Nel presente del teatro che guarda al futuro

di Andrea Pocosgnich

Illustrazione rielaborata da fonti open source
Illustrazione rielaborata da fonti open source

“Il futuro è una trappola” cantavano qualche anno fa i Ministri, band milanese molto in voga tra le prime ondate dell’indie negli anni Dieci del nuovo millennio. Nella letteratura e soprattutto nel cinema il futuro è un tema spesso presente; Hollywood deve molto alla scrittura di Philip Dick, dagli anni Ottanta ai Duemila – Blade Runner, Minority Report, Total Recall, per citarne alcune – pellicole che non sarebbero esistite senza le trame dei romanzi dello scrittore di Chicago, ma potremmo continuare con la narrativa di J. G. Ballard, anche questa saccheggiata da Hollywood, oppure Douglas Adams, fino ai grandi classici di Ray Bradbury e George Orwell. Il cinema condivide con la letteratura le possibilità oniriche, lo sguardo ampio, la capacità di raccontare le epopee e i salti temporali, inoltre il cinema – questione non da poco – è un’industria in grado di progettare con ampi budget, caratteristica fondamentale se messa a servizio della fervida fantasia.

Qual è la situazione in teatro? Qual è la capacità mitopoietica della scena rispetto al futuro? L’arte teatrale e più in generale quelle performative sono in grado di speculare sul futuro della nostra società e del nostro pianeta? Sono in grado di consegnarci un’immagine vivida e dunque verosimile delle epoche che verranno dopo di noi?

A guardare la gran parte dei cartelloni italiani dei grandi o piccoli teatri la risposta sarebbe brusca e negativa. La programmazione teatrale istituzionale, lo sappiamo bene, ha grossi problemi a relazionarsi con la drammaturgia contemporanea e i classici difficilmente hanno dato spazio a mondi futuri, il teatro antico e moderno ha i piedi sempre ben piantati in storie e avvenimenti accaduti nel passato o – da un certo punto in poi – nell’epoca coeva all’autore; per i parigini del secondo Seicento lo specchio comico di Molière che cercava di raccontare la società contemporanea doveva essere un gran salto verso il futuro. Il Novecento ha cominciato a cambiare le cose, ma la rarefazione del linguaggio e l’astrazione drammaturgica non hanno portato con sé una gran passione per i temi legati al futuro, a meno che non volessimo iscrivere in questo ambito certe pièce di Samuel Beckett con tutto il corpus di ipotesi legate alle ambientazioni e ai significati post apocalittici.

C’è poi un’altra considerazione da fare: siamo abituati a intendere il tema del futuro collocato all’interno del genere fantascientifico, ovvero il modello narrativo che meglio riesce a condensare la proiezione, le paure e l’immaginazione con cui si guarda alle epoche ignote. Ma il teatro contemporaneo è allergico alla struttura dei generi, difficilmente accetta il perimetro dato dalle costanti narrative che possiamo trovare nelle storie che si occupano di fantascienza, horror, thriller, ecc., a meno che non si tratti di un lavoro di ribaltamento o ridefinizione di quegli stessi codici.

Più ovvia invece la dimensione traslitterante dell’interpretazione teatrale, in cui il futuro è visto come possibilità di adattamento o riscrittura. Talvolta è infatti il regista, con la forza autoriale che in gran parte dei paesi occidentali gli ha riconosciuto il Novecento, a interpretare i testi (antichi o recenti) con un evidente sguardo in avanti. Un esempio molto frequentato è relativo ai testi classici ambientati in un futuro prossimo, modalità che può essere percorsa attraverso un adattamento del testo oppure semplicemente grazie a scene e costumi. Tra i registi che stanno avendo un evidente consenso si pensi alle messinscena di Leonardo Lidi, alla trilogia dedicata a Cechov, dove c’è proprio questo tentativo di spostamento in avanti, anche in tempi idealizzati con ironia, pensiamo ai costumi di Zio Vanja e a quegli anni Sessanta visti come periodo iconico. Similmente vi sono artiste e artisti che lavorano sul futuro dal punto di vista dei linguaggi, ovvero non tematizzando la questione ma cercando di allargare i margini verso nuove possibilità anche tecnologiche: mi riferisco al teatro “della mente” del Conde de Torrefiel, agli esperimenti con il deep fake video e l’intelligenza artificiale di Agrupacion Senor Serrano, o al lavoro di Rimini Protokoll con l’androide di Uncanny Valley, al movimento messo in moto in Italia dal progetto delle Residenze Digitali o allo spazio “Digitalive” aperto da Romaeuropa e dedicato proprio alle interazioni tra nuove tecnologie e arti performative, qui sono passate vere e proprie scoperte per gli spettatori italiani, come le opere dell’artista singaporiano Choy Ka Fai.

Chi dunque ha tentato, o sta tentando di incidere immagini e geroglifici di futuro nella scena teatrale al di là del dato tecnologico?

Da una parte possiamo riconoscere il lavoro di una serie di artiste e artisti legati maggiormente al dato performativo e coreografico. Penso a certe immagini di Dimitris Papaioannou, le cui raffigurazioni improvvise fanno pensare a terre desolate, distopiche risignificazioni del mito; alle tensioni ferali di Romeo Castellucci, come nel caso della violenza dei poliziotti di Bros, in cui il salto immaginifico può essere visto come la proiezione in un futuro distopico o come un piano altro di un presente in cui il dato del reale si amplifica nell’incubo. Ma tra gli artisti più recenti programmati in Italia si può pensare anche al dato iconografico di Cherish Menzo o al tentativo di Nicola Galli con il suo recente lavoro Ultra, in cui due esseri si svegliano nella materia oscura, in una sorta di nuovo mondo in cui l’oscurità ha preso il sopravvento. Naturalmente nei casi citati il piano visivo non è supportato da una narrazione che possa collocare direttamente l’opera nel genere futuristico, ma si tratta di intuizioni sottotraccia, di evocazioni.

