Sognando foreste
di Mali Weil
«A una foresta potremmo apparire come incendi. Uragani. Pericoli. Ciò che si muove in fretta è pericoloso, per una pianta. Lo sradicato non può che essere alieno, agghiacciante».
Ursula Le Guin, Più grande, più lento di qualsiasi impero.
Se sono stata chiamata a raccontare le mie riflessioni e il mio percorso di ricerca sulle relazioni tra umani e non umani, lo devo a un lungo progetto artistico e di ricerca che si chiama semplicemente Forests, iniziato nel 2018 e che si sta concludendo in questi giorni con la postproduzione di un lungometraggio (Forests | Un’evocazione), che ne narra la mitologia fondativa.
Le piante, come le foreste, sono ovunque nell’immaginario occidentale, e intorno a me, a noi. Rappresentano l’enorme maggioranza della biomassa terrestre. Perfino nelle città in cui ci siamo tanto impegnati per mettere in pratica la monocoltura umano-minerale (1) rimane difficile lasciar vagare lo sguardo senza imbattersi in un elemento vegetale.
E tuttavia per un tempo lunghissimo sono rimaste ai margini del nostro campo visivo, ai margini della nostra riflessione scientifica, forse anche della nostra coscienza.
La loro straordinaria alterità rispetto alla fisiologia e alla biologia animale le ha rese in qualche modo invisibili e impensabili. Anche ora che, ormai da diversi anni, sono al centro di un “gnoseological turn”, che ha visto allentarsi quello che Emanuele Coccia ha chiamato «la presa zoocentrica» (2), esse rimangono l’alieno per eccellenza. La sfida di pensare le piante equivale ancora, per noi che siamo “rootless”, sradicati, alla sfida di pensare l’Altro.
Quando cinque anni fa ho iniziato a lavorare a Forests, l’immaginario di riferimento nell’affrontare il mondo vegetale era già in piena trasformazione: l’ingresso delle piante nel quadro concettuale occidentale come esseri senzienti, intelligenti e reattivi era sancito dall’improvviso favore mediatico di cui la neurobotanica iniziava a godere. Tuttavia le prove che le piante sentano senza sensi, o con innumerevoli sensi per noi difficili da concepire, che siano consapevoli di ciò che accade in loro e intorno a esse, che ricordino e siano intelligenti senza necessitare di organi come cervelli o sistemi nervosi, erano state raccolte dai botanici fin dal XIX secolo.
Parte di questa svolta è senz’altro dovuta alla tecnologia: le possibilità di osservazione offerte dal video ci hanno permesso di vedere e dunque di credere ciò che prima era invisibile e impensabile. Come ben scrive Teresa Castro, la pianta senziente ed intelligente dei nostri tempi è «una post-natural mediated plant», una pianta cioè le cui capacità relazionali e la cui consapevolezza è stata resa discernibile, e dunque pensabile, dalla tecnologia. (3)
Tuttavia, più che al catalogo di mirabilia che la neurobotanica ha collezionato per noi, devo l’impulso iniziale che mi spinse a vedere la foresta come un aggregato di relazioni biologiche, ma soprattutto politiche tra alterità (tra animali e vegetali e tra animali umani e non umani) ad alcuni articoli di Susanne Simard (4) (sulle relazioni tra alberi madre, orsi, salmoni e natives umani nelle foreste canadesi) e di Paulo Tavares (5) (sulla foresta come opera di codesign tra umani e non umani), nonché ai ragionamenti di Anna L. Tsing (6) sugli “assemblage” come aggregati storici e narrativi capaci di produrre modi collettivi di sopravvivenza.
Queste relazioni, inoltre, si sono rivelate particolarmente interessanti se osservate dal punto di vista del diritto. Forests, infatti, attraversa la foresta guardandola con la lente giuridica che, come vedremo tra poche righe, la sua etimologia indica.
