Trisha Brown, come fare una danza quando il limite è il cielo
di Rossella Mazzaglia
Nel 1971 Trisha Brown crea Roof and Fire Piece, solitamente ricordato come Roof Piece: undici performer danzano sui tetti di Soho, collocati a un isolato uno dall’altro, distanti ma in contatto visivo. Anche il pubblico osserva dai tetti, raccolto in piccoli gruppi, mentre, indifferente, scorre la vita per le strade di quella che le cronache del tempo descrivono come una città fantasma, ormai svuotata dalle persone per i processi di post-industrializzazione e la violenza urbana.
Roof Piece non è l’opera più famosa di Trisha Brown, ma è la prima ad essermi venuta in mente nei giorni di confinamento per l’emergenza sanitaria (quando mi è stato chiesto di scrivere questo pezzo per «93%»): è una danza possibile e al tempo stesso il segno di un modo inedito di pensare la trasmissione e, per suo tramite, la maniera di abitare la città, vedendola con nuovi occhi.
Trisha Brown è stata la prima a creare performance su superfici urbane, trasponendo la danza dal piano orizzontale a quello verticale in sperimentazioni che nessuno sapeva come inquadrare: non era arte visiva e nemmeno danza; non stava, insomma, da nessuna parte. Per quanto qualcosa si smuovesse nello stomaco degli osservatori osservando i danzatori percorrere le pareti del Withney Museum al posto dei quadri, non c’era ancora un pubblico per queste opere, che non potevano contare neanche su modelli culturali di riferimento. Ad aprire l’orizzonte dell’immaginazione per Trisha era stato, semmai, il compositore John Cage, divenuto sin dagli anni Sessanta il guru di un’intera generazione. Trisha racconta di avere assistito a una sua conferenza in cui, nell’illustrare vari aneddoti, Cage aveva cronometrato ogni intervento, a prescindere dall’argomento e da quanto avesse da dire, affinché le sue affermazioni durassero tutte un minuto esatto. Dice di avere colto, in quell’occasione, il nesso tra forma e contenuto, la possibilità stessa di sovvertire le proprie scelte e di giocare liberamente con «i materiali della danza», come non smetterà di fare nell’intero suo percorso.
Anche le più eclatanti performance urbane non nascono, d’altro canto, da una spiccata predilezione per l’architettura urbana. Al contrario, tra amici, non mancavano, nei primi tempi, battute ironiche sul suo rapporto con la natura e il bosco. Capitava che, durante le serate del collettivo Grand Union, Steve Paxton prendesse il microfono e raccontasse la storia di Trisha Bambina Selvaggia cresciuta nella foresta, amica dei coiote, che si addormentava sugli alberi e prediceva il tempo: «A sette anni i suoi denti erano tutti rotti e macchiati di succo di more». Ogni volta Paxton cambiava finale o variava le note scherzose, che giravano sempre, però, attorno a quella fisicità indomita e indecifrabile, di cui la coreografia è diventata, prima, limite necessario e, poi, nutrimento. Tutta l’opera di Trisha Brown deriva, infatti, da questa negoziazione tra libertà e struttura, e da un forte spirito pragmatico.
«Trovo sia un’ottima cosa che la vita ci interrompa», diceva Cage e Trisha ne ha fatto il suo credo, lavorando sullo spiazzamento continuo dell’aspettativa propria e degli altri, di volta in volta stabilendo regole che limitassero l’arbitrio soggettivo e agissero da catalizzatori di azioni fisiche. Ha, quindi, escogitato ostacoli che potessero man mano rinnovare le risposte a un’unica, semplice domanda: «come fare una danza quando il limite è il cielo».
Giunta a New York nei primi anni Sessanta, entra subito a fare parte della comunità alternativa di Greenwich Village. Collabora con Fluxus, con il collettivo Judson Dance Theater con cui è identificata, e si esibisce negli happening. Intanto, decide di abbandonare i valori della classe media in cui è cresciuta, scoprendo come rendersi indipendente attraverso la danza. Crea coreografie che descrivono o suggeriscono quest’ambivalenza, come Homemade (1966), letteralmente “fatto in casa”: in questo pezzo, danza con un proiettore sulla schiena, incastrato nel marsupio del figlio e da cui escono figure di animali, ma anche la proiezione della propria immagine, che invade lo spazio dal pavimento al soffitto, al pubblico stesso. Al debutto, presso la Judson Memorial Church di Greenwich Village, causa le parete scure, le proiezioni sono, invece, catturate dallo schermo che Paxton regge in mano, inseguendole come fossero una pallina da tennis. Già il trasporto del proiettore appena noleggiato era stato, d’altro canto, una manovra indimenticabile, su e giù per la metropolitana con il dispositivo nel passeggino assieme al bebè.
Se della cosiddetta madrina della postmodern dance americana si ricorda, soprattutto, l’originale corpus artistico, da questi ricordi e brevi cenni biografici emerge il profilo della persona, con la sua indole determinata e pacata, ironica e sottile. Diceva Trisha di sé: «sono un muratore con senso dell’umorismo». Le coreografie giovanili servono a fare piazza pulita delle aspettative di un’America anni Cinquanta impostata su una marcata divisione di genere, per pensarsi come artista donna e madre mediante azioni potenti o dalla forte valenza simbolica, messe in seguito da parte, per declinare l’atto creativo in maniera impersonale attraverso i metodi dell’astrazione.
