L’archivio del rimosso. Arte e dissenso nei progetti di Muna Mussie e Calderoni/Caleo

di Paola Granato

Scultura di Jen Reid, una manifestante di Black Lives Matter, realizzata dall'artista Marc Quinn, eretta nel giugno 2020 a Bristol sul piedistallo dove un tempo sorgeva una statua del commerciante di schiavi Edward Colston. Fonte: www.huffingtonpost.co.uk
Scultura di Jen Reid, una manifestante di Black Lives Matter, realizzata dall’artista Marc Quinn, eretta nel giugno 2020 a Bristol sul piedistallo dove un tempo sorgeva una statua del commerciante di schiavi Edward Colston. Fonte: www.huffingtonpost.co.uk

Le manifestazioni nelle strade di Parigi contro la riforma delle pensioni, le strade di Israele invase da settimane da cittadini e cittadine che manifestano contro il governo di Netanyahu, i teatri occupati in Grecia contro il governo di Mitsotakis. Questa è parte del panorama geo-politico dei giorni in cui questo testo viene scritto. Le strade delle città tornano a essere protagoniste della narrazione mediatica, dopo il periodo pandemico in cui, invece, il racconto si è concentrato sulla desertificazione del paesaggio urbano, da parte dei corpi umani. Nonostante questo, tutto continuava a mutare in un farsi e disfarsi esemplificativo di come lo spazio urbano non sia dato ma un campo di forze e tensioni in trasformazione continua.
Il tessuto urbano e le sue complessità sono campo di studio privilegiato per la disamina di processi sociali e politici, è lì che si dispiega la lotta, il conflitto, è il luogo in cui i corpi entrano in relazione (pacificata e non). La dimensione spaziale in relazione ai corpi fa infatti emergere con forza la questione della visibilità, all’interno di una costruzione maschile ed eteronormativa (e bianca) dello spazio pubblico (Caleo, 2021) (1).
Caleo evidenzia un punto fondamentale per decifrare alcune pratiche politiche e artistiche che desiderano modificare il paesaggio urbano. Nel rendere evidenti le cicatrici storiche, queste pratiche riescono a far emergere l’intreccio di relazioni, di temporalità e di invisibilizzazione di alcune soggettività, che molto spesso si dà come dato, oppure non afferente alla sfera pubblica.
È utile in questa sede utilizzare l’immagine della “città come archivio”, tenendo insieme sia la nozione classica di archivio, nella quale pesa in maniera irrinunciabile la questione del potere; che quella di matrice foucaultiana in cui, come spiega Judith Revel, accanto alla questione dell’incontro con il potere c’è il passaggio fondamentale dell’esperienza. L’archivio è, dunque, luogo di soggettivazione e incarnazione di materialità in cui ciò che viene reso oggetto ha l’opportunità di diventare soggetto e di sfuggire alla relazione lineare con il potere.
L’archivio/città di cui facciamo esperienza ogni giorno contiene quello che si è deciso di ricordare: è un archivio che segue la linea della Storia costruita secondo quel punto di vista maschile, eteronormato e bianco citato prima. Per contrapposizione siamo coscienti del fatto che un altro archivio esiste – un archivio parallelo del rimosso – fatto di assenze più che di presenze, di vuoti che parlano più dei pieni, di presenze fantasmatiche.
Nel saggio Decolonising Knowledge, la teorica, scrittrice e artista interdisciplinare Grada Kilomba scrive che il passato coloniale è memorizzato in modo impossibile da dimenticare. La teoria della memoria è in realtà teoria della dimenticanza, non si può semplicemente dimenticare così come non si può evitare di ricordare (Kilomba, 2015) (3). Quale narrazione è diventata egemonica? Quali soggettività hanno avuto diritto di parola su questa narrazione? La dicotomia memoria/dimenticanza diventa, quindi, uno dei punti centrali per la decolonizzazione della Storia e della messa in discussione del sapere egemonico.
È questo a cui siamo di fronte ogni volta che ci muoviamo nelle città che attraversiamo, entriamo in dialogo con le storie che l’hanno plasmata e continuano a farlo. È importante sottolineare che così come lo spazio della città non è neutro non lo è neanche il nostro attraversamento, parliamo tutt3 da un tempo e un luogo specifico, da una realtà e da una storia specifica (Kilomba, 2015).
In La città femminista Leslie Kern, attraverso la sua esperienza di donna bianca, cisgender e normodotata (come lei stessa si definisce), analizza – con una prospettiva intersezionale – i limiti della città pensata come istituzione per sostenere e mantenere i ruoli di genere tradizionale (Kern, 2021) (4). Scrivere della geografia e della vita urbana ha significato attraversare per Kern diversi aspetti della città per porre le basi di un pensiero su un diverso modo di abitare, costruire, istituire politiche economiche e relazionali che abbia una matrice femminista, mettendo al centro il ruolo dell’attivismo.
Le piazze e le strade sono ancora il luogo dove si esercitano le proteste e il “diritto alla città”, la città è il luogo in cui farsi ascoltare; ed è anche il luogo per cui stiamo combattendo. Combattere per appartenere, per essere al sicuro, per guadagnarsi da vivere, per rappresentare le nostre comunità e molto altro ancora (Kern, 2021). Mettere in discussione l’archivio, quello visibile, vuole dire agire sulla città cercando di attivare un discorso attorno alle monumentalità, alla stratificazione urbanistica, alle polarizzazioni che aumentano i divari. In tal senso sono state numerose le azioni politiche che hanno caratterizzato gli ultimi anni: tra queste, le azioni del movimento Non una di Meno in Italia e il movimento Black Lives Matter. In entrambi i casi il dibattito attorno alle azioni – in particolare quelle legate alle statue, dalla vernice rosa sulla statua di Indro Montanelli a Milano alla rimozione della statua dedicata allo schiavista Edward Colston nel 2020, ad esempio – che i due movimenti hanno svolto è stato acceso. Importante sottolineare in questa sede che «la disputa delle statue», come scrive Enrico Gullo in un articolo che porta proprio quel titolo, fa parte di una storia lunga che chiama in causa la religione, la politica e la storia dell’arte in cui ricostruzioni, smantellamenti, rimozioni e stratificazioni si sono susseguite (Gullo, 2020) (2). L’alterazione la rimozione dei monumenti sono gesti che interrogano il simbolico ma non si limitano a quello, mettono in discussione l’archivio dell’ufficialità facendo comparire, per una temporalità variabile, l’archivio del rimosso. Attraverso l’esperienza puntuale di questi gesti si mette in discussione la relazione di potere insita nell’archivio. Sono i corpi oggettivizzati dal potere che compiono l’azione, ed è quella performatività che li rende di nuovo soggetti, compiendo uno spostamento tellurico che scuote la traiettoria scritta.