Nel mondo oltre umano della foresta cercavo un punto di partenza per immaginare tramite gli strumenti della performance e dell’arte quello che mi sembrava un residuo duro di impensabile, di non immaginabile: un altro modo di essere politici. Per me, che vivo lontana nel tempo e nello spazio da qualunque foresta primaria, proprio lo spazio della foresta si è rivelato un efficiente laboratorio di sviluppo e messa alla prova di un diverso ma coerente immaginario politico, incentrato su un nuovo modello relazionale con differenti accezioni della parola alterità. Vi è una sola via affinché le immagini, le storie, le parole che questo spazio evoca possano agire su di noi, trasformando il nostro modo di pensare, e questa via, come nelle migliori favole, richiede di attraversare la foresta.
«Passare la foresta è una storia, una finzione, un sogno. È anche un’operazione concettuale che trasforma il modo e le categorie attraverso cui pensiamo il mondo, le relazioni e lo spazio politico in cui noi, ogni genere di noi, esistiamo.
È la storia di altri modi di vedere, la finzione di altri modi di sognare e il sogno del diritto e della politica che verranno».
Dal film Forests | Un’evocazione, Mali Weil, 2022
Per passare la foresta, Forests ha adottato linguaggi e formati differenti, dentro e fuori dal mondo dell’arte, usando performance e design, master per architetti e urbanisti e installazioni, testi e articoli, fino alla realizzazione di un lungometraggio.
Una delle prime forme in cui il progetto è stato presentato al pubblico è stata Forests | Unlearning, una performance dove un gruppo di bambini accompagna il pubblico attraverso 43 immagini verbali, in un viaggio a metà tra sogno e veglia, per «sognare foreste» come comune spazio politico dove «vivere e morire bene con i nostri compagni inter-specie» (7). Mentre gli spettatori erano invitati a perdersi nell’ascolto, sdraiati, le teste prossime le une alle altre (in tempi pre-pandemici, quando ancora si poteva), i bambini trasformavano lo spazio innalzando una serie di stendardi e affidando agli spettatori alcune grandi figure nere (i Companions), che raffigurano alterità vegetali, microbiche, fungine, creando così uno spazio brulicante di esseri, forme e gesti rituali…
Al cuore della pratica di Mali Weil c’è sempre un atto performativo, che si espande fino a trascendere il tempo e il luogo della performance fondendosi in una serie di altre forme, di cui alcune, come il design, sono forse più adatte a penetrare nella vita quotidiana delle persone. Così Forests | Unlearning ha generato gli stendardi e una collezione di bambole (tit. Companions), che ambiscono a ripensare il modo in cui giochiamo, sostituendo alle classiche figure dell’infanzia nuovi compagni: divinità femminili ormai dimenticate, funghi, alberi madre, piante come la metamorfica Bouquilla, olobionti come il calamaro Euprymna Scolopes e i suoi simbionti batterici, assemblaggi storico-giuridici come l’Uomolupo, etc. Tutte queste figure ci vengono incontro dalla Foresta.
«Foresta è una parola bellissima.
La sua etimologia la colloca da subito nel mondo del diritto, allontanandola da quello della botanica, dove forse ci aspetteremmo di essere immessi.
Originando dal latino foris, fuori, la foresta dichiara immediatamente la sua natura giuridica.
È lo spazio da cui siamo chiamati a stare fuori».
Dal film Forests | Un’evocazione, Mali Weil, 2022
Come accennavo, il diritto è il focus alla cui luce ho scelto di pensare la foresta: esso condivide la capacità di istituire la realtà delle cose che nomina con un ristretto gruppo di altre forme linguistiche: con la magia e forse col sogno.
Istituita per lacerazione dalla parola di un re che avoca a sé il bosco per farne una riserva di caccia privata, la foresta conosce una lunga litania di entità che la magia giuridica ha creato al suo interno, o in stretta relazione al suo mondo. Gli usi civici, quell’insieme di diritti e consuetudini di semina, di pascolo, di raccolta di legname, di torba, di ghiande, castagne, fieno etc. che permettevano un godimento collettivo delle risorse della foresta.
