Le storie degli altri. Decolonizzare i musei e non solo
di Maria Pia Guermandi
Che significa decolonizzare i musei? E, soprattutto, i musei possono essere decolonizzati? In queste due domande, cruciali, può essere riassunto buona parte del dibattito museologico dell’ultimo ventennio riverberatosi, da ultimo, nella vicenda della nuova definizione di museo, che ha provocato, nel 2019, uno spettacolare testa-coda all’interno di ICOM, la più importante associazione non governativa di istituzioni e operatori museali al mondo. La proposta di definizione di museo presentata allora, nella Conferenza internazionale ICOM di Kyoto, palesemente ispirata ad un approccio postcoloniale e quindi a una visione non esclusivamente occidentale, fu respinta, e la frattura in seno all’Associazione si è poi ricucita solo nell’agosto scorso, con una soluzione di compromesso il cui principale obiettivo era il mantenimento dell’unità interna.
Che il Museo pubblico, consolidatosi in Occidente a partire dal XIX secolo, abbia accompagnato la vicenda del colonialismo moderno non solo come testimone, ma come vero e proprio strumento di costruzione di un’ideologia di supremazia delle nazioni europee in ambito culturale, è acquisizione cui la museologia – in particolare la new critical museology – è giunta a partire dalla metà degli anni Ottanta del Novecento.
La critica all’impostazione evoluzionista – e razzista – delle collezioni etnografiche ha, da quel momento, accompagnato e supportato la critica a una concezione incentrata sull’autorità curatoriale e su una trasmissione del sapere unidirezionale e monocratica. Prospettive che, dagli ultimi decenni del Novecento, hanno interessato l’istituzione “museo” nel suo insieme, trovando nello Smithsonian, a Washington, il punto di riferimento sul piano metodologico.
Non per caso, dunque, questo dibattito ha interessato, in una prima fase, i paesi coinvolti nel così detto settlement colonialism (il colonialismo di insediamento), vale a dire Australia e Nuova Zelanda da un lato e Stati Uniti e Canada dall’altro.
Territori colonizzati da paesi europei nei quali la presenza interna delle popolazioni native, pur minoritaria – anche a seguito dei massacri operati in epoca coloniale – ha innescato, in particolare dal secondo dopoguerra, una serie di rivendicazioni che, da subito, hanno riguardato anche il patrimonio culturale, considerato quale imprescindibile elemento di identità.
I primi risultati di questa fase di decolonizzazione museografica si ebbero con l’apertura del Te Papa Tongarewa a Wellington, in Nuova Zelanda nel 1998 e del National Museum of American Indian sul Mall di Washington, nel 2004 (ma la cui costituzione fu decretata dal Congresso americano già nel 1989). All’allestimento di entrambi collaborarono, per la prima volta, rappresentanti delle popolazioni native dei rispettivi paesi, indirizzandolo verso una nuova strategia rappresentativa non più concentrata esclusivamente sulle collezioni di oggetti e i loro problemi conservativi.
Il processo di decolonizzazione ha progressivamente scardinato la presunta neutralità e scientificità (l’una conseguenza dell’altra) delle tassonomie e catalogazioni attraverso le quali lo sguardo occidentale ha imposto una rappresentazione del mondo ispirata a concezioni e ideologie pretese come universali, ma in realtà determinate da un preciso contesto storico- culturale. In Europa il processo è stato molto più lento, rallentato, almeno fino all’inizio del terzo millennio, dalla così detta «colonial aphasia» (per riprendere la fortunata espressione di Ann Laura Stoler) attraverso la quale le ex potenze coloniali hanno rimosso per decenni il peso – economico, politico, sociale, culturale – delle colonie nella storia occidentale e nella stessa costruzione del progetto europeo, ma anche dalla tetragona opposizione dei vertici delle istituzioni museali, in particolare in Gran Bretagna, Germania e Francia.
