La voce dell’oralità nel romanzo dell’Africa Occidentale
di Itala Vivan
«C’era una volta un leopardo che da tempo cercava di catturare una tartaruga. Un giorno, per caso, si imbatté nella tartaruga che camminava tutta sola in una strada solitaria. “Ah ah,” le disse, “Finalmente ti ho presa, adesso preparati a morire”. E la tartaruga rispose: “Posso chiedere un ultimo favore, prima di morire?” Il leopardo non vide niente di male nella richiesta, e disse di sì. “Dammi qualche minuto per preparare il mio animo!”, spiegò la tartaruga. Di nuovo il leopardo non vide niente di male nella richiesta, e l’accolse. Ma invece di restare immobile come si aspettava il leopardo, la tartaruga cominciò a fare strani movimenti frenetici sulla strada, grattando il suolo con le mani e con i piedi e gettando sabbia da tutte le parti. “Perché fai così?”, chiese il leopardo, perplesso. Al che la tartaruga spiegò: “Perché vorrei che quando sarò morta tutti quelli che passeranno di qui dicessero Sì, qui qualcuno ha lottato con un suo pari”. Ecco, gente, questo è quanto stiamo facendo noi, forse con nessun altro fine se non che quelli che verranno dopo di noi possano dire, è vero, i nostri padri furono sconfitti, ma almeno ci provarono».
Questa favola, inventata o forse rielaborata sulla base di un testo tradizionale tramandato oralmente, compare in un grande romanzo africano dello scrittore nigeriano Chinua Achebe, Anthills of the Savannah, tradotto in italiano col titolo Viandanti della storia nella collana «Il lato dell’ombra» di Edizioni Lavoro. È una favola che racconta le molte battaglie civili combattute, evocando una presenza nella storia ma anche il senso della memoria, e costituisce una magnifica testimonianza di come il narratore che vuole rendere il presente e il passato faccia ricorso al patrimonio orale oppure lo ricrei attraverso la sua immaginazione.
Parliamo dell’oralità africana nel contesto della narrativa, ossia di come la narrativa che viene dall’Africa subsahariana – quella terra incognita dove anche per i romani c’erano i leoni, cioè al di sotto del Sahara – sia impregnata di elementi orali. Infatti la regione a nord del Sahara era molto nota – non a caso, nella storia di Roma ci sono stati anche degli imperatori africani. Il rapporto dei romani con l’Africa è stato molto ampio; Roma aveva una grande popolazione anche nera, sebbene ciò non venisse notato perché l’atteggiamento nei confronti del colore era molto diverso dal nostro, così come si è manifestato a partire dall’era delle colonizzazioni. Ebbene, le letterature subsahariane presentano una costante caratteristica, ossia di essere strutturate sulle tradizioni orali.
Cominciamo col chiederci come ciò accade, cosa si intende per oralità africana, e come si articola nel sistema dell’oralità africana la parola d’arte, poiché da un canto c’è la parola di comunicazione, e dall’altro c’è la parola che diventa arte. Non è la parola semplice quella che entra nella letteratura, bensì la parola come forma d’arte prodotta dall’artista. In alcune aree dell’Africa Occidentale, l’artista orale o griot usa la voce e la mimica, ma anche la danza e il canto – quindi dal gesto alla danza, e dalla voce alla musica – come parte essenziale della propria performance. L’artista orale realizza insomma una performance che è momentanea, effimera – come del resto fa anche il danzatore – e di genere misto. Nella sua performance entrano vari elementi eterogenei che si alleano al racconto, quindi la performance da un lato è importante per come viene prodotta, ma dall’altro è importante per come viene ricevuta. Non esiste artista orale della tradizione africana se non nel contesto sociale e comunitario. Cioè la parola d’arte nasce, si sviluppa, fiorisce e passa agli altri attraverso un contesto sociale. L’artista orale si manifesta in quanto esiste una comunità che gli risponde anche materialmente, perché l’artista crea un sistema antifonico di domanda e risposta che è molto formulaico, ma la cui origine risiede nella vera e propria comunicazione anche di contenuti precisi. Inoltre, l’artista e la comunità si incontrano e interagiscono in determinati momenti rituali. Le performance si verificano quando