Che ti ridi

di Graziano Graziani

Charlie Chaplin in 'Il Grande Dittatore', film statunitense del 1940 scritto, diretto, musicato, prodotto e interpretato da Charlie Chaplin
Charlie Chaplin in ‘Il Grande Dittatore’, film statunitense del 1940 scritto, diretto, musicato, prodotto e interpretato da Charlie Chaplin

Questo numero di «93%» non è un numero sulla cancel culture (concetto che molti autori che si occupano della questione definiscono giustamente “di destra”, perché cerca di confondere la presa di parola a favore di categorie di persone che non godono di certi privilegi con la richiesta di censura). E non è nemmeno un numero sulle culture wars, le guerre culturali, che invece esistono ed insistono sul simbolico e sul linguaggio, creando un cortocircuito soprattutto a sinistra, dove certi valori hanno forte presa ma chi in tali valori si riconosce si spacca, spesso, proprio sulle pratiche di decostruzione dei discorsi ideologici del privilegio, su quanto debbano essere letterali o contestuali, sul fatto che finiscano o meno per disgiungersi dai rapporti di forza economici e politici che rendono quel privilegio sostanziale e inamovibile (Mimmo Cangiano ha di recente pubblicato un saggio su questo tema, dal titolo Guerre culturali e neoliberismo, dove prova a ricondurre il ragionamento a una visione marxista dei rapporti di forza).
Anche se negli articoli che seguono torneranno, in forma più o meno accennata, alcune delle questioni appena evocate, questo numero di «93%» è sul teatro comico (e su tutte le varianti della comicità sul palco). La comicità è forse il terreno in cui alcune questioni inerenti al linguaggio e alle sue mutazioni hanno avuto un’eco più profonda, sia per il suo carattere dissacratorio – non tutta la comicità lo è, ma una parte sì – sia per il fatto di essere essa stessa in continuo mutamento – una battuta scollegata dal proprio tempo non fa sempre ridere, o fa soltanto sorridere, o risulta incomprensibile, o persino irritante. C’è un terzo fattore da non sottovalutare, e cioè che il verbo “ridere” e il verbo “deridere” hanno ben più che una radice comune, che l’utilizzo della risata come scherno è un esercizio di potere piuttosto noto nella vita reale. Tutti questi elementi oscillatori rendono il genere comico una sorta di sismografo delle emozioni collettive, soprattutto nell’epoca dei social che ha nell’iperbole di tali emozioni un tratto distintivo, e non può che essere così: se un elemento espansivo e liberatorio come la risata può rovesciarsi, anche nella vita reale, in strumento di offesa, è evidente che ci muoviamo su un confine labile. Ma è anche evidente che quel carattere labile è una delle cose più preziose che il teatro comico consegna alla comunità.

Se prendiamo la più classica delle gag comiche, il passante che scivola su una buccia di banana e cade, potremmo chiederci come mai ci mettiamo a ridere di fronte a una persona in difficoltà, che, presumibilmente si è fatta anche male. Ma se siamo a teatro, o al cinema, e quel dolore è solo simulato, di che cosa stiamo ridendo? Del dolore o della situazione? E cosa ci induce al riso, in una situazione del genere? C’è forse un elemento irrazionale nell’atto del ridere, qualcosa che va persino contro le nostre stesse convinzioni? O magari vedere qualcosa di radicalmente “fuori posto”, qualcosa che fa crollare il castello sempre precario dell’esistenza, sia essa fisica o speculativa, ha di per sé un effetto comico? Ciò che è “fuori posto” ci fa ridere anche, e forse tanto più, quando è completamente irrazionale come nel non-sense; forse ciò avviene perché rende evidente come ogni aspetto della vita umana sia, in fondo, una “costruzione retorica”? È evidente che, a seconda di quale questione scegliamo di far valere, possiamo fornire risposte diverse. Solo di ciò che è “sacro” non si può ridere – nell’antichità chi toccava il sacro era destinato alla morte in quanto empio – ma siamo convinti di condividere, e di dover condividere, sempre la stessa idea di sacralità? E che cosa facciamo con una comicità che sceglie, come posizionamento, di essere “dissacrante”?

