Firenze. Le conseguenze del decoro
di Federico di Vita
Alcuni ricordi di Firenze. Una sera di pioggia – frequentavo da poco la città, Ilaria, che poi sposerò, viveva accanto a Piazza Tasso, io volevo esplorare i dintorni – capitai quasi per caso di fronte alla chiesa del Carmine, la piazza era un parcheggio, la pioggia era fitta. Poco dopo ero a Santo Spirito, la piazza alberata mi accoglieva come in un abbraccio, in fondo c’era la basilica disegnata da Brunelleschi e l’invito del suo sagrato vastissimo, irresistibile anche sotto la pioggia, che andava scemando: mi sedetti un po’ lì. Un altro ricordo. Ilaria che mi saluta dalla banchina mentre il treno parte, a Santa Maria Novella. Nello stesso posto: qualche treno preso al volo, col controllore già sul predellino, arrivando senza fiato, di gran carriera. Ancora: una notte in acido con un amico passeggiando attorno al Duomo, le formelle concentriche che decorano il fianco della basilica ci sembravano un massaggio per la mente, poco dopo eravamo davanti alla facciata e il piccolo, patetico cordone posto a protezione degli appena quattro gradini mi appariva immediatamente in tutta la sua miserabile meschineria. Leviamolo, proposi al mio sodale. Perché non ci si può sedere qui? Da quando c’è questa oscenità? Almeno da quando ci sono io, pensavo facendogli la domanda mentre a lui veniva quasi da piangere ricordando il tempo in cui andava al liceo, e proprio su queste scalette si dava i primi appuntamenti con le ragazze.
Se venissi a vivere a Firenze oggi, non potrei avere ricordi come questi. Il sagrato di Santo Spirito è stato sottratto alla popolazione dopo secoli; la Stazione di Santa Maria Novella è stata deturpata – invero come quasi tutte le altre “Grandi Stazioni”, così le chiama Trenitalia – da enormi barriere, che oltre a rovinarne il vasto spazio razionalista impediscono a chi non sia in possesso di un biglietto di raggiungere le banchine – e a chi ce l’abbia ma sia in ritardo di arrivare in tempo. Sui gradini del Duomo invece continuiamo a non poterci sedere – questo è rimasto uguale, a dirla tutta. Questi ricordi stanno bene accanto ad alcuni dettagli, come la trasformazione dello storico e centralissimo cinema Gambrinus in un Hard Rock Cafè; o la morte della libreria Martelli – a due passi dal Battistero – che è diventata un Eataly. Ancora: la chiusura al pubblico e l’affitto nientemeno che di Ponte Vecchio, che Matteo Renzi alienò per una cena privata alla Ferrari; o, in sedicesimo – come tutto ciò che fa Dario Nardella rispetto al predecessore – il transennamento e la privatizzazione di Piazza Ognissanti per un intero weekend in occasione dei festeggiamenti per il matrimonio di Yogesh Mehta, figlio di uno dei più importanti imprenditori indiani del petrolchimico. Aggiungo l’idea di Eike Schmidt, il direttore degli Uffizi, di rimuovere i ritratti dal Corridoio Vasariano – dove sono da secoli – col fine di includere il passaggio nel massivo percorso turistico del museo.
