Le restituzioni culturali tra Italia ed Europa

di Silvia Iannelli

Africa Museum, Bruxelles
Africa Museum, Bruxelles

«Guardi, francamente non è emerso». Questa la lapidaria risposta della Presidente del Consiglio Italiano durante la sua visita in Etiopia, al giornalista che le chiede se il passato coloniale è stato oggetto degli incontri bilaterali. L’espressione ostentatamente meravigliata che Giorgia Meloni rivolge a chi le pone la domanda rivela la profondità dell’oblio istituzionale (1) verso il retaggio coloniale del nostro paese.
L’estremo ritardo con cui in Italia si è iniziato ad affrontare l’eredità dell’imperialismo, i miti degli “italiani brava gente” (2) e del “colonialismo straccione”, insieme alla breve durata dell’avventura imperiale italiana se comparata a quella di altre potenze europee, hanno diffuso l’idea che si sia trattato di un fenomeno di diversa natura, dalle conseguenze molto limitate e che non sia quindi necessaria una discussione diffusa sul patrimonio acquisito durante l’impero.
In questo articolo discuteremo la questione delle restituzioni culturali esplorando per sommi capi il dibattito che si muove in Europa e comparandolo con la situazione italiana.


Cosa succede in Europa

Se alcune richieste di restituzione hanno cominciato ad arrivare ai musei europei già nelle prime fasi del processo di decolonizzazione, a partire almeno dagli anni Sessanta, negli ultimi anni si è assistito a una notevole accelerazione delle rivendicazioni e a un forte aumento dell’attenzione pubblica sul tema del patrimonio saccheggiato in ambito coloniale.
Diversi fattori hanno contribuito: il movimento globale per la decolonizzazione ha sicuramente il maggior merito nella diffusione della critica postcoloniale dentro e fuori dall’accademia. Non solo Black Lives Matter, ma anche movimenti come Rhodes Must Fall in Sud Africa, Decolonize our Museums e Decolonize This Place negli Stati Uniti, e il FMAS Front Multiculturel Anti-Spoliation, sono stati in grado di alzare la tensione intorno alle relazioni pericolose tra museologia contemporanea e passato coloniale. Ricordiamo ad esempio l’eclatante blitz al Quay Branly dell’attivista congolese Mwazulu Diyabanza, arrestato per aver rimosso un palo funerario sudanese con l’intento di restituirlo ai legittimi proprietari.
Accanto alle pressioni degli attivisti dall’esterno dei musei, si assiste però anche a un movimento interno, forte del crescente numero di persone razzializzate e con background postcoloniale tra i curatori, conservatori e direttori dei musei. Grazie a ciò, un lento ma costante cambiamento valoriale va costruendosi all’interno dei musei e la presenza di opere di origine coloniale viene avvertita da una parte degli addetti ai lavori con crescente disagio, aprendo così la strada al percorso delle restituzioni. Esemplare a questo proposito quella, avvenuta nel 2021, dell’unico bronzo del Benin appartenente alla collezione del Museo dell’Università di Aberdeen, in Scozia. A differenza delle altre restituzioni della celebre serie di opere d’arte africana saccheggiate dall’esercito britannico nel 1897, questa non è stata innescata da una richiesta da parte del governo nigeriano, ma è avvenuta possiamo dire spontaneamente, per la volontà dei conservatori di trovare una soluzione a questo “patrimonio scomodo”.
Il momento di svolta più importante è stato, come è noto, la clamorosa presa di posizione del presidente francese Macron il quale, durante una conferenza all’Università di Ouagadugu nel 2017, ha espresso la volontà di restituire per intero i manufatti saccheggiati all’Africa. In seguito a tale dichiarazione, il governo francese ha commissionato uno studio sull’entità del patrimonio coloniale francese a due accademic* che si sono occupat* dettagliatamente del tema: Felwine Sarr e Bénédicte Savoy. Il celebre rapporto Sarr-Savoy, diffuso l’anno successivo, stima che circa il 90% dei beni artistici africani si trovino attualmente fuori dal continente, conservati nei musei occidental (3).