Se, a partire dagli anni Novanta, quasi tutti i musei etnografici in Europa hanno mutato denominazione e sono diventati musei delle culture (dapprima connotati dall’aggettivo extraeuropee successivamente espunto), al di là di queste operazioni di cosmesi lessicale, poche sono state le iniziative di vero e proprio ripensamento museologico/museografico prima della fine del primo decennio del Duemila, bloccate anche da un atteggiamento di totale chiusura nei confronti di eventuali richieste di restituzione dei materiali sottratti durante il periodo di dominazione coloniale. Fino a pochissimi anni fa, la così detta repatriation alle ex-colonie è stata vissuta dalla larga maggioranza dei musei europei come una gravissima minaccia all’integrità delle collezioni, potenzialmente in grado di innescare un disastroso effetto domino, tale da compromettere la stessa sopravvivenza di talune istituzioni. Minaccia per scongiurare la quale sono state adottate negli anni tutte le risorse legali e ideologiche, con il pieno supporto dei governi nazionali, interessati, per parte loro, a scongiurare ogni possibile forma di richiesta di risarcimento da parte delle ex colonie per i danni subiti durante le dominazioni europee.
Non inaspettatamente, allora, le prime iniziative culturalmente innovative sulla decolonizzazione, in Europa, furono realizzate da un museo svizzero, il Musée d’Ethnographie di Neuchâtel, che dalla fine del secolo scorso ha intrapreso, anche attraverso una brillante attività espositiva, una riflessione sulle pratiche etnografiche e museografiche (vedi, da ultimo, l’attuale mostra “L’impossible sauvage”)
Inaugurato a Parigi nel 2006, il Quay Branly – Jacques Chirac fu il primo grande museo europeo a proporre una nuova riorganizzazione dei materiali extraeuropei derivati dalla confluenza delle ricchissime collezioni coloniali di Africa e Oceania con quelle altrettante importanti del Musée de l’Homme. L’obiettivo dichiarato era quello di promuovere la diversità culturale, ma in realtà, come sottolinearono le molte critiche che suscitò l’operazione, l’esposizione volutamente glamour di oggetti presentati in una sorta di continuum, come opere d’arte da percepire – emozionalmente più che razionalmente – in una dimensione estetico-sacrale, oscurava non solo ogni loro contesto, ma soprattutto la genesi coloniale delle collezioni.
Aspre critiche hanno da allora accompagnato praticamente tutte le operazioni di riorganizzazione delle grandi collezioni coloniali ed etnografiche europee, dal Weltmuseum a Vienna, riaperto nel 2017 a quell’Africa Museum di Tervuren in Belgio, reinaugurato nel 2018 ed erede dell’ultimo museo coloniale in Europa, il Musée Royale de l’Afrique Centrale. Da ultimo, l’Humboldt Forum di Berlino, il grandioso centro culturale inaugurato sulla Museumsinsel alla fine del 2020 e destinato a ospitare, fra l’altro, le collezioni dei precedenti musei etnologici e del museo d’Arte asiatica, ha, a sua volta, scatenato polemiche, non solo sul piano accademico, ma anche da parte di un ampio cartello di associazioni anticoloniali e antirazziste.
Il ruolo fondamentale dell’attivismo è del resto uno degli elementi caratterizzanti di tutta la vicenda della decolonizzazione culturale: gruppi come Decolonize this place, negli Stati Uniti o Nohumboldt21 in Europa, assieme a molti altri hanno fornito una sorta di «contrapuntal reading», per dirla con Edward Said, delle iniziative dei musei occidentali in questo ambito, smascherandone ambiguità, omertà e ritardi.
A partire dalla scelta di rappresentare quasi sempre solo le culture extraeuropee, attraverso la quale si ripropone, di fatto, una gerarchia fra culture di serie A (quelle europee), deputate a interpretare la diversità, e tutte le altre, rappresentate da una serie di oggetti per lo più legati al passato, senza riferimenti alla contemporaneità. Culture, quelle extraeuropee, da preservare secondo standard europei e solo apparentemente poste su di un pari livello di dignità dalle retoriche della diversità culturale, ma sulla base di scale di valori – prevalentemente quelli artistici – di concezione occidentale. Il richiamo al multiculturalismo è così spesso servito a tradurre sul piano del “dialogo fra culture” un’eredità, quella coloniale, che si è voluto troppo affrettatamente archiviare in un passato senza più conseguenze contemporanee.