Il teatro gioca sullo sdoppiamento tra la realtà e una realtà ulteriore che la rispecchia, evoca fantasmi e tabù, e come la letteratura attraversa il “male” non per incarnare un gesto immorale ma per praticare una forma di ipermorale (come sottolineava Bataille) in grado di scardinare le forme retoriche che reggono il nostro pensiero. Questo è vero non solo nel genere comico, ovviamente. Ed è vero anche quando le retoriche scardinate sono condivisibili. Perché il discorso artistico non deve necessariamente affermare una verità, ma più spesso e in modo più fruttuoso si concentra sulla frattura logica, sulla contraddizione, su ciò che non torna. Tutto il pensiero umano, nel suo essere perfettibile e nel suo voler incessantemente categorizzare il mondo anche quando dice di non volerlo fare, finisce per essere prima o poi contraddittorio. E lì, in quella frattura, emerge una luminosità che quando viene evidenziata, torna ad essere liberatoria. E, se il discorso che facciamo è comico, questo atto liberatorio può far ridere. Si può ridere di sé stessi, si può ridere persino del sistema di valori in cui crediamo. Perché tutta l’esperienza umana vive costantemente in uno sdoppiamento tra ciò che è e ciò che vorremmo che fosse, due elementi che non saranno mai, per forza di cose, in completa sovrapposizione.
Quando questo processo finisce per comprendere l’altro la questione si complica. Si può ridere dell’altro? A seconda di come lo si fa potremmo rispondere di sì come di no. E in un momento come questo, in cui si cerca e giustamente di far emergere una serie di dinamiche oppressive che hanno riguardato storicamente una serie di categorie di persone, questo complicarsi può innescare – come di fatto avviene – una polarizzazione che finisce per radicalizzarsi in arroccamento. È a partire da questa considerazione che abbiamo chiesto a cinque artisti, che scrivono e interpretano testi comici in contesti diversi e con diverse posizioni sulla questione, di condividere le loro riflessioni. Condividere cioè i ragionamenti, le soluzioni di scrittura, i dubbi che attraversano a partire dalla loro esperienza, quella di chi il teatro comico lo pratica e si pone la questione dell’incontro con il pubblico. E, in definitiva, con l’altro.

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Una nota di chiusura: prima di lasciarvi alla lettura di questo numero, che inaugura una nuova annualità del magazine, va esplicitato un antefatto. Questo ragionamento parte anche (ma non solo) dalla polemica avvenuta lo scorso dicembre a partire da uno spettacolo di Antonio Rezza, Fotofinish, dove si prevede un’interazione fisica col pubblico in una scena che evoca la guerra e la violenza, sia pure filtrata dalla comicità, che essa si porta dietro. In un articolo di «Generazione Magazine» ci si domandava se questo atto, non comunicato nella sua interezza in anticipo al pubblico, potesse profilarsi come una molestia. Chi scrive è intervenuto sui social con una tesi contraria e ne è scaturito un dibattito articolato e partecipato sulla comicità, sulla libertà espressiva, sulla tutela del pubblico e su molte altre questioni. Il dibattito è stato raccolto da «Teatro e Critica», che ha dato ampio spazio alle posizioni in campo. Per il nostro ragionamento su «93%», che avviene diversi mesi dopo, abbiamo preferito chiedere alle autrici e agli autori di ragionare a partire da questioni differenti, legate al rapporto tra comicità e offesa, partendo dalla pratica della scrittura. Tuttavia, proprio per l’intreccio con il dibattito dello scorso dicembre, diversi articoli riportano comunque ragionamenti a partire da quel lavoro di Antonio Rezza (dove la questione, più che la comicità e il linguaggio, verteva sulla sfera del corpo) e da quella polemica. Per questo motivo lo esplicitiamo anche in questo editoriale, senza dilungarci oltre, ma rimandando chi volesse approfondire il dibattito all’articolo di «Teatro e Critica» che ne parla.