Prendendoli a uno a uno questi eventi, a mio avviso preoccupanti, sembrano avere una loro autonomia, una loro storia, ma messi accanto ad altri – penso in questo caso a una serie di interventi politici con conseguenze dirette sul valore degli immobili (e sul loro effettivo utilizzo) – ci permettono di intuire l’idea di città che negli ultimi decenni la politica locale ha immaginato per Firenze. Sarà pure una frase fatta ma seguire il flusso del denaro spesso in questi casi aiuta, e al riguardo è interessante un servizio di Report firmato da Giuliano Marrucci e intitolato Svenditalia, dove tra le altre cose si parla del progetto di un grande albergo nei locali della ex Caserma Vittorio Veneto, in Costa San Giorgio – uno spot dorato, dove affacciandosi sembra di poter afferrare i monumenti del centro di Firenze semplicemente allungando le mani. Per andare incontro al disegno della famiglia Lowenstein, ricca acquirente del complesso, il Comune di Firenze aveva previsto addirittura una variante urbanistica, per consentire un accesso spettacolare alle centoventi residenze di lusso che prenderanno il posto della vecchia caserma. Accesso costituito da un ascensore in vetro inclinato, a cremagliera, da installare tra Palazzo Pitti e il Giardino di Boboli. Senza contare il ristorante, la SPA, e anche un tunnel sotterraneo di 600 metri – il tutto in una città dove se un comune mortale volesse aprire una finestrella su una parete cieca dovrebbe passare per un inferno burocratico senza fine – al termine del quale sarebbe costretto a rinunciare. Non so come finirà questa vicenda, ma mi sembra indicativa del tipo di persone che programmaticamente si adopera di attrarre il Comune: i turisti, meglio se ricchi. E se il costo per confezionare l’immagine da cartolina che qualcuno evidentemente deve avere in mente è quello di combattere la popolazione, non ci si tira centro indietro. E così ecco negli anni Nardella farsi immortalare mentre con gli idranti annaffia il sagrato di Santa Croce (stesso trattamento ricevuto da quello di Sant’Ambrogio, ma senza photo-opportunity: è meno glam) o, come raccontavo all’inizio, la sanguinosa chiusura di quello di Santo Spirito: essendo quella piazza ormai l’ultima frequentata proprio dai fiorentini, cioè da chi vive la città, più che dai turisti. Le azioni contro la movida, anzi contro la «malamovida a basso costo», per usare l’espressione coniata in questi giorni da Carlo Calenda, non si fermano davanti a nulla, arrivando a colpire tanto i turisti che intendono bersi una Peroni su un pugno di gradini, quanto i fiorentini che vogliano fare lo stesso. La sottrazione degli spazi pubblici procede spedita, anzi perfino accelerata grazie all’opportunità – a Palazzo Vecchio devono vederla così – offerta finalmente dalle norme anti-Covid, grazie a cui si è addirittura arrivati a immaginare di chiuderla del tutto Piazza Santo Spirito e di consentire l’accesso al suo spazio, da sempre popolare, solo per il passaggio – dunque senza possibilità di sosta, neanche sulle panchine (se non forse per i residenti dei palazzi che insistono sulla piazza, che così verrebbe di fatto privatizzata). L’unica altra forma di sosta ammessa è quella nei dehor dei molti locali, a cui nel frattempo il Comune ha concesso una vera distesa di suolo pubblico: la piazza è coperta di tavolini ma sulle panchine e sul sagrato della chiesa non ci si può sedere. Il problema insomma non sono gli assembramenti o gli schiamazzi, il problema sono i poveri, la “malamovida a basso costo”, le birre del “bangla” – se avete da spendere qualche decina di euro in cocktail state certi che lo spazio c’è.
