Il contrario della fine

di Nicola Borghesi

"Gli Altri" di Kepler 452 - Nicola Borghesi
“Gli Altri” di Kepler 452 – Nicola Borghesi

Qualche giorno fa mi è stato chiesto di scrivere qualcosa che parlasse della fine, tema sul quale, secondo chi mi ha invitato, dovrei avere qualcosa da dire perché qualche anno fa, in un festival che dirigevo insieme a Enrico Baraldi, «Festival 20 30», ho intitolato un’edizione: catastrofe. Per un’affascinante coincidenza mi trovo a scrivere queste righe chiuso in casa a causa di una leggera forma di Covid nelle prime ore della guerra tra Russia e Ucraina. Quando immaginammo quel tema per il festival – catastrofe – era il 2017, ancora non c’era stato il Covid e tantomeno la guerra in Ucraina. Qualcosa di greve però, a giudicare da quella scelta, già si sentiva nell’aria.
In questi giorni di isolamento colmi di angoscia, non certo dovuta al Covid, derubricato ormai al rango di scocciatura che produce comunque alcune centinaia di decessi al giorno, ho avuto modo di vivere una strana sensazione già esperita nel marzo del 2020, durante il primo lockdown. Una sensazione mista di terrore, novità e liberazione. Se il terrore e la novità non mi hanno stupito, molto mi ha dato da pensare questo strano senso di liberazione, che mi fa anzitutto sentire in colpa. In ambedue i casi questa curiosa sensazione si manifestava infatti contemporaneamente a delle oggettive catastrofi, con relative sofferenze e morti. Mi sono quindi chiesto: da dove viene questo senso di liberazione? Da cosa mi sento liberato? Che peso ho in meno sul cuore, che prima avevo, al netto dei nuovi pesi che si aggiungono? Per abbozzare una risposta devo, temo, partire da lontano.
La generazione a cui appartengo, quella nata negli anni Ottanta, è forse la prima ad essere cresciuta compiutamente in un’ottica di fine. Quando sono nato Margaret Thatcher aveva già pronunciato, nel tripudio generale, le parole «there is no alternative». Il concetto di “fine della storia” si era già potentemente imposto nel senso comune di quasi tutti, nei miei primi anni di vita, anche se ancora non era diventato un libro. Mi ricordo di aver sentito parlare di fine delle risorse per la prima volta alle scuole elementari, ci si riferiva in quel caso in particolare, se non ricordo male, alla prossima fine del petrolio. Alle scuole medie hanno fatto capolino le prime avvisaglie di catastrofi ambientali, in quei tempi nella forma evocativa e misteriosa, almeno agli occhi ancora incantati di un dodicenne, di “buco nell’ozono”, causato, se non ricordo male, dall’uso forsennato della lacca. Poi ha fatto il suo ingresso, definitivo e violento, il riscaldamento globale. Infine il concetto di antropocene, come punto di non ritorno. Tutto il percorso cognitivo fin qui descritto accompagnato dalla consapevolezza di alcune centinaia di testate nucleari sparse per il mondo, alcune delle quali a pochi chilometri da me, e dall’esistenza di pulsanti in grado di farle esplodere in qualsiasi momento. Bombe che, ovviamente, non sarebbero mai state impiegate, anche se per un bambino è ben difficile da capire l’esistenza di cose così mortali destinate a non essere usate mai.
Insomma, mi accorgo ora che la fine ci ha sempre camminato a fianco, a noi nati negli anni Ottanta. Finita la storia, in via di esaurimento le risorse, quasi finito, anche se non è chiaro quando ed esattamente come, il mondo.