E la proprietà privata, la cui origine il diritto romano fa risalire al gesto del primo cacciatore che insegue e colpisce la propria preda, facendo dell’animale un tempo libero una cosa propria. Di più: il gesto del cacciatore che trasforma l’animale in un oggetto appropriabile, istituisce il cacciatore stesso come soggetto di diritto, come persona giuridica.
Questi due opposti regimi, beni comuni e proprietà privata, si sono scontrati per secoli: la foresta è stata quindi il campo di battaglia in cui il nascente sistema capitalista ha forgiato la logica della privatizzazione e dell’enclosure.
E sempre nella foresta, centinaia di anni fa, sono state istituite due categorie costitutive della nostra vita di oggi: il soggetto di diritto e la proprietà privata. Una narrativa giuridica in cui siamo ancora prigionieri, secondo la quale l’Altro da noi esiste solo in forma di risorsa di cui appropriarsi: «ultimi testimoni dell’atto mediante il quale il primo soggetto si impadronì di ciò che è suo, gli animali della terra, dell’aria e dell’acqua sembrano correre, volare e nuotare soltanto nell’attesa del loro occupante» (8).
«Throughout legal history, each successive extension of rights to some new entity has been, therefore, a bit unthinkable».
C. Stone, Should trees have standing
Christopher Stone pubblicò Should trees have standing nel 1972: ieri come oggi, se dobbiamo dare uno statuto giuridico agli Altri, siano essi fiumi, piante, foreste o montagne, ci rifacciamo all’idea di persona giuridica. La nostra immaginazione è intrappolata nell’impossibilità di superare la dicotomia tra soggetto e oggetto, cose e persone, naturale e artificiale, animale e inanimato. Ma ogni volta che conferiamo personalità giuridica a un albero secolare, a un fiume, a una foresta non facciamo che ribadire queste separazioni e la superiorità della categoria di persona (umana) su tutte le altre. Dobbiamo fare uno sforzo collettivo per pensare l’impensabile, per immaginare come possano avere diritti gli assemblage, gli ecosistemi, i collettivi (9).
Per forzare questo blocco dell’immaginazione, il progetto Forests si chiude con un film (che sarà presentato in anteprima al Trento Film Festival il 7 maggio), che rinarra la foresta come possibilità per pensare diversamente. Il film, tra documentario e fiction, si concentra visivamente sull’elidere la spaccatura tra dentro e fuori, interno ed esterno, città e foresta, umano e non umano, animale e vegetale. Nel film la foresta mantiene la sua esasperata alterità, ma adotta anche la forma di un rito che un gruppo di bambini continuamente ricreano, giocando su un’infinità di possibilità alternative di vedere, pensare, sognare. Per la colonna sonora abbiamo lavorato con il compositore Nicola Segatta e con il Coro estone Collegium musicale per riattivare antiche formule giuridiche, mettendo in musica il bando di Chilperico del V secolo, con cui il re escludeva il proscritto dalla comunità politica e lo condannava a vagare nella foresta come una bestia selvatica, ma anche le molteplici parole latine che ancora vivono nel nostro parlare di foreste e piante e soprattutto il tema del sogno come dispositivo di conoscenza comune.
«Nei sogni alcune relazioni che in stato di veglia ci sembrano perdute tornano ad essere possibili. I lupi, i serpenti, gli insetti. Pesci. Uccelli di ogni tipo. Batteri, divinità. Esseri ctoni, tentacolari. I morti da tanti anni. Anche quelli che non ho mai conosciuto, o da lungo dimenticato. Sono nei nostri sogni perché lì resiste l’intimità che ad essi ci legava.
Per me il sogno è una forma di ospitalità. Acuisce il mio desiderio verso l’alterità».
Dal film Forests | Un’evocazione, Mali Weil, 2022
L’ultimo dei fili conduttori, che mi portano dalle piante alla politica e che attraversano tutto il progetto, è il sogno inteso come dispositivo politico.