È così che per mezzo dello strumento delle ordinanze l’emergenza diventa ordinaria amministrazione, mentre le derive securitarie colonizzano lo spazio del dibattito politico sulle città. Come osserva Christian Raimo (partendo da alcune osservazioni di Enrico Gargiulo e Anna Avidano, contenute nell’illuminante studio intitolato Il “governo” della movida a livello locale: una ricerca sulle ordinanze sindacali “anti-alcool” e “anti-vetro”) uno dei punti nodali di questa escalation fu il terribile decreto Minniti-Orlando, che riuscì a «rimodulare la nozione di sicurezza urbana aggiungendo un altro pezzo di ideologia mancante: il decoro. La sicurezza urbana viene ridefinita ‘bene pubblico relativo alla vivibilità e al decoro delle città’». Era l’escamotage che mancava per consentire ai sindaci di fare politiche reazionarie, magari in contrasto con normative nazionali ma che grazie allo strumento delle ordinanze risultano sul breve inattaccabili. «Abbiamo trovato la leva! – commenta Raimo – Per fare politiche di destra: securitarie, repressive, di controllo, ma abbiamo parole neutre, weasel words come si direbbe in sociolinguistica: parole adatte a essere plastiche a ogni tipo di uso soggettivo. Non è chiaro? Per X può essere indecorosa una piazza piena di suv parcheggiati, per Y – come accade molto spesso – può essere indecorosa una piazza in cui ci sono degli stranieri che mangiano sulle panchine o dei senzatetto che dormono sotto un portico per ripararsi dalla pioggia». Lo slittamento del concetto stesso di sicurezza «da una safety economico sociale (cito ancora Raimo) alla sicurezza come controllo – la security – è la storia in cui la lotta di classe si è fatta nelle città, ed è stata vinta da una parte: chi ha rendita, chi vuole chiudere gli spazi pubblici, chi pensa che la città sia essenzialmente il luogo dei proprietari e dei consumatori”. Seguiamo i soldi anche a Firenze, vi dicevo, e scopriamo che uno dei nodi cruciali nel sacrificio della vita cittadina sull’altare della rendita è stato costituito dallo spostamento di tre importanti facoltà universitarie fuori dal centro storico: la presenza degli studenti era infatti tra le poche cose che riuscivano a tenere in vita alcune strade di qua d’Arno. Spostare le facoltà nel polo di Novoli – ottimizzando al contempo la fruibilità della didattica, qualcuno obietterà; in un ammirevole caso di eterogenesi dei fini, aggiungo –, ha consentito di destinare tutto quel che restava del centro alla rendita. La rimozione di Scienze della Formazione dalla zona di Via Tornabuoni ha consentito alla strada di diventare pienamente una via del lusso. L’allontanamento degli studenti di Scienze Politiche e Giurisprudenza ha svuotato il centro degli studenti, disarticolando la rete sociale studentesca in un pugno di strade in cui era vista come un ostacolo al modello di città a uso e consumo del turista. Spariti gli studenti le case sono finite su Airbnb, i servizi si sono organizzati di conseguenza, e l’avanzata del deserto – scusate, del decoro – ha inghiottito gran parte della città.
Arrivando oggi a Firenze non cenerei a due passi da Piazza Ognissanti a casa di un gruppo di scapestrati studenti lucani perennemente intenti a mettere insieme e tentare di vendere la loro rivista autoprodotta (Collettivomensa, per la cronaca), per la semplice ragione che nei dieci anni che sono passati dal mio arrivo quella casa non viene più affittata a gente come loro ma a qualche turista russo, che si ferma un paio di giorni. La città è cambiata, finendo per respingere buona parte di ciò che poteva tenerla in vita.
Arrivando oggi a Firenze non avrei ricordi simili a quelli che ho avuto trasferendomi in città ormai quasi dieci anni fa, ma a questo punto non ne avrò neppure di nuovi, almeno non da residente. L’anno scorso con Ilaria cercavamo una nuova casa ma tra il valore alle stelle degli affitti – quando si ha la fortuna di trovare case decenti in un mercato ormai striminzito – e i costi esorbitanti al metro quadro per chi volesse acquistare, abbiamo capito che era il momento di andarcene. Abbiamo avuto una figlia, crescerà nel degrado – pardon, in campagna.
Federico di Vita
Federico di Vita è nato a Roma e vive in Toscana. Scrive di cibo, psichedelia e cultura su diverse testate, tra cui Elle Decor, L’Indiscreto, Esquire e Vice. È autore del saggio-inchiesta Pazzi scatenati (Tic, 2012) – Premio Speciale nell’ambito del Premio Fiesole 2013; del libro I treni non esplodono. Storie dalla strage di Viareggio (Piano B, 2016); ed è curatore del libro collettivo La scommessa psichedelica (Quodlibet, 2020). Da gennaio 2021 conduce Illuminismo psichedelico, un podcast completamente dedicato alla psichedelia.