Ormai ubiquo è, in questa direzione, il ricorso delle istituzioni museali all’inserimento, nei dispositivi allestitivi nuovi o vecchi, di performance di artisti e artiste contemporanei (privilegiando quelli di origine extraeuropea) in funzione di reinterpretazione critica delle collezioni. Ma nella maggior parte dei casi tali iniziative, per lo più temporanee, finiscono per esaurirsi in una provocazione effimera a uso mediatico, senza incidere sulle concezioni espresse da una museografia che opera secondo criteri ancora esclusivamente occidentali.
Le critiche di studiosi e attivisti riguardano poi soprattutto il rapporto con comunità ed esperti nativi, quasi sempre coinvolti nelle iniziative di riallestimento/riorganizzazione decoloniale, ma il cui intervento è raramente pienamente efficace e duraturo in quanto esercitato da figure esterne ai meccanismi istituzionali e quindi fatalmente dotate di uno scarso potere decisionale. Si tratta insomma di un coinvolgimento rituale, fondato su di un rapporto asimmetrico che non riesce a mettere in discussione l’autorità curatoriale e risulta efficace a restituire visibilità al museo, ma senza alterarne le strutture decisionali, riproducendo così gli squilibri sociali esterni.
Le stridenti disparità in termini di rappresentatività all’interno di tutte le principali istituzioni museali europee, nelle posizioni di vertice e quindi di chi decide, anche economicamente, le politiche del museo, fotografano le permanenze coloniali di un’istituzione che si allinea perfettamente, in questo, alle altre strutture culturali del mondo occidentale, dall’università ai media.
Se decolonizzare significa prima di tutto riconoscere la continuità coloniale e imperiale all’interno delle nostre istituzioni, contraddizioni e ritardi di questo processo in ambito museale hanno condotto studiosi e attivisti a interrogarsi sulla stessa possibilità di decolonizzare un’istituzione geneticamente connessa all’ideologia della colonia: così Ariella Aïsha Azoulay, nel suo Potential history, ha ribadito l’interconnessione fra la decolonizzazione del museo e quella dell’attuale sistema mondo, concetto ripreso nel recentissimo pamphlet di Françoise Vergès, Programme de désordre absolu. Décoloniser le musée.
Eppure, nonostante le lacune, le reticenze e le resistenze, e nonostante un quadro giuridico internazionale vittima (a dir poco) di amnesie nei confronti del tema della repatriation, la decolonizzazione e, in parallelo, i processi di restituzione hanno ripreso nuovo vigore proprio in tempi recentissimi. Si sta cominciando a comprendere che, lungi dallo svuotare i musei, il tema della decolonizzazione ha prodotto una grande effervescenza sulle pratiche museali e sulla museologia in genere.
Tali fenomeni si spiegano sia come esito di un un’evoluzione inevitabile dell’attuale forma-museo su di un piano etico, proiettata quindi verso l’applicazione di principi di giustizia nei confronti delle popolazioni delle ex colonie e alla riparazione di ferite aperte nel passato coloniale, ma operanti nel presente.
Su di un piano culturale, infine, decolonizzare il museo rappresenta, come è sempre più chiaro, uno dei pochi processi in grado di riconnettere i nostri musei alle istanze della contemporaneità, alle sue pressanti e ineludibili richieste di giustizia sociale e ambientale. Un’occasione straordinaria per ripensare il ruolo del museo, trasformandolo da testimone dello status quo (o, peggio, strumento passivo dell’industria turistica) ad agente del cambiamento.
Maria Pia Guermandi
Archeologa classica e attivista. Consulente UE per progetti nell’ambito delle politiche del patrimonio, già responsabile del sistema museale della regione Emilia-Romagna. È membro del consiglio di amministrazione della Pinacoteca di Bologna e del comitato scientifico del Parco Archeologico dell’Appia Antica. Co-curatrice della collana Antipatrimonio di Castelvecchi e coordinatrice di Emergenza Cultura. Ha scritto: Decolonizzare il patrimonio. L’Europa, l’Italia e un passato che non passa, 2021.