Non c’è niente da ridere
di Graziano Graziani
Che cos’è la risata? Perché è un elemento caratteristico della specie umana? E cosa sta a significare? Ridere è catartico e liberatorio o conformista e vessatorio? Si ride sempre di qualcuno? E se così fosse chi si riconosce nella risata emargina o si riconosce come comunità? Il riso è dissacrante o conservatore, rompe gli schemi linguistici o addomestica i discorsi? E perché, quando ci facciamo una grassa risata, qualunque sia il motivo che l’ha scatenata finiamo per sentirci incredibilmente, colpevolmente, piacevolmente, irrimediabilmente bene?
Definire che cos’è la risata, e cos’è nello specifico la risata che crea un’osmosi tra palcoscenico e platea, non è affatto semplice, come rende chiaro questa sequenza di interrogativi che abbiamo messo in apertura. Se ne potrebbe parlare per giorni, per settimane, o si potrebbe semplicemente fare spallucce e riderci su. Noi, senza alcuna pretesa di poter mettere un punto fermo su una questione che punti fermi non ha, proseguiamo con la seconda tappa dell’indagine sulla risata che ha aperto il 2021 di 93% – una forma di antidoto all’anno luttuoso che ci lasciavamo alle spalle. Ecco, parlare di “antidoto” è già un’indicazione semantica interessante, perché il prefisso “anti-” ci porta nel campo dell’opposizione, del conflitto, dell’attrito verso qualcosa che c’è. Tutte le metafore che tentano di spiegare la risata portano con sé questa accezione: l’antidoto neutralizza l’azione di un veleno; l’esorcismo libera dalle forze malefiche; la dissacrazione oltraggia il sacro e, per estensione, la tradizione e il conformismo; l’essere “liberatorio” della risata, infine, evoca l’affrancamento da un’obbligazione. È pur vero però che questo non basta ad ascrivere la risata alla sfera del progressismo (dal punto di vista politico) e dell’innovazione (dal punto di vista estetico), poiché tutto questo discorso può essere agilmente rovesciato nel suo opposto e la risata può diventare dissacrante verso ciò che rivoluziona, trasformarsi in gesto cameratesco e reazionario che oppone la stasi del cinismo a qualunque possibile ripensamento delle cose come stanno.
Anche facendo così, tuttavia, la risata conferma però un aspetto essenziale della sua natura: e cioè il fatto che il ridere non è una cosa classificabile in via definitiva, perché sfugge alle categorie certe. Inclassificabile per natura, la risata ha però certamente una caratteristica costante: quella di creare facilmente comunità. Un aspetto che nella sua dimensione teatrale è sicuramente centrale.
Con questo numero di 93%, dopo i coreografi diamo spazio ai registi, ai gruppi, agli attori che mettono in scena i propri testi, ai performer della parola come poeti e stand up comedians, ai quali abbiamo chiesto l’impossibile: riflettere sul loro lavoro a partire da quel gesto inclassificabile che è la risata. Ne è uscito un quadro interessante da molti punti di vista, che vi lasciamo scoprire leggendo, ma qui ne vogliamo sottolineare uno che torna in tutte le riflessioni che abbiamo raccolto, e cioè il fatto che dietro la risata c’è sempre qualcosa di “scuro”, di niente affatto rassicurante, e che questo qualcosa ha a che fare con la vita. «Il riso è figlio dell’inferno», dice un performer come Antonio Rezza, facendo notare che non c’è niente di più inquietante di un uomo che ride. Può accogliere, pur distruggendo tutto – come dice un antinarratore come Andrea Cosentino – ma può anche escludere, come la satira da social, come nota Flavia Mastrella. E allora, invece di cercare la risata brillante, si può invece «lavorare sulle proprie debolezze», come dice Luca Zacchini, per creare comunità e riso laddove ci si riconosce in un destino comune sostanzialmente tragico, pieno di problemi irrisolvibili. Dietro la risata possono celarsi cose sconcertanti e che normalmente spiazzerebbero, come la «verità» e la «miseria umana» che suggerisce Riccardo Goretti, ma che messi in una cornice comica ci parlano senza spaventarci. Per questo si può ridere su di una città come Venezia – che tutti vorrebbero come eternamente meravigliosa e che invece si autofagogita in preda a un delirio consumista – come fa il collettivo di Frullatorio. O come fa il collettivo di Sgombro su Roma. Anche Ivan Talarico sottolinea che si ride spesso del dolore altrui, ma anche che è possibile di ridere di cose di cui non si ride, come la morte. E forse, proprio il fatto che non c’è niente da ridere eppure si ride, nonostante tutto, è una caratteristica che fa dell’essere umano ciò che è – come osserva Daniele Villa – e che ci racconta molto della contraddizione irrisolvibile di questo primate che ha creduto per una manciata di secoli che l’universo girasse attorno alla sua specie.
Come è giusto l’ultima parola l’abbiamo lasciata a un antropologo, Andrea Staid, perché sulla risata si è molto discusso in quella disciplina e la distanza dello sguardo analitico è a mettere a fuoco una cosa alla fin fine incollocabile come il riso. Ha a che fare col fatto che siamo animali politici, conflittuali e anche comunitari, e ha a che fare con la fottuta paura che abbiamo di un senso – della vita, l’universo e tutto quanto, verrebbe da dire citando un grande romanzo comico di fantascienza – che in fondo non ci appartiene o non ci appartiene più (né c’è mai appartenuto). Di fronte a questo abisso, il sabotaggio della risata resta forse l’unica cosa sensata da praticare, in barba a tutto e nonostante tutto.