c’è un momento significativo e importante sia per l’artista sia per la comunità: una nascita, una morte, una cerimonia funebre; una sconfitta o una vittoria in guerra, o altri momenti rituali legati alle stagioni, al raccolto, alla produzione agricola, oppure al rapporto con altri gruppi sociali. Quindi il fenomeno dell’oralità si inserisce e va letto in un contesto comunicativo pubblico. E l’importanza del rito della parola nella tradizione africana si rivela in un rapporto stretto con il pubblico, con la comunità, dove agisce un artista che poi, con l’evolversi dei mezzi di comunicazione, è diventato scrittore, e mantiene un rapporto fortissimo con la sua comunità di origine e con la sua comunità dell’immaginario. Non si ha mai nella tradizione della narrativa africana – almeno fino ad oggi – l’artista isolato nella sua “torre d’avorio”, non esiste proprio il concetto di questo tipo di espressione artistica di radice individualistica, l’artista è immediatamente a contatto con la sua comunità. Sia in senso proprio, ossia di artisti che sono anche persone impegnate nella vita politica, nella vita sociale, nella vita culturale, ma anche in senso lato, quando lo stretto legame con la comunità passa attraverso l’immaginario.
Quando Chinua Achebe racconta la favola del leopardo e della tartaruga, attraverso questa forma espressiva evidentemente di matrice popolare e tradizionale, si inserisce direttamente in un contesto culturale comunitario, così che, sebbene la favola sia scritta anziché presentata oralmente, a noi piace immaginare che sia bella solo se narrata a voce, attraverso una voce fisica, poiché la voce dell’artista orale è un grande strumento espressivo ma allo stesso tempo costituisce il rapporto e il collegamento di sutura tra l’immaginario e la fisicità. La narrazione è una delle forme dell’oralità che passano attraverso la voce e il timbro, attraverso le inflessioni e i movimenti, per cui nel caso dell’artista orale africano si aveva una sorta di genere misto ove l’artista non solo parlava e raccontava, ma anche cantava, danzava e recitava, seguendo delle modalità formulaiche molto precise. Tutto questo patrimonio intangibile rimane molto vicino allo scrittore africano, come ci insegna Achebe. Se anche noi europei, e in particolare noi italiani, abbiamo avuto ed abbiamo tuttora un’importante tradizione orale, nel mondo africano essa è più vicina perché la scrittura intesa come forma cumulativa e totale di comunicazione si è affermata più di recente ed è stata introdotta attraverso la colonizzazione e l’evangelizzazione, due fatti e due fenomeni che vanno di pari passo: e si noti bene che ciò vale anche per l’Africa del nord, dove c’è stata la colonizzazione araba e non l’evangelizzazione cristiana, dunque la conversione all’Islam che poi è penetrato in parecchie altre parti, soprattutto dell’Africa occidentale e orientale. Sia l’Islam che il cristianesimo nelle sue varie declinazioni e denominazioni sono due religioni del libro, insieme all’ebraismo; e la conversione ed evangelizzazione cristiana, o la conversione all’Islam, così come le pratiche religiose relative, passano attraverso il libro e quindi attraverso la lettura del libro. Non a caso infatti, per i missionari che in buona parte dell’Africa nera, quella occupata dagli inglesi, sono stati missionari di chiese cosiddette protestanti (non nelle aree di colonizzazione francese e portoghese, ove l’evangelizzazione è stata di marca cattolica) la lettura delle sacre scritture era essenziale per stabilire il rapporto diretto con Dio, che passava attraverso la sua rivelazione, poiché di rivelazione si tratta sia per il Corano che per il Nuovo e l’Antico Testamento. Questo tipo di cultura del libro era estranea all’Africa, ove esisteva invece una cultura della parola che era molto forte e su cui la cultura del libro si è imposta passando attraverso l’evangelizzazione e la colonizzazione ad essa collegata, che ha creato un’amministrazione pubblica diretta o indiretta a seconda che si trattasse di amministrazione inglese o francese, ma sempre basata sul rapporto con la scrittura e quindi sulla necessità di apprendere la scrittura e di comunicarla attraverso la lettura.