La fine, tuttavia, è sempre stato un qualcosa di impreciso, di poco chiaro, di confuso. Sappiamo che la storia è finita, certo, non si spiega però perché i popoli del mondo siano ancora così diversi e animati da sentimenti e aspirazioni così dissimili e, in alcuni casi, opposte. Le risorse finiranno, lo sappiamo, ma è anche evidente che il comportamento di tutti racconta l’esatto contrario. E questo petrolio che alle elementari mi dicevano sarebbe presto finito, beh, è ancora lì. Il cambiamento climatico renderà il pianeta inabitabile, chiaro, ma quando? Come? Che esperienza sarà per ciascuno di noi? Riguarderà noi o i nostri figli, se ne avremo? Insomma, la fine, così prossima, poi tarda sempre a manifestarsi. Inoltre, rispetto a questa fine incipiente, non c’è molto da fare, perché la storia, per l’appunto, è finita.
Questa vaghezza impone su tutto il vivere una certa cappa asfissiante.
Ecco in questi giorni di guerra, e prima ancora in quelli i cui è esplosa la pandemia, io ho come la sensazione, forse per la prima volta da molti anni, che si sia aperta una finestra, terribile, in questa cappa, che la storia non sia finita, ma che sia, anzi, potentemente in marcia, in direzione catastrofe, certamente, ma tuttavia in marcia. Questo pianeta, destinato fin qui nel nostro immaginario a spegnersi in una lenta agonia sempre uguale a se stessa, si rimette in moto all’improvviso. È una tragedia, naturalmente, ma non riesco nemmeno a negare lo strano sollievo che queste folate d’aria provocano in me, italiano privilegiato chiuso in casa con una forma di Covid lieve lontano dalle bombe.
In questi giorni tutto ciò che ci ha sempre camminato a fianco, ma è stato oggetto di una potente rimozione, si ripresenta, in una sorta di notte di Valpurga. La guerra, che non è mai cessata nel mondo e nemmeno in Europa, sempre esercitata lontano da noi e per nostra esclusiva convenienza, ecco che torna a lambirci i confini di casa. Le pandemie, che sembravano appannaggio esclusivo di sconosciuti popoli africani, promettono di diventare parte della nostra quotidianità. Le bombe atomiche, sempre presenti nel nostro inconscio e nelle basi militari non lontane da casa nostra, tornano ad essere ciò che sono: una minaccia concreta immediata. Le domande sul nostro ruolo nella storia, come singoli, come italiani ed europei, tornano a interrogarci, trovandoci drammaticamente impreparati.
Allora, forse, mi pare di capire cos’è questo peso in meno che ho sul cuore, in mezzo a questi pesi nuovi che si sono aggiunti: la scoperta, empirica, che la storia non è finita.
Questa notizia riempie di angoscia, un’angoscia però diversa da quella del tutto impotente provata fin qui.
La scoperta è che c’è qualcosa da fare. Non è chiaro cosa, ma c’è da studiare, per capirlo. Che c’è una parte da prendere, anche se è difficile.
Non è la fine e bisogna evitarla, la fine. E per farlo bisogna capire, una volta per tutte, che la storia non è finita. Noi ci siamo dentro e contiamo anche qualcosa. E dobbiamo attrezzarci per capire come contribuire a farla, nel modo più decente possibile. O almeno scrivere una biografia che sia all’altezza, di questa consapevolezza.
Poco prima di consegnare questo articolo scopro sgomento della sospensione del corso su Dostoevskij del mio amico Paolo Nori. Ecco, capire che la storia non è finita, forse, serve a farsi trovare preparati di fronte a mostruosità di questo genere.

 

Nicola Borghesi

Nicola Borghesi è attore, regista, drammaturgo, direttore artistico per la compagnia Kepler-452 di cui è anche fondatore. È inventore del Festival 20 30 di Bologna. Cura la regia di Il giardino dei ciliegi – Trent’anni di felicità in comodato d’uso, spettacolo vincitore del Premio Rete Critica 2018, e F. – Perdere le cose prodotti da ERT-Emilia Romagna Teatro. Realizza, insieme a Kepler-452, i format di teatro partecipato La rivoluzione è facile se sai con chi farla, Comizi d’amore, L’inferno dei viventi e La grande età.