Per l’inizio degli anni Settanta, si libera anche dal peso dell’aspettativa estetica dell’avanguardia, quando inizia a usare equipaggiamenti da arrampicata e a costruire grandi dispositivi scenografici su cui muoversi, realizzando opere monumentali e, perciò, distanti dallo spirito del Judson Dance Theater. Nasce così Man Walking Down the Side of a Building (1970): «Un’attività naturale sotto la sollecitazione di un’ambientazione innaturale. Rifiuto della gravità. Vasta scala. Ordine chiaro. Inizi in cima, cammini giù dritto, termini in basso». Quando abbandona gli equipaggiamenti, principalmente per la mancanza di copertura assicurativa e per i costi, torna a chiedersi come limitare l’arbitrarietà creativa e risponde con il ciclo delle accumulazioni, su cui lavora per anni, procedendo per gradi di complessità nel silenzio, senza scene, né costumi. Il rientro al palcoscenico è, invece, del 1979 e indica una svolta, anticipata dall’assolo Watermotor del 1968, in cui esplora i propri impulsi motori, senza inquadrarli dentro una cornice concettuale, per ritrovare l’aritmia e la poliritmicità del corpo immerso nella natura. «Muschio e fango, legno massiccio e legno marcio. Quando vai veloce, devi sapere dove mettere i piedi: questa è la prima esperienza della corsa veloce». Asimmetria e imprevedibilità, che diventano la cifra stilistica del suo movimento.
Alla funzionalità ed efficienza sperimentate per affrancarsi dalla linearità narrativa della danza moderna contrappone, ora, nuovi equilibri tra improvvisazione e composizione nel rapporto creativo e di trasmissione con la compagnia. Crea nel 1983 quello che è, storicamente, considerato il suo capolavoro, Set & Reset, divenuto emblematico dell’estetica postmoderna: la musica di Laurie Anderson, la scenografia di Robert Rauschenberg e la coreografia coesistono sul palco esibendo logiche parallele. Il movimento si compone e scompone di continuo, delineando figure effimere che, destrutturandosi senza sosta, sfuggono al controllo visivo.
Ad ogni modo, a sancire l’andamento di questa continua negoziazione non sono tanto le singole opere quanto i diversi cicli coreografici, che si susseguono ogni tre-quattro anni in base ai principi compositivi escogitati da Trisha per rinnovare il limite con cui confrontarsi, nell’ascolto delle esigenze dei danzatori e in relazione alle capacità produttive. Portano nomi come «strutture molecolari instabili», «ciclo coraggioso», «ritorno a zero», «ciclo musicale», cui segue la regia lirica, summa e compimento di un percorso in cui anche la narrazione è recuperata attraverso un “dialogo a tre voci” tra musica, danza e testo. Permane l’approccio astratto alla coreografia: «la forma è il contenuto», da cui trapela la sua sensibilità e il suo sguardo sul mondo. Vocabolario, relazioni dinamiche interne alla scena, gioco di disgregazione, erosione, frammentazione, variazione e la conseguente risoluzione diventano un modo per «negoziare la pace».
A parte l’opera complessiva di quest’artista, che ha lasciato un segno profondo nella storia della danza, questo sguardo ricompone il ritratto della ragazza che si sentiva finalmente libera, camminando per le strade di New York, della donna-madre che dialogava in scena con la propria immagine scomposta, della coreografa che, nel trattenere le scoperte del corpo e della composizione, ha danzato con l’entropia e la complessità, per trovare il proprio equilibrio nel cambiamento. Non dovrà, quindi, stupire il suo rifiuto delle etichette, anche di quella di femminista, nonostante la disinvolta noncuranza e perseverante, serissima libertà con cui ha inseguito i suoi desideri, trasformandoli in azione.
Dopo la sua scomparsa nel 2017, e negli ultimi anni prima della sua morte, la compagnia ha prevedibilmente continuato a esibire le sue coreografie più note e quelle dei primi anni, ma ha anche avviato il progetto In Plain Site, con cui ha riadattato le sue opere principali, frammentandole e proponendone selezioni in modalità site-specific. Ha, cioè, attuato un ritorno alle origini del tutto spiazzante; difatti, se il repertorio è solitamente preservato con fede religiosa dai primi depositari della sua conoscenza, in questo caso l’opera coreografica è sconsacrata e trasformata in materiale con cui continuare a sperimentare. L’inusuale tradimento per la tradizione di danza rivela, tuttavia, una strategia di resistenza profondamente fedele all’atteggiamento pragmatico, aperto e proiettato nel futuro che ha caratterizzato l’intero percorso di Trisha Brown. Per questo il suo ricordo non è solo memoria.
Rossella Mazzaglia
Rossella Mazzaglia è professore associato in Discipline dello Spettacolo. Insegna all’Università di Messina e all’Università di Bologna e si occupa principalmente di storia della danza e del teatro contemporanei. È autrice di diversi volumi sulla danza postmoderna americana. Ha scritto la prima biografia artistica su Trisha Brown (Trisha Brown, L’Epos, 2007) e curato, assieme ad Adriana Polveroni, l’edizione della sua ultima intervista pubblica (Trisha Brown. L’invenzione dello spazio, Gli Ori, 2010). Di recente, ha descritto il suo processo coreografico nel saggio “Dall’astrazione alla composizione: le macchine danzanti di Trisha Brown” in Stefania Onesti (a cura di), I passi della danza (2019).