Tale situazione ha creato in Africa la figura particolare dell’interprete – mi si consenta una piccola digressione – che ha nella narrativa africana degli esempi straordinari. Nel storia del romanzo africano ci sono infatti molti straordinari personaggi di interpreti: si pensi soltanto a L’étrange destin de Wangrin di Amadou Hampate Bâ, il cui protagonista è appunto un interprete molto bravo perché parla il francese “vero”, e non il forofifon-n’est-ce-pas di quanti avevano appreso la lingua servendo in cucina. (Questo libro è stato tradotto in italiano con il titolo L’interprete briccone, nella già citata collana «Il lato dell’ombra»). Wangrin, insomma, parlava il francese ‘alto’, cioè colto o per lo meno corretto, degli amministratori, mentre il forofifon-c’est-ce-pas dei suoi concorrenti meno dotati era un’accozzaglia fantasiosa dove l’eco sonora del parlato assomigliava solo vagamente al francese. L’interprete aveva insomma un ruolo politico e culturale, ed era personaggio di potere, in un mondo in cui la parola regnava sovrana.
Ritornando alle letterature africane, il concetto della parola come parola d’arte che ha alti valori estetici e dei canoni propri, molto complessi, e anche delle forme prestabilite da regole, non è stata vista dalla colonizzazione europea, e quindi non è stata letta così com’era ed è stata considerata una forma inferiore di espressione. Oggi non è più così, esistono moltissimi studiosi di oralità, considerata appunto come forma d’arte e nel suo rapporto con la produzione scritta. Ma è importante ricordare che questa produzione di parola d’arte, che raggiunse il suo vertice in epoca precoloniale con il grande epos dei regni africani d’occidente ma anche dei regni Zulu e Xhosa dell’Africa australe, è stata poi assunta nella scrittura. Le forme epiche, nate oralmente, sono poi state raccolte, come è avvenuto per il poema Sundiata che narra le vicende dell’eroe eponimo e che è stato scritto in più versioni, la più celebre delle quali risale a Djibril Tamsir Niane. È importante ricordare, tuttavia, che la parola d’arte africana aveva degli stili, delle regole riconosciute, dei canoni sofisticati: così come nella musica jazz ci sono regole, canoni e forme in cui si inserisce l’improvvisazione, il signifying, come dicono i jazzisti. Quindi la matrice orale dell’epica, della lirica e del racconto non impediva che essi avessero delle regole.
Quali sono i fenomeni e gli aspetti più caratteristici dell’oralità che si ritrovano anche in tanta narrativa africana? Per esempio le ripetizioni, cioè l’uso delle ripetizioni, che naturalmente creava metrica. I parallelismi nelle frasi, le forme parallele, e poi le digressioni – ad esempio quella che si è citata, di Achebe, è una forma classica di digressione con cui si introduce la favola, e la digressione è una classica forma dell’oralità. Altre caratteristiche dell’oralità sono certi tipi di immagini, le allusioni e soprattutto l’uso della metafora, che naturalmente viene usata anche in tutte le tradizioni scritte ma che nel mondo narrativo africano è molto presente, e presenta una sorta di eco che viene dalla performance. L’artista si pone quindi come performer: non a caso Achebe, grande narratore nigeriano, parla dello scrittore come di un teacher, da intendersi come maestro di vita e di storia, ma anche come insegnante di mestiere: e chi è più performer dell’insegnante, che crea sempre uno spettacolo in cui inscena e trasmette il proprio sapere?
Si obietterà che nella produzione letteraria orale i canoni fissi potessero creare staticità, ossia che i testi e le modalità espressive venissero tramandati sempre uguali: ma non è affatto così, perché è proprio attraverso l’esistenza del canone e delle regole che si afferma l’originalità dell’artista, il quale prende il materiale del testo tramandato, e lo schema canonico, e li piega ai propri desideri alle proprie intenzioni trasformandoli e creando un’opera originale attraverso una propria invenzione.
