A proposito della fine

di Andrea Esposito

Immagine tratta da "I racconti dell'apocalisse" di Andrea Esposito
Immagine tratta da “I racconti dell’apocalisse” di Andrea Esposito

Nelle cose che scrivo non ci sono personaggi. Non saprei come si scrive un personaggio e non saprei cos’è che lo rende tale. Forse per scrivere personaggi bisogna credere in maniera assoluta nei romanzi oppure non crederci affatto. A me sembra di scrivere corpi e figure. Sono uomini e donne tra loro molto simili, e quello che condividono forse è la loro vicinanza alla fine, a una certa idea di fine. Certi sono stanchi, di una stanchezza speciale e assoluta, esausti. Esausto è una parola chiave, che ovviamente associo alla parola fine. L’esausto è chi sta seduto e ha esaurito ogni possibilità, dice Agamben raccontando Deleuze, e quegli esseri e quelle figure hanno esaurito ogni cosa e non resta loro altro che aprirsi alla fine. E non mi sembra che la fine sia qualcosa che arriva o arriverà un giorno, ma qualcosa di interiore che si schiude. Mi sembra che l’esaurirsi conduca a una luce, come in quelle stanchezze affilate dopo una notte insonne che stranamente ci danno per un attimo lucidità, quel momento in cui un corpo stanco è così stanco che decide di non fermarsi per non crollare e prosegue per forza d’inerzia, ostinatamente e senza volontà apparente.
In quei corpi indistinti c’è un brillare di fronte alla fine, una nudità dell’essere. E anche nudità è una parola che associo alla fine, perché la fine in qualche modo contiene sempre la nudità, quella che viene da uno svelamento o da una spoliazione. Nessuno muore vestito.

Mi sembra che oltre ai corpi anche i libri che ho scritto facciano lo stesso. Sono intrisi di fine, gocciolano verso la fine e la fine è il centro a cui puntano, e tutto il libro, mi sembra, si concentra nel finale, nella pagina finale, nell’ultima frase, nell’ultima riga. Si esauriscono gradualmente, pagina dopo pagina, svelandosi man mano che si avvicinano alla fine.

E anche e soprattutto in quest’antologia di racconti che ho curato, I racconti dell’apocalisse, mi sembrava di partire dallo stesso punto. Ho cercato di cominciare sempre dalla parola fine, nelle sue varie forme, nei suoi significati, una fine che è una fine dello spazio, una fine che riguarda il tempo, una fine che è sociale, di ciascuno, individuale. Tra questi racconti c’è un mondo che finisce ed è il mondo degli imperi aztechi, maya e inca prima dell’arrivo degli invasori europei. C’è un mondo che finisce ed è il mondo delle caste e degli uomini, che in un sogno viene rovesciato. C’è una bambina che cerca una fine del mondo ed è un luogo, e quando la trova la può abitare.
Ed esplorare, far esondare la parola fine in altre accezioni, slargarla, sabotarla, non serve a sfilacciarla ma a schiuderla, e a raccontare che la fine in un modo o nell’altro, in una forma o nell’altra, è sempre stata qui, ci è sempre stata accanto, che la fine è già contenuta in noi e il futuro è sempre un adempiersi.

In Cristallo di rocca di Stifter due bambini si perdono in montagna alla vigilia di Natale. Quando escono per andare a trovare la nonna nel villaggio vicino il tempo è bello. C’è il sole e tutto intorno è in pace. Ma arriva una tempesta di neve che li travolge, e i bambini sono costretti a nascondersi in una caverna. Il carico di mistero che il racconto porta si nasconde proprio nella metamorfosi che subisce la natura. Non sembra che arrivi la tempesta a turbare uno scenario, ma che la natura all’improvviso mostri un diverso volto, si trasformi sotto gli occhi impotenti dei bambini, con una forza che si traduce in inconcepibilità. La furia non arriva da un altro luogo e da un altro tempo ma è sempre stata dentro quegli stessi elementi, dormendo, e il sole e la pace sono forse solo il sogno di quella fine stessa.
La fine è l’estraniarsi del domestico e lo spaesarsi dell’appaesato, come dice De Martino. E noi la viviamo e la interpretiamo giorno per giorno. Riguarda tutto il tempo, non una sua parte, non la sua immaginaria estremità. È un verso di lettura del tempo, una prospettiva e un punto di osservazione. Poterla abitare ed essere abitati da essa, partire da essa, questo forse adesso ci riguarda più che mai.

Noi la abitiamo ma non possiamo vederla, perché siamo al suo interno e possiamo vederne solo delle parti, come per gli Iperoggetti di cui parla Timothy Morton. È incomprensibile nel suo insieme, inconcepibile e neanche raccontabile.
Ed è proprio per questo che forse dovremmo imparare ad incarnare in qualche modo un tempo della fine. Capire che la fine è sempre stata qui con noi ci fa capire che è una cosa dentro di noi, così grande e tracimante per il nostro pensiero che non riusciamo a esprimerla: ed è per questo che è così difficile articolare azioni, espressioni individuali o politiche globali adeguate ad essa, che possano spostarla su un piano reale. Ma imparare a essere la fine di questo tempo vuol dire anche imparare a prepararsi a una nuova forma di mondo, a una nuova forma di esistenza. Se siamo circondati da distopie, ucronie, è perché sono le forme più adatte a raccontare il presente. Siamo immersi in un mare di voci che cercano di esprimere nuove parole e immaginare un altrove che sia qui e ora.
Mi sembra che vivere in questo tempo della fine non vuol dire rinunciare o abbandonarsi, ma prepararsi e interpretare quello che viene. Significa forse non avere niente e non portare niente con sé. Nudità, ancora.

 

 

Andrea Esposito

Andrea Esposito ha pubblicato nel 2018 il romanzo Voragine (Saggiatore), finalista al Premio Calvino. Nel 2021 ha pubblicato Dominio e nel 2022 ha curato l’antologia I racconti dell’apocalisse, entrambi pubblicati dal Saggiatore.