Le culture legate più profondamente della nostra al mondo della foresta, come quelle Inuit, Sami o quelle amerinde, che spesso mantengono in vita ancora oggi pratiche sciamaniche, hanno individuato nel sogno un efficace dispositivo per gestire le relazioni con l’alterità. Un dispositivo che in un tempo non troppo remoto conosceva anche l’occidente: un territorio intermedio, di contatto e di conoscenza tra noi e gli Altri, raggiungibile attraverso la mediazione di una figura guida (quella dello sciamano) ma anche a disposizione del singolo per riconnettersi con spiriti, defunti, antenati, animali, fenomeni atmosferici, piante… Anche oggi nei sogni ci riscopriamo capaci di vedere gli altri come persone, dunque come dotati di una loro forma di agentività.
Se è vero come scrive tra gli altri Federico Campagna che «l’epidemica paralisi dell’azione e dell’immaginazione appartiene alla forma del nostro tempo», la frequentazione col mondo oltre umano della foresta mi ha aiutato a intravedere una eco-cosmologia delle relazioni, in cui sogno, finzione e un rinnovata modalità di visione possono offrire strumenti per ripensare lo spazio della polis espansa in cui tutti noi, umani e non, viviamo.
La mia ricerca prosegue ora, oltre Forests, in un nuovo lavoro al cui centro c’è un viaggio al di là del linguaggio umano, alla ricerca delle basi immaginali per la costruzione di un’arte diplomatica che si faccia carico della gestione politica delle relazioni con gli altri dall’umano.
Mi accompagneranno il sogno, il diritto e le relazioni nate nella foresta.
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1. Emanuele Coccia, Métamorphoses, Bibliotheque Rivages
2. La vita delle piante. Metafisica della mescolanza, intervista ad Emanuele Coccia di Riccardo Venturi https://www.doppiozero.com/materiali/la-vita-delle-piante-metafisica-della-mescolanza
3. «The “sensitive,” “sentient,” or “intelligent” plant of our current time is necessarily a post- natural mediated plant, a plant interposed by visual and other technologies that make their awareness and in-tuneness with other plants and their surroundings discernible to the rationalist eye. These are technologies that invite us to conceive the plant-other in intentional and overtly queer terms”» da Teresa Castro, The Mediated Plant
https://www.e-flux.com/journal/102/283819/the-mediated-plant/
4. Suzanne Simard, The Mother Tree in intercalations 4:The Word for World is Still Forest, 2017 K-Verlag
5. Paulo Tavares, The Political Nature of the Forest: A Botanic Archaeology of Genocide in intercalations 4:The Word for World is Still Forest, 2017 K-Verlag.
6. Anna L.Tsing, Il fungo alla fine del mondo, 2021 Keller.
7. Donna Haraway, Chthulucene, 2019 Nero.
8. Yan Thomas, Imago naturae. Nota sull’istituzionalità della natura a Roma in Yan Thomas, J. Chiffoleau, L’istituzione della natura, Quodlibet, 2020
9. Per tutta questa parte di riflessione mi è stato guida il sociologo del diritto e ormai caro amico Michele Spanò. Rimando in particolare al suo “Perché non rendi poi quel che prometti allor?” Tecniche e ideologie della giuridificazione della natura in Yan Thomas, J. Chiffoleau, L’istituzione della natura, Quodlibet, 2020
Mali Weil
Mali Weil è una piattaforma artistica costituita da Elisa Di Liberato, Lorenzo Facchinelli e Mara Ferrieri, di base a Trento (IT). Dal 2012 sviluppa una ricerca che indaga le potenzialità della performance come motore di creazione e spazio di diffusione di immaginario politico. La sua produzione visiva spazia dalla performance al product e speculative design, da prodotti editoriali a format audiovisivi, ma opera anche attraverso progetti curatoriali e workshop.