Si prenda ad esempio il caso di Amos Tutuola, grande scrittore nigeriano emerso all’alba della narrativa nigeriana moderna, che negli anni ‘50 riuscì a far pubblicare a Londra The Palm-Wine Drinkard (Il bevitore di vino di palma nella traduzione uscita in Italia per i tipi di Adelphi) mandando per posta il proprio manoscritto alla prestigiosa casa editrice britannica Faber & Faber. Il racconto del bevitore attinge a quello che era il ricco patrimonio tradizionale yoruba e mette in scena situazioni e vicende che tutti gli yoruba conoscevano, in quanto favole, miti e situazioni della tradizione orale; però Tutuola li integra in un contesto diverso e li fa agire attraverso un personaggio d’invenzione, appunto il bevitore di vino di palma, il quale è molto felice perché ha un bravissimo distillatore di vino di palma che si arrampica sulle palme, le incide e gli procura un ottimo vino, ed è ricco e ha tanti amici perché il buon vino attira gli amici. Sennonché questo incisore di palme a un certo punto cade da una palma e muore, cosicché lui rimane senza il suo oste personale, non può più bere vino e diventa molto infelice, mentre gli amici scompaiono insieme alla buona fortuna, come accade in molti casi nel contesto umano. Però dice: “qui la cosa si mette male, io vado a cercare il mio distillatore di vino di palma”. E dove lo cerca? Là dove stanno quelli che noi chiamiamo defunti, cioè quelli che passano in un mondo parallelo che non è (come da noi) un mondo altro e staccato, ma un mondo con cui comunica il mondo dei vivi, poiché nella realtà e nella cosmologia africana esistono il mondo dei viventi e quello dei non viventi, che comunicano e prevedono dei passaggi dall’uno all’altro. Quindi ecco che il bevitore di vino di palma va di là, nel mondo dei non viventi, e passa attraverso le varie città di non viventi, sempre cercando il suo famoso incisore di palme. Tutuola ne racconta la storia che è una variante di quella che i critici francesi chiamano quête e gli inglesi quest, ovvero la grande ricerca, il cammino di chi va in cerca di qualcosa di fondamentale, come può essere nella tradizione europea il Parsifal che cerca il Santo Graal, o Ulisse che cerca la sua Itaca, e che in fondo è un paradigma della vita umana, un cammino che ha una spinta di partenza – il desiderio di trovare qualcosa di assolutamente, esistenzialmente indispensabile – e che poi dovrebbe avere una fine: nel punto cui si era mirato. Ma non è mai così, perché si va sempre a finire da qualche altra parte, così come Ulisse vagabonda per il Mediterraneo sostando nei luoghi più disparati, e anche quando trova Itaca non riesce a fermarvisi.
Nel 1952, quando Tutuola pubblicò questo libro, ci fu una polemica tremenda, perché molti dissero – il bello è che furono i nigeriani a dirlo – “ma che razza di storie sono queste! Tutti noi conosciamo queste storie, Tutuola non ha inventato niente!”, e altri dissero: “Ma che razza di lingua è questa, sembra inglese ma non lo è!”, “Ma che razza di metafore sono queste, così insolite e strampalate!”. Il libro, insomma, creò uno scalpore enorme, non solo in Inghilterra e in Europa dove venne pubblicato dalla grande casa editrice Faber & Faber, ma soprattutto in Nigeria dove i parrucconi accademici nigeriani dissero subito “Ah, è sgrammaticato!” e non volevano essere rappresentati da uno scrittore che scriveva in maniera così sgrammaticata. In realtà lo scrittore inventava una lingua e proponeva un nuovo personaggio, usando un patrimonio collettivo: poiché nessuno di noi nasce da solo, nasce invece da una cultura e in un contesto determinato, e l’artista parla a una comunità e attinge alla memoria e al patrimonio, e poi lo trasmette a una comunità che può essere presente ma anche immaginaria.