La produzione di visioni che queste azioni politiche hanno materializzato all’interno delle città ha un punto di tangenza con alcune pratiche performative. Non per il mero fatto di lavorare nello spazio pubblico o interrogare dei temi specifici, ma più per la stessa attitudine a intaccare l’archivio consolidato. Penso, ad esempio, al lavoro svolto all’interno dell’edificio dell’Ex Gil di Roma (rinominato dalla Regione Lazio WeGil) dal festival Short Theatre (in particolare, all’intervento del gruppo composto da Ilenia Caleo, Federica Giardini, Serena Fiorella e Isabella Pinto nella 14esima edizione del Festival e quello di Andrea Lo Giudice nell’ultima edizione del 2022), al festival Civitonia. Scrivere la fine o dell’arte del capovolgimento, immaginato da Giovanni Attili e Silvia Calderoni per un territorio complesso come quello di Civita di Bagnoregio che ha convocato un gruppo di artist3 a immaginare per quel territorio, ma che poi ha trovato la sua realizzazione performativa in un volume pubblicato da Nero Editions; al lavoro editoriale e curatoriale svolto da Joanne Affricot con Spazio Griot e a quello performativo e filmico di Liryc Dela Cruz. Esempi sicuramente diversi ma che interrogano l’archivio rendendolo visibile nelle sue contraddizioni.

