Il senso sociale del ridere

di Andrea Staid

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«Se avete in animo di conoscere un uomo, allora non dovete far attenzione al modo in cui sta in silenzio, o parla, o piange; nemmeno se è animato da idee elevate. Nulla di tutto ciò! – Guardate piuttosto come ride»
(F. M. Dostoevskij)


Pur essendo inconfutabile l’esistenza di alcune costanti fisiologiche, dei relativi bisogni essenziali e di comportamenti apparentemente identici in tutte le culture, la maggior parte delle antropologhe e degli antropologi hanno sempre sottolineato che basta un breve contatto con più di una cultura per intuire come le differenze siano più numerose delle costanti. Senza contare che comportamenti identici possono avere motivazioni diverse e il ridere rientra in uno di questi casi.
Ridere, come la maggior parte delle cose che “creiamo” per vivere è una produzione culturale, la vita di noi esseri umani è guidata dalla cultura. Anche gli aspetti più basilari; come mangiamo, come riposiamo, come costruiamo famiglia, come balliamo, li creiamo culturalmente. La cultura ci permette di accostarci al mondo in senso pratico e intellettuale, senza la creazione di cultura noi animali umani non potremmo pensare e agire, per questo è giusto affermare che la cultura ci rende umani. Parafrasando Clifford Geertz, l’uomo è un animale sospeso fra ragnatele di significati che egli stesso ha tessuto, la cultura consiste proprio in queste ragnatele di significati.
Manifestare emozioni con più o meno rumorosi movimenti del viso è quindi una costruzione culturale proprio perché il significato del perché e di come ridiamo lo costruiamo socialmente, attraverso il contatto con alti esseri umani. È giusto però sottolineare che i neuroscienziati sostengono l’esistenza di due tipi di risate. Quella spontanea e quella costruita socialmente. Le basi neurali della risata spontanea, involontaria, sembrerebbero secondo molti studi, differenti rispetto a quelli della risata sociale e culturale della quale sto parlando in questo articolo.
Di fatto sappiamo tutti, anche solamente grazie alla nostra esperienza personale, che ridere costituisce un’espressione unica ma allo stesso tempo può descrive situazioni molto diverse. Come scrive l’antropologo Le Breton nel suo saggio sull’homo ridens, il riso per esempio può emergere in situazioni tragiche, col fine di esorcizzarle, dopo un incidente, una situazione difficile, dopo essere scampati alla morte, la brusca scomparsa dell’angoscia innesca il riso, ma questo non vale per tutte le culture disseminate nel globo, perché come ridiamo è sicuramente una costruzione culturale legata al suo contesto di produzione di senso.
Si può ridere di gioia, o ridere di scherno: il sentirsi superiore, l’aver fatto una battuta ironica, così come il deridere qualcuno possono decretare nell’attore dello scherno o nei partecipanti tutti una inarrestabile risata, ma dipende dal luogo dove ci si trova e dal contesto che si vive. Secondo uno studio svolto dall’Università di Glasgow e pubblicato sulla rivista Proceedings della National Academy of Science, è emerso che, mentre gli occidentali esprimerebbero in modo più chiaro, con i movimenti del viso, l’emozione che provano, gli orientali avrebbero espressioni meno facilmente interpretabili per un osservatore occidentale. In particolare, sarebbe emersa una evidente differenza nel modo di sorridere: gli occidentali metterebbero in azione tutti i muscoli del viso, soprattutto quelli della bocca, mentre gli orientali si esprimerebbero principalmente con gli occhi.
Non solo, il sorriso avrebbe funzioni e significati differenti a seconda della cultura di riferimento. In Giappone, ad esempio, è emerso che gli impiegati sorriderebbero al proprio superiore solo per nascondere un turbamento. Nei Paesi orientali il sorriso sarebbe legato alla gerarchia sociale e servirebbe a negoziare il proprio status o ad esprimere gratificazione al proprio interlocutore.

Quindi «Che significa ridere?»

Non siamo i primi a chiedercelo e siamo certi che non ha solo un significato. Henri Bergson, nei primi del Novecento se lo è chiesto nel suo saggio: Le rire. Essai sur la signification du comique.
Bergson nel suo libro afferma che il riso è sempre il riso di un gruppo, di una comunità, e porta degli esempi pratici, si ride al cinema o a teatro, a scuola o in ufficio. Il filosofo francese ha ben chiaro che a ridere è sempre una data società, e infatti la comicità risulta spesso intraducibile da una lingua all’altra, da una cultura all’altra.
Il riso, insomma, rinsalda le relazioni sociali tra coloro che ridono, a qualsiasi scala di grandezza ci si ponga. Li avvicina, cementa la loro unione, costruisce nuove amicizie, rafforza il gruppo sociale. Il riso è quindi un fenomeno propriamente sociale, in cui quelli che ridono sperimentano il rinsaldarsi della loro unione e, contemporaneamente, una interruzione dell’empatia nei confronti di coloro di cui si ride.
«L’uomo ridendo si libera da inibizioni e rimozioni, mette temporaneamente a tacere l’istanza della censura, offre una valvola di sfogo all’aggressività», scrive Freud all’interno dell’opera Il motto di spirito e la sua relazione con l’inconscio del 1905, in cui descrive l’umorismo come un atto creativo e liberatorio mediante il quale poter esprimere sentimenti e pensieri associati a vissuti di difficoltà e di disagio in forma attenuata, senza che possa cioè arrecare danno all’individuo stesso e agli altri.
In parte concordo con questa affermazione di Freud però, come ci ricorda sempre l’antropologo Le Breton, escludendo la ridarella, che di fatto sfugge radicalmente al controllo, il riso è sempre, almeno in parte, regolato. «Tutta una gamma di modi di ridere sollecita perciò una grammatica sociale, che si declina secondo le circostanze».
Quindi ridere è legato a dei rituali sociali (ci sono momenti in cui è consentito o non consentito ridere, a seconda della cultura in cui si è immersi) in certe culture si ride ai funerali in altre è assolutamente vietato, ci sono situazioni dove è addirittura imposta la risata, come ad esempio ai matrimoni, ai compleanni, durante situazioni ricreative. Ci sono tanti modi di ridere e tante metafore legate a questo rituale sociale, si muore dal ridere, si ride come una scimmia, a crepapelle, amaramente e l’elenco sarebbe infinito, questo perché il riso ha a che fare sia con il corpo che con il senso, ma soprattutto si inscrive in una relazione comunitaria.

 

 

Andrea Staid

Andrea Staid è docente di Antropologia culturale e visuale presso la Naba, di letterature comparate presso Università Insubria,  ricercatore PHD presso Universidad de Granada, collabora con il MUDEC, dirige per Meltemi la collana Biblioteca /Antropologia. Ha scritto: La casa vivente, I dannati della metropoli, Gli arditi del popolo, Abitare illegale, Le nostre braccia, Senza Confini, Contro la gerarchia e il dominio. I suoi libri sono tradotti in Grecia, Germania, Spagna. Collabora con diverse testate giornalistiche tra le quali Il Tascabile e Left