I romanzi africani nascono con la colonizzazione, là dove l’evangelizzazione e la cultura dell’amministrazione coloniale portano e impongono la scrittura nelle lingue coloniali europee. Nascono prima là dove gli insediamenti coloniali sono fissi, cioè in Africa australe dove i coloni si insediano sino da metà Seicento. I primi romanzi nascono in Sudafrica, il primo è Chaka del 1925, e il secondo è Mhudi del 1930. Quest’ultimo ha come protagonista una donna, la coraggiosissima Mhudi, che combatte contro un leone: un romanzo straordinario, pieno di ironia e genialità. Però poi, man mano che la colonizzazione si radica sempre più profondamente, le amministrazioni coloniali creano delle scuole per poter generare una classe media che funga da interlocutore con la popolazione africana, ed ecco che nascono figure di artisti che non sono più artisti orali ma artisti che scrivono: scrittori, appunto.
In Africa Occidentale uno dei primi è proprio Amos Tutuola con The Palm-Wine Drinkard del 1952, anche se quello più importante e influente risulta Chinua Achebe che nel 1958 pubblica Things Fall Apart. Siamo alla vigilia delle grandi indipendenze africane che si avviano tra il ‘54 e il ‘56 nel Ghana, il primo paese di colonizzazione inglese ad acquisire l’indipendenza, e si allargano a tutte le colonie negli anni ‘60 quando uno dopo l’altro i paesi di colonizzazione sia inglese che francese diventano indipendenti. C’è quindi la pressione dei forti movimenti anticoloniali, ci sono gli effetti della seconda guerra mondiale, c’è l’appoggio anche esterno del pensiero marxista che è fortemente anticoloniale e che attraverso i paesi dell’Europa orientale sorregge anche materialmente le lotte di liberazione: poiché, come a fondamento del pensiero marxista c’è la liberazione dell’uomo dal bisogno e quindi dalla povertà, così anche nel contesto del mondo coloniale il concetto fondamentale è la liberazione dall’occupazione straniera, dallo sfruttamento europeo, e la conquista dell’indipendenza e dell’autonomia individuale e nazionale. Le indipendenze quindi arrivano in quest’epoca, salvo i paesi di colonizzazione portoghese, per i quali, dato che in Portogallo perdura il regime fascista fino agli anni ‘70, l’indipendenza è conquistata intorno al 1975 sia in Mozambico sia in Angola.
Alla vigilia di queste indipendenze, in Nigeria e negli altri paesi dell’Africa occidentale c’era un nutrito gruppo di intellettuali africani che produceva parola d’arte scritta, arti figurative; era un momento di grande fioritura, la Lagos degli anni ‘50 era una città dinamica e viva. In Nigeria ci sono vari gruppi etnici e i più numerosi sono gli ibo nell’est, là dove c’è il petrolio, mentre a ovest stanno gli yoruba, dalla grande tradizione rituale, che poi con l’apporto della schiavitù si è trasmessa in Brasile e a Haiti attraverso i riti di origine africana, e gli hausa del Nord, rigidamente islamici. Gli ibo sono cristianizzati da tempo, una cristianizzazione ormai molto sedimentata, gli yoruba in parte cristianizzati ma in modo più superficiale – come attesta anche la cultura di cui parla Wole Soyinka – e in parte ancora animisti, mentre gli housa sono invece tutti islamici.