Due sono i progetti che vorrei analizzare più in dettaglio in questa sede e che ho avuto l’opportunità di seguire da vicino.
Il primo è Oblio di Muna Mussie, artista e performer che si muove nel campo delle arti performative e in quello delle arti visive. Questo progetto ha visto la sua prima declinazione a Torino nell’ambito de La Biennale Democrazia in collaborazione con Fondazione Sandretto Re Rebaudengo e Black History Month Firenze. L’azione pensata da Mussie ha avuto luogo di fronte a un luogo simbolico per il colonialismo italiano, il Castello del Valentino. Una struttura di tubi innocenti ricoperta da tela da cantiere su cui veniva ricamata la parola “oblio”. La stessa azione ha avuto un’ulteriore declinazione, sviluppata all’interno del programma di residenze artistiche Prender-si cura del Mattatoio di Roma, dal titolo Oblio/Pianto del Muro. In questa seconda declinazione dell’azione performativa il dialogo sull’oblio è stato attivato attraverso la relazione con la struttura del Mattatoio, in particolare con la Galleria delle Vasche de La Pelanda, dove si è svolta l’azione. L’installazione Oblio è diventata, così, un luogo dedicato al lamento. L’azione del ricamo attivata da Muna Mussie stessa e da var3 collaborator3 provenienti dal laboratorio di sartoria Coloriage è stata accompagnata da una partitura sonora fatta da lamenti realizzata in collaborazione con Massimo Carozzi durante i giorni di residenza.
In entrambi i casi come affermato dalla stessa artista si è trattata della costruzione di “anti-monumenti” temporanei. Il lavoro di Mussie interroga costantemente la Storia mettendola in dialogo con le diverse storie che di volta in volta incontra.
Quella del ricamo è una pratica che viene utilizzata molto spesso da Muna Mussie e che lei stessa definisce una pratica relazionale. Non è, infatti, mai orpello, riflette sull’estetica ma non ne fa il punto focale, si fa di fronte a una collettività sia essa il gruppo di lavoro o di spettatori e spettatrici e quando rimane come installazione non resta mai solo o uguale a se stesso. In Oblio/Pianto del Muro le spettatrici e gli spettatori dell’installazione potevano disfare la scritta.
È la materia che si fa e si disfa ricomponendosi ogni volta in modi diversi interrogando la memoria in modalità inedite: che sia l’indagine sul rimosso del passato coloniale italiano e i suoi luoghi, che sia sul rapporto a tu per tu con il pubblico o con una canzone del periodo fascista, la memoria nel suo lavoro non è mai condizione statica o di puro racconto. Una memoria performativa, si potrebbe dire, che affiora e che va costantemente interrogata perché esca dall’archivio e possa essere costantemente attualizzata.