Attualmente il rimpatrio degli oggetti dalla Francia sta avvenendo, ma con notevole ritardo rispetto ai cinque anni dichiarati inizialmente. Ventisei oggetti, frutto del saccheggio del palazzo reale di Abomey da parte delle truppe francesi nel 1892, sono rientrati in Benin con una solenne cerimonia nel 2021, mentre nel 2020 erano stati rimpatriati in Algeria alcuni resti dei combattenti della resistenza anticoloniale.
Anche il Belgio sta dolorosamente facendo i conti con la sanguinosa eredità coloniale cristallizzata nel Musée Royal de l’Afrique Centrale, recentemente ristrutturato e ribattezzato Africa Museum. Per facilitare i processi di restituzione il parlamento belga ha affermato nel 2022 il principio di alienabilità del patrimonio nazionale, ma solo nel caso appunto di beni di provenienza coloniale. Senza aver ancora portato a termine nessuna restituzione, a parte quella di alcuni resti (i denti) di Patrice Lumumba, leader decoloniale assassinato nel 1961, il Belgio è subissato di richieste da parte delle ex colonie e sta gestendo una lista di 84.000 oggetti passibili di restituzione con una commissione di ricerca congiunta con la Repubblica Democratica del Congo.
Ingenti sono state invece le recenti restituzioni olandesi: circa 1.500 oggetti dal Nusantara Museum di Delft sono rientrati in Indonesia nel 2020 e resti umani di nove persone sono stati restituiti recentemente alle comunità indigene dell’isola caraibica di S. Eustachio. Anche qui, un gruppo di ricerca intermuseale incaricato dal governo sta studiando delle linee guida nazionali per le restituzioni dopo che, nel dicembre 2022, il primo ministro Mark Rutte ha presentato formali scuse per il ruolo storico del proprio paese nella tratta degli schiavi.
Le restituzioni dei famosi bronzi del Benin hanno fatto scuola per quanto riguarda il caso della Germania; la storia è ormai celebre poiché contrappone le aperture tedesche alla ritrosia dei musei britannici in merito a questo tesoro artistico. Le circostanze di violenza coloniale legata alla collezione dei Bronzi del Regno del Benin sono state analizzate dettagliatamente dall’antropologo inglese Dan Hicks nel saggio dal sagace titolo The Brutish Museums (4). Nel gennaio del 1897 un piccolo gruppo di ufficiali e mercanti inglesi cade in un’imboscata da parte dei guerrieri della corte dell’Oba, il re del Benin (attuale Nigeria). Come atto di rappresaglia l’esercito britannico attacca la città, trucida la maggior parte degli abitanti e saccheggia il palazzo reale, appropriandosi di migliaia di oggetti dal valore sacro e politico.
Secondo le stime di Hicks gli oggetti depredati sono adesso proprietà di circa 161 musei e gallerie in Europa e in Nord America. Dal 2010 il Benin Dialogue Group lavora per facilitare la restituzione, richiesta dalla Nigeria a partire dalla sua indipendenza nel 1960. Se le richieste inoltrate ai musei britannici sono state sistematicamente rifiutate, la Germania ha accettato di rimpatriare un consistente numero di opere: 92 nel 2022 dal Rautenstrauch Joest Museum di Colonia, la famosissima maschera della Regina Madre Idia, sempre parte del bottino del palazzo dell’Oba, restituita dal Linden di Stoccarda, ma la lista degli oggetti e dei resti umani restituiti o in via di restituzione dalla Germania alle ex colonie è molto più articolata – circa un migliaio, formalmente – e comprende numerosi musei e fondazioni.


