats: i primi devoti a un sound acido e vertiginoso ispirato ai primissimi Black Sabbath; i secondi legati alla tipica estetica beat inglese, osservata attraverso il filtro distorto della droga e della violenza – con riferimenti che vanno da Jack lo Squartatore a Charles Manson.
Si potrebbe quasi dire che si tratti di una reazione non tanto agli abusi e alle problematiche sociali del presente, quanto al crollo dello stesso orizzonte psichedelico: una vendetta contro le mancate promesse della coscienza psichedelica, ma anche la perversa ripetizione di un trauma transgenerazionale. «Get high, kneel to the riff, this world makes us sick», cantano gli Electric Wizard, «listen man, we are the night, raise them now, bongs and knives, legalise drugs and murder». In queste poche righe, la droga viene presentata come uno strumento di alienazione e fuga dallo stato di cose presente; un dispositivo che consente di ribellarsi non attraverso l’affermazione del possibile ma tramite la distruzione compulsiva di sé e del mondo.
Non troviamo qui, nient’altro che disperazione, ossia la più pura e cristallina assenza di orizzonti e possibilità. In questo bad trip la realtà si presenta non solo come qualcosa di cristallizzato e immobile ma, al contempo, come qualcosa che affonda le proprie radici in un male ancor più profondo e ancestrale. È il mondo stesso a essere corrotto, non solo l’individuo o il sistema economico-politico. «I don’t know what I hold in my hand, could it be that I’m evil? Plunder on, there’s no law in this land, the horror guides me through», recita “Death’s Door” degli Uncle Acid. Una perdita totale di controllo sul Sé, che viene ceduto a forze maligne esterne: ecco il nucleo dell’esperienza psichedelica negativa.
Impossibile non fare riferimento alla teologia negativa del Solitario di Providence, H. P. Lovecraft, nella quale uno stuolo di divinità dà forma a un folle pantheon fondato sulla dottrina dell’indifferentismo. L’universo lovecraftiano è popolato da divinità malvagie che tormentano e perseguitano l’essere umano e le altre specie senzienti per soddisfare i loro fini egoistici; ma l’universo in sé, alla fine dei conti, non è che un ammasso di materia effimera, cieca e caotica, che può al massimo essere assimilato a un sogno. O, meglio ancora, a un incubo. Troviamo qui uno strenuo attaccamento al reale in quanto abisso o nullità, del tutto agli antipodi dei concetti di senso e significazione che permeano l’ottimismo psichedelico. Al di là dello scopo immediato del puro godimento estetico, è del tutto inutile, da questo punto di vista, sforzarsi a ripensare e moltiplicare gli orientamenti della psiche individuale, della società e della storia: ciò che resta non è che il mero collasso dell’esistenza nella non-esistenza.
In un recente incontro avvenuto tra il parapsicologo ed esperto di psichedelia Rupert Sheldrake e il filosofo sloveno Slavoj Žižek, quest’ultimo ha proposto di rovesciare le basi dell’esperienza psichedelica in quelle della mistica cristiana. Per Žižek ci troveremmo al cospetto non tanto di una rivelazione epifanica dell’unità di Io, mondo, natura e divinità, quanto di una distanza fondamentale tra corpo e spirito – esemplificata dalla morte di Cristo sulla croce. L’idea stessa che una serie di sostanze chimiche siano in grado di causare il distacco della coscienza dalle sue basi materiali, testimonierebbe la non identità di corpo e mente e, pertanto, la totale insignificanza del reale.
Questo è ciò che troviamo in alcune delle più recenti opere cinematografiche di fantascienza.
Ex Machina (2014), di Alex Garland, è l’esempio più lampante di tale fatalismo materialista. Per Garland non vi sarebbe alcuna differenza tra organismi biologici e tecnologici, al punto che sarebbe impossibile distinguere tra l’empatia affettiva di un essere umano e quella “cognitiva” di un androide – una dichiarazione filosofica che si pone all’estremo opposto di quella mossa da Dick in Blade Runner. A essere confutata nel corso del film è l’idea stessa di “spirito”, ossia ciò che differenzia l’essere umano dagli altri animali e, soprattutto, dalle cose.
E che dire dello sconvolgente Crimes of the Future (2022)? In questa densa summa dell’intera opera di David Cronenberg, ci troviamo al cospetto di un’umanità destinata a nutrirsi di plastica e, di conseguenza, ad abbandonare poco a poco il reame delle forme ordinate. Qui il possibile cede il passo al necessario, a un’aberrazione meccanicista del percorso storico umano.
Lo stesso vale, a maggior ragione, per l’opera di Brandon Cronenberg (figlio di David). La coppia costituita da Possessor (2020) e Infinity Pool (2023) non fa che ruotare attorno all’idea di una inconsistenza costitutiva del Sé, decostruito e decentrato di continuo attraverso il meccanismo narrativo della trasmigrazione e gli stati alterati prodotti dalle sostanze psicoattive.
La coscienza psichedelica si impantana nella palude del fatalismo acido, precludendo ogni via di uscita. Il ruolo della fantascienza, in questo caso, non è più quello di fare da apripista alla progettualità utopica ma quello di amplificare e trasfigurare lo stato di cose presente, fino alla sua naturale e drammatica dissoluzione.

È questo l’interrogativo nietzschiano posto dal fatalismo acido: al di là della proliferazione di identità e mondi possibili dischiusa dagli psichedelici e dalla fantascienza letteraria e cinematografica, siamo abbastanza forti da affrontare anche il bad trip che ne potrebbe scaturire? Quanti e quali dei nostri demoni non abbiamo ancora metabolizzato?

 

Claudio Kulesko

Claudio Kulesko è filosofo, scrittore e traduttore. Con NERO è autore dell’antologia di narrativa speculativa L’abisso personale di Abn Al-Farabi e altri racconti dell’orrore astratto (2022). Per Piano B ha pubblicato Ecopessimismo. Sentieri nell’Antropocene futuro (2023).