Se il lavoro di Muna Mussie ha dialogato con la monumentalità che compone l’archivio visibile, l’altro progetto che si insinua nelle maglie del tessuto urbano e gioca con la visione. So It Is è un progetto dell’attrice e performer Silvia Calderoni e della ricercatrice, performer e attivista Ilenia Caleo. Nasce da una richiesta di Freespace, West Kowloon Cultural District nell’ambito di una piattaforma co-curata da Kee Hong Low e Silvia Bottiroli e prende forma durante la pandemia. Non potendo viaggiare, Calderoni e Caleo immaginano un progetto che viaggi al loro posto. So It Is trova la sua azione matrice in un poster realizzato da Silvia Calderoni per la campagna La lotta è fica realizzata dal collettivo CHEAP di Bologna nel giugno del 2021. Il poster scatena delle reazioni di odio da parte della destra locale e nazionale sia sull’opera che sulla persona di Silvia Calderoni. È, però, a partire da una lettera di sostegno, scrive Calderoni, da come le compagn3 che l’hanno scritta assumono l’azione facendola diventare un campo di possibilità per tutt3, che nasce il desiderio di far diventare virale questa azione. So It Is è, infatti, un gesto di infestazione dello spazio pubblico che riflette, anche, su cosa vuol dire essere distanti in periodo pandemico e non. È stato un invito a varie artiste che ha tracciato una cartografia del desiderio sul corpo. L’invito è quello di realizzare un poster a partire da un’immagine a figura intera del proprio corpo da lavorare, successivamente, in post-produzione, realizzando i desideri di ciascuna delle artiste invitate a partecipare, secondo un principio di costruzione di un «immaginario imprevedibile di cosa possono essere e fare i corpi». Poche le regole da seguire (e volendo da tradire) per la realizzazione di un poster unico da affiggere nello spazio pubblico in un luogo scelto da artiste e curatrici del progetto. Le tappe sono state fino a ora Roma (Italia) con la musicista e performer Lola Kola; Kumasi (Ghana) con l’artista crossdisciplinare, performer e trans-attivista Va-Bene Elikem K. Fiatsi [crazinisT artisT]; Bilbao (Spagna) con le artiste Itziar Markiegi a.k.a. Jana Jan e Myriam Rzm; Belèm (Brasile) con l’artista performativa Berna Reale e Hong Kong (Cina) con l’artista performativa e coreografa Rebecca Wong Pik-kei. Ogni invito/incontro è avvenuto per contagio e tramite l’attivazione di prossimità relazionali e affettive. È così che Calderoni e Caleo interrogano gli archivi personali delle artiste coinvolte e quelli delle città dove i poster sono affissi inserendosi nel tessuto urbano in maniera imprevedibile e non annunciata, spostando la relazione del potere, facendo comparire sulle pareti dello spazio pubblico l’immagine di corpi che assecondando il proprio desiderio diventano soggetti dell’esperienza immaginativa. E al tempo stesso creano un altro archivio che ha una doppia natura: effimera, deperibile e fragile come di fatto è la carta in cui è realizzato il poster in copia unica, ma anche quella fisica di un sito web dove non solo è riportata la documentazione dei poster realizzati ma, anche, tutte le corrispondenze e i dialoghi attivati durante il processo di ideazione e realizzazione di ciascun poster.
Per concludere, prenderò in prestito un concetto dalla scienza dei materiali che espone Laura Tripaldi in Menti parallele, quello di interfaccia. Per Tripaldi, l’interfaccia, lungi dall’essere una separazione, è una regione materiale diversa dai corpi che l’hanno prodotta nel loro incontro. (Tripaldi, 2020) (5). Questa zona è un territorio concreto di dispiegamento di possibilità che offre una diversa modalità di pensare la coesistenza di oggetti diversi – siano esse delle soggettività che si incontrano nello spazio pubblico, azioni politiche di attivist3 o pratiche artistiche – che si incontrano interrogando l’archivio dato. Lo spazio urbano, così come i contesti artistici, svolgono, quindi, la funzione di interfaccia dove le soggettività (umane e non) si incontrano, coesistono e generano altrimenti, indipendentemente dalle traiettorie imposte, dalle storie scritte e dai pensieri a priori. Questo diverso pensiero sulla materia pone delle questioni dalle quali non si può più tornare indietro. Si può dire che l’archivio è squarciato e il riverbero del rimosso appare; la Storia è dunque interrogata. La sfida è quella di far continuare a riverberare ciò che è stato reso visibile. 


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1. Caleo, I. (2021). Disruptive Choreographies. Produzione di corporeità, materialità vagabonde e performance della presenza. Tracce Urbane. Rivista Italiana Transdisciplinare Di Studi Urbani, 5(9). https://doi.org/10.13133/2532-6562/17366
2. Kilomba, G., Decolonising Knowledge in The struggle is not over yet. An archive in relation, CIAJG notebooks
3. Kern, L.; La città femminista. La lotta per lo spazio in un mondo disegnato da uomini, Istituto della Enciclopedia Italiana fondata da Giovanni Treccani, 2021
4. Gullo, E., La disputa delle statue. Su una svolta possibile nella conservazione delle statue, Il Tascabile, 2020. https://www.iltascabile.com/societa/disputa-delle-statue/
5. Tripaldi, L.; Menti parallele. Scoprire l’intelligenza dei materiali, effequ, 2020

Archivi al presente, archivi del presente, ciclo di seminari di Judith Revel, a cura di Annalisa Sacchi, Università IUAV di Venezia.

 

 

Paola Granato

Paola Granato è studiosa di arti performative, ricercatrice indipendente e dramaturg. Collabora con diversi progetti di natura artistica unendo la scrittura, l’organizzazione e la curatela.
Ha collaborato con il Mattatoio di Roma – Azienda Speciale Palaexpo nel progetto di residenze di ricerca e produzione artistica Prender-si cura in qualità di dramaturg e con festival e istituzioni artistiche, tra i quali Santarcangelo Festival.