Il museo universale

Quanto accade invece oltre Manica rappresenta un caso da manuale e dà corpo a gran parte del dibattito internazionale in virtù dell’enorme quantità di opere frutto di spoliazioni coloniali conservate nei musei britannici. Dall’infinita disputa sui marmi del Partenone, passando per molteplici resti umani, insieme ai tesori del regno Ashanti (Ghana), alla tavoletta sacra etiope di Westminster, fino ad arrivare ovviamente alla più grande collezione al mondo di bronzi del Benin del British Museum, le opere sottoposte a richiesta di restituzione nel Regno Unito sono innumerevoli.
Al di là dei singoli casi è fondamentale, al fine di comprendere meglio i termini ideologici del dibattito internazionale, prendere in esame la posizione del British Museum, che giustifica i ripetuti dinieghi con il proprio supposto ruolo di museo universale. Cosa significa ciò? Si tratta di un’autoproclamazione, emessa nel 2002 di concerto con altri 17 tra i più influenti musei del mondo (emisfero nord) costituitisi nel «Bizot Group». Questi musei si autodefiniscono nel loro diritto conquiste culturali per la loro capacità di dare un significato universale a oggetti di grande valore provenienti da ogni parte del mondo e rivendicano pertanto il diritto di mantenere intatte le proprie collezioni. In altre parole, togliere da questi musei parte del loro patrimonio per restituirlo ai paesi di origine sarebbe, a loro avviso, un danno per l’intera umanità, perché solo all’interno di queste istituzioni tali oggetti acquisiscono il proprio pieno significato.
Se, come ampiamente dibattuto, l’universalismo di matrice occidentale è stata una delle armi più affilate del colonialismo, il fatto che tale visione sia anche connessa a uno spazio situato dentro specifici confini nazionali rafforza il carattere cieco e strumentale degli assunti di cui sopra. Le leggi nazionali sulla mobilità infatti contrastano prepotentemente con la possibilità che esista un luogo accessibile universalmente.
Su questo punto si imperniano molte delle critiche all’argomentazione del museo universale, ad esempio quelle mosse Chika Okeke-Agulu, storico dell’arte africana di Princeton. Di quale diritto universale si parla, dice lo studioso (5), quando è praticamente impossibile per un* nigerian* medi*, ad esempio, ottenere un visto verso l’Inghilterra e godere del patrimonio cosiddetto universale conservato nei musei? Le barriere razziali ed economiche sono innegabili in questa situazione.
Altro punto cruciale nel concetto di universalismo del museo è il pregiudizio conservativo che sta alla base: l’idea cioè che il patrimonio culturale sia più al sicuro nei grandi musei occidentali poiché solo qui si garantisce la cura necessaria perché venga tramandato alle future generazioni – il sottotesto è ovviamente che i paesi del sud globale non conoscono l’importanza della conservazione e non sono in grado di garantirla. Si tratta della riproposizione in chiave contemporanea del pregiudizio coloniale del “fardello dell’uomo bianco” (6).
Un’ultima questione connessa alla precedente è legata ancora all’uso che di questo patrimonio verrà fatto nei paesi di origine una volta restituito. Se per i resti umani si sta accettando che questi meritano degna sepoltura presso le comunità di provenienza, questioni sulla destinazione degli oggetti possono essere sollevate a livello generale. Moltissimi di questi manufatti hanno infatti un importante valore rituale, religioso e simbolico per le comunità. Alcuni di questi, come ad esempio la tavoletta sacra etiope ricordata in precedenza, sono addirittura dissacrati se esposti al pubblico, poiché la loro vista è riservata solo ad alcune categorie ecclesiali. Molte delle maschere africane esposte come opere d’arte, come quelle del Quay Branly, acquistano il loro senso completo se abbinate agli abiti rituali e indossate durante danze iniziatiche e propiziatorie. Allo stesso modo spesso i pali funerari sono parte di sepolture di personaggi eminenti delle comunità e fanno parte integrante del paesaggio sociale, anziché essere esposti singolarmente e in maniera isolata.
La domanda è quindi come può il nostro sistema espositivo estetizzante e singolarizzante essere considerato l’unico corretto e universale? E abbiamo il diritto di valutare l’opportunità di restituzione in base ai nostri criteri di conservazione, senza riconoscere ai legittimi proprietari la facoltà di scegliere l’uso – rituale, sociale o espositivo – che più ritengono opportuno?