Chi invece da anni ha stretto una vera e propria alleanza con la narrativa dedicata alla fantascienza è la compagnia lacasadargilla che da alcune stagioni, negli spazi del Teatro India, a settembre, si pone l’obiettivo di creare ambienti teatrali in cui far risuonare storie provenienti dalla grande narrativa: i già citati Dick, Ballard, Adams, Bradbury, a cui aggiungiamo Stanislav Lem (con Solaris). In questo caso lacasadargilla ha trovato nella trasmissione sonora la più efficiente modalità per portare in scena questi viaggi fantastici, attraverso reading, complesse sonorizzazioni, impasti vocali plurimi che si sovrappongono, piccole o grandi installazioni disseminate in alcune aree specifiche, storie da fruire in solitaria grazie a cuffie e QR Code o nella collettività della platea.

D’altronde il piano dell’ascolto e la possibilità di creare mondi complessi proprio attraverso il sonoro – anche grazie a software ormai alla portata – è un’idea spesso utilizzata per sopperire alla mancanza di scenografie complesse, oppure proprio perché esteticamente nell’ascolto può imprimersi tutta l’immaginazione dello spettatore. In questo senso torna in mente uno spettacolo, bellissimo, di qualche anno fa visto al Teatro Belli per Trend, la rassegna dedicata alla drammaturgia britannica: si trattava di Not Not Not Not Not Enough Oxygen, un testo di Caryl Churchill messo in scena da Giorgina Pi proprio in una scena vuota in cui erano i microfoni a dominare il palco e la relazione tra i personaggi. La drammaturga britannica, in questo caso autrice di una storia in cui si immaginava una Londra del futuro alle prese con l’aria irrespirabile e una violenta guerriglia civile, ha più di una volta rivolto il proprio sguardo al futuro.

Nel teatro di lingua inglese (soprattutto di stampo britannico) la sperimentazione drammaturgica in questo senso è molto attiva. Un articolo del New York Times del 2017 catalogava proprio una serie di recenti pièce in cui veniva raccontato un futuro tutt’altro che positivo, anche in quel caso non mancava una scrittura di Caryl Churchill. Del resto in lingua inglese esiste addirittura una voce Wikipedia in cui sono classificate opere di “science fiction”, il tema ha invaso anche il musical e nel 2020 a Manchester ha debuttato Back to the Future: The Musical, proprio dal celebre film di Robert Zemeckis. Nell’edizione 2023 di Romaeuropa uno tra gli spettacoli più attesi, quello di Susan Kennedy, ANGELA (a strange loop), poteva contare su una sontuosa scenografia digitale in cui si muoveva la protagonista abitante di un futuro controllato interamente dalla tecnologia e nel quale virtuale e reale si confondevano fino alla perdita dell’Io. Il lavoro della regista tedesca era uno spettacolo continuo per gli occhi ma la complessità filosofica si perdeva nella freddezza con cui era impostata la relazione con lo spettatore, allontanato anche dall’idea sfiancante di far recitare gli attori in playback.
Ancora tra le opere internazionali viste in Italia citiamo Fraternité, conte fantastique di Caroline Guiela Nguyen in cui l’idea distopica lascia emergere le storie di chi cerca di sopravvivere al disastro causato da una eclissi.

Anche nelle produzioni italiane qualcosa si muove. La nostra scena, spesso alle prese con drammi familiari, memoria civile, folgorazioni filosofiche, non guarda con facilità al tema del futuro, ma in questi anni ha espresso alcuni tentativi drammaturgici che vanno in questa direzione, naturalmente con valori diversi; proviamo a contestualizzare alcuni, con la consapevolezza che per questioni di spazio ne tralasceremo altri. Tra le compagnie più amate dal pubblico ad esempio c’è Carrozzeria Orfeo che più di una volta ha messo in scena storie (scritte sempre da Gabriele Di Luca) non prive di sensazionalismo apocalittico ma che si proiettano in mondi futuri. La compagnia fiorentina Sotterraneo recentemente ha portato in scena uno spettacolo a partire da 1984 di George Orwell. Anche la già citata lacasadargilla nelle sue drammaturgie ha spesso un’evidente relazione con il futuro, o attraverso storie di epopee familiari (When The Rain Stop Falling, Anatomia di un suicidio) o attraverso l’immaginazione di un futuro a noi prossimo (Il ministero della solitudine). Nei tempi bui che stiamo vivendo la riflessione sul futuro non può prescindere da uno sguardo al catastrofico antropocene e dunque su un piano più spiccatamente fantasy-filosofico si inserisce il lavoro recente di Marta Cuscunà con Earthbound, che attraverso l’incontro con il pensiero di Donna Haraway ha immaginato nuovi mondi postumani. Di recente anche un drammaturgo “performativo” come Alessandro Berti nel testo Le vacanze ha ideato una storia in cui il tema del futuro distopico – nel quale l’uomo ha debellato definitivamente le zanzare attraverso un progetto genetico – è in realtà un modo per riflettere sullo stato del nostro pianeta.

Legare il tema del futuro con quello del pensiero ecologista e provare a immaginare un mondo post antropocene può essere una delle strade più interessanti da percorrere nel nostro teatro, affinché guardare in avanti sia anche un esercizio di immaginazione per il presente.

 

 

Andrea Pocosgnich

Andrea Pocosgnich, critico teatrale, nel 2009 fonda Teatro e Critica, punto di riferimento nazionale per l’informazione e la critica teatrale, di cui attualmente è il direttore e uno degli animatori.