Italia 2023: a che punto siamo

In Italia, nella migliore delle tradizioni conservatrici, la questione delle restituzioni è spesso giudicata con snobismo da molti intellettuali, come una delle ennesime mode provenienti da oltre oceano di cui ci si è già stufati. Sebbene attualmente ci si interroghi sul rischio che la decolonizzazione diventi uno degli ennesimi washing – Dan Hicks parla di scramble for decolonization e ci mette in guardia dai rischi di strumentalizzazione – ciò non è un buon motivo per evitare di confrontarci con il tema, ma anzi ragione per farlo in modo più scrupoloso, magari meno urlato ma più concreto (7).
Parlando quindi concretamente, le restituzioni di opere coloniali italiane sono state cinque: alla Libia il bassorilievo con la danza delle menadi di Tolemaide nel 1961, la Venere di Leptis Magna nel 1999, e la Venere di Cirene nel 2008. All’Albania la Dea di Butrinto nel 1982, e per finire la stele di Axum all’Etiopia nel 2005. Se le prime restituzioni sono avvenute abbastanza in sordina, i casi della Venere di Cirene, analizzato dettagliatamente dalla storica Simona Troilo (8), e della stele di Axum (9) ci permettono di osservare il lessico del dibattito italiano. La Venere fu scoperta dai militari italiani nel 1913, in seguito ad una violenta pioggia, immediatamente questo ritrovamento fu usato dalla propaganda imperialista come dimostrazione in primo luogo della legittimità della conquista italiana del Nord Africa, rappresentata come continuazione della missione civilizzatrice della romanità classica. In secondo luogo, la Venere sepolta fu eretta ad emblema della barbarie africana, incurante del valore delle testimonianze del passato in opposizione invece con la cura italiana dei reperti archeologici.
Esibita dal regime fascista come archetipo della femminilità italica – candida, in opposizione con la nerezza africana – ed esposta al Museo Nazionale Romano, la Venere fu richiesta ufficialmente indietro da Gheddafi in seguito agli accordi bilaterali del 1998, ma il dibattito che ne conseguì fu particolarmente animato, nutrito anche dal ricorso al Tar operato dall’associazione Italia Nostra, contro il decreto che accordava la restituzione. Lo spettro dello svuotamento dei musei europei venne immediatamente evocato insieme all’idea della maggiore pertinenza di un’opera di origine classica in un museo italiano anziché nel contesto islamico. Ma il Tar rigettò il ricorso affermando l’assoluta coerenza dell’opera con il contesto culturale libico, e la scultura rientrò Tripoli nel 2008.
Il secondo caso che ha scatenato il dibattito è stato quello dell’obelisco della città sacra di Axum in Etiopia, rinvenuto da una missione archeologica tedesca nel 1906 e portato in Italia in una poderosa operazione di trasporto durante l’occupazione fascista nel 1937. La stele ha trovato spazio per sessantotto anni al centro della piazza romana di Porta Capena e la sua restituzione è stata immediatamente richiesta dal governo etiope in ottemperanza ai trattati di pace a fine del secondo conflitto mondiale.
Le lunghe trattative per il rientro del monumento, che riveste un notevole valore sacrale nel contesto etiope della città di Axum, hanno visto una forte reticenza della politica italiana, che negli anni ha tentato di offrire forme di compensazione economica o altri beni al posto della stele e ha calcato la mano sui rischi per l’integrità di un oggetto di enormi dimensioni connessi alle operazioni di trasporto (trasporto che però era stato avallato senza grosse remore nel ’37).
Come emerge dalle analisi di Simona Troilo e da Maria Pia Guermandi (10), tutti gli elementi dell’ideologia imperiale si sono riaffacciati nel dibattito pubblico in entrambe queste circostanze: dai riferimenti alla continuità con la romanità classica, all’islamofobia che non considera degno un paese islamico di possedere opere d’arte rappresentative della femminilità occidentale a proposito della Venere di Cirene. Il pregiudizio patrimoniale, che mette in dubbio la capacità dei paesi africani di conservare appropriatamente i beni culturali è stato sollevato sulla stampa in entrambi i casi (la stele veniva ad esempio immaginata come abbandonata a se stessa in un porto eritreo o a Gibuti dal leghista Mario Borghezio).
Il tutto condito da una perdurante amnesia in merito al contesto di occupazione e dalla negazione del carattere di rapina delle appropriazioni coloniali. Al contrario, sono state avanzate rivendicazioni dell’opera civilizzatrice italiana come quelle espresse da Vittorio Sgarbi sia per Axum che per Cirene, che rappresentano vere e proprie operazioni di revisionismo storico. Quasi comiche appaiono le richieste di risarcimento economico per il restauro dell’obelisco presentate da alcuni parlamentari di Alleanza Nazionale e Forza Italia.

Il dibattito italiano sulle restituzioni dunque è pressoché in stallo dal 2008, ma qualcosa anche da noi si muove. Dopo numerose vicissitudini, la collezione dell’ex Museo Coloniale di Roma, inaugurato come strumento di propaganda da Mussolini nel 1923 e chiuso dal 1971, è stata finalmente acquisita dal MUCIV, Museo delle Civiltà di Roma. Dopo una prima ipotesi di riaprire il cosiddetto Museo Africano intitolandolo a Ilaria Alpi, il nuovo direttore del museo, Andrea Viliani, ha dichiarato recentemente il proprio impegno verso “pratiche di cura, assunzione di responsabilità, condivisione e restituzione” (11), impegno che senza dubbio non sarà esente da criticità. Attualmente la collezione è in fase di studio e di documentazione delle poche informazioni presenti sulla provenienza degli oggetti.
Un altro importante passo è stato fatto nel 2021, con la nomina da parte dell’ex Ministro Franceschini di un «gruppo di lavoro per lo studio delle tematiche relative alle collezioni coloniali», gruppo che comprende tre accademic* e due direttori di musei e che ha però solo una finalità scientifica e non decisionale. È tuttavia fondamentale che anche in Italia si inizi a mappare il patrimonio coloniale per alzare un velo su quello che è il nostro retaggio e il nostro rimosso.


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1) Triulzi A., “La memoria come pietra d’inciampo”, in Sossi F. (a cura di), Immaginare la storia. Abbecedario del colonialismo italiano, Ombre Corte, Verona, 2023, pp. 19 – 32

2) Del Boca A., Italiani brava gente? Un mito duro a morire, Neri Pozza, Vicenza, 2005

3) The Restitution of African Cultural Heritage. Toward a New Relational Ethics: https://web.archive.org/web/2019032818707/http://restitutionreport2018.com/sarr_savoy_en.pdf

4) Hicks D., The Brutish Museums. The Benin Bronzes, Colonial Violence and Cultural Restitution, Pluto Press, London, 2020

5) https://www.youtube.com/watch?v=t3EOcpv7ylI

6) Rudyard Kipling, The White Man’s Burden, 1899

7) Sulla decolonizzazione come moda si veda Cimoli A.C., “I musei alla prova del pensiero decoloniale. Memorie da riattivare, vuoti da riempire, storie da scrivere”, in Sossi F. (a cura di), op. cit., pp 141 – 159

8) Troilo S., “Casta e Bianca. La Venere di Cirene tra Italia e Libia (1913 – 2008)”, in Memoria e ricerca, vol.57, n. 1, 2018, pp. 134 – 138

9) Le vicende della stele sono state approfonditamente ricostruite da Massimiliano Santi, La stele di Axum da bottino di guerra a patrimonio dell’umanità. Una storia italiana, Mimesis, Sesto San Giovanni, 2014.

10) Guermandi M.P., “Decolonizzare il patrimonio. L’Europa, l’Italia e un passato che non passa”, Castelvecchi, Roma, 2021

11) Basili G., “Un museo decoloniale e multispecie. Parla Andrea Viliani, neodirettore del Museo delle Civiltà”, Artribune, 21 luglio 2022, https://www.artribune.com/professioni-e-professionisti/2022/07/andrea-viliani-museo-delle-civilta-roma

 

 

 

Silvia Iannelli

Specializzata in Antropologia Museale ed Etnografia, è docente di Antropologia Culturale presso la Naba di Milano. È stata consulente per i programmi di partecipazione museale del Comune di Milano e ha lavorato per numerose istituzioni culturali. Le sue ricerche si concentrano sul museo postcoloniale e sulla relazione tra musei etnografici e diaspore. Attualmente è dottoranda in Studi storici, geografici e antropologici presso l’Università di Padova e l’Università Ca’ Foscari di Venezia e svolge una ricerca sul tema delle restituzioni del patrimonio coloniale italiano.