Chinua Achebe è un ibo, è figlio della media borghesia già consolidata, e nel ‘58 pubblica questo straordinario libro, tradotto in italiano per Jaca Book con il titolo Il crollo; ma esiste una più recente traduzione, per La nave di Teseo, con un titolo tradotto letteralmente dall’inglese, Le cose crollano. Il crollo si situa in un passato immediatamente antecedente all’intrusione coloniale e alla penetrazione bianca della zona ibo. Presenta un gruppo di villaggi che si chiama Umuofia con i suoi riti, le sue consuetudini, la sua produzione agricola e i suoi personaggi, al centro del quale vi è un uomo, Okonkwo, un nobile guerriero che ha acquisito molti titoli di onore all’interno della sua società. Noi seguiamo le vicende di questo guerriero all’interno di questa comunità allargata, assistiamo alle performance di questo guerriero che è anche un campione di lotta, agli incontri pubblici in cui gli oratori danno prova di questa rituale modalità antifonica, e mano a mano vediamo che questo guerriero si trova a compiere degli errori gravissimi nei confronti dei valori della propria etnia e della propria comunità. Viene allora esiliato per sette anni, e quando ritorna sono arrivati i missionari. I primi missionari vengono uccisi perché vengono considerati degli animali strani, poi un missionario che arriva in bicicletta – un uomo bianco che arriva in bicicletta nella foresta! – e voci dicono che assomigli a un lebbroso, non sembra infatti avere le dita dei piedi (in quanto indossa delle scarpe che le celano). Poi, però, i missionari arrivano in massa, si stabiliscono all’interno della comunità locale, con i loro riti cristiani. Alcuni si convertono, i primi sono quelli di casta inferiore, così come nell’antica Roma i primi a convertirsi erano stati gli schiavi, perché vedevano una redenzione in questa religione dell’amore. Perché Achebe ci racconta tutto ciò? Lo racconta innanzitutto ai suoi africani, affinché ci sia una rappresentazione viva e presente di quella che era la cultura, la grande cultura africana ibo nel contesto preciso e specifico di Umuofia, affinché la gente conosca e ricordi. A un certo punto Achebe dice: «io vorrei soltanto che questo mio libro avesse un merito, che i miei connazionali lo leggessero e imparassero cosa sono stati». Mira a rendere viva questa società, a renderla presente alle generazioni successive: inventa una lingua che è un inglese standard, con dei ritmi molto forti e con delle inserzioni in lingua ibo; insomma, il romanzo parla normalmente, con dialoghi e descrizioni molto brevi cui però si aggiungono inserzioni di favole, come quella del leopardo e della tartaruga e molte altre, più frequenti e saporiti proverbi perché, come dice Achebe, «tra gli ibo, l’arte della conversazione è reputata molto importante e “i proverbi sono l’olio di palma con cui si condiscono le parole”». Un altro proverbio viene citato a proposito del padre di Okonkwo, di nome Unuoka, un sognatore e (secondo Okonkwo) un buono a nulla, pieno di debiti. Ed ecco che uno dei suoi creditori va da lui e dice, “dammi i quattrini perché io ne ho bisogno”, e lui risponde: “ti pagherò ma non oggi. I nostri anziani dicono che il sole splenderà su quelli in piedi prima di splendere su quelli che stanno alla loro ombra, perciò pagherò per primi i miei debiti più grossi”. Poi aggiunge che tra la sua gente si rispetta l’età, ma si riferiscono i meriti, sicché, come dicono gli anziani “se un bambino si lavava le mani può mangiare con il re”. E anche, come dice l’uccello Ineke: da quando gli uomini hanno imparato a sparare senza mancare lui ha imparato a volare senza posarsi. Questo costituisce un esempio di favola eziologica, che attraverso un apologo descrive il comportamento di un animale spiegandone la ragione, attribuendola naturalmente a un motivo fantastico ma accattivante.
Così, attraverso forme narrative abilmente orchestrate, Achebe raffigura vividamente la sua cultura e anche la storia di questo villaggio, insieme alla storia dell’incontro con l’uomo bianco con una religione diversa, con riferimento a quando i missionari sobillano i convertiti neofiti perché distruggessero gli egwugwu, cioè le maschere che consentivano l’apparizione e la partecipazione degli antenati nella società dei viventi, fungendo loro da tramite. La maschera è un elemento molto importante nella cultura dell’Africa subsahariana perché in realtà nasconde e dà voce a un personaggio che incute soggezione e magari anche terrore. Le maschere non andrebbero mai esposte, infatti tradizionalmente venivano tenute nascoste e uscivano in pubblico soltanto nei momenti giusti, quando dovevano entrare in azione e inserirsi in una cerimonia o un rito con precise finalità sociali e politiche.
Nel romanzo i neofiti, sobillati da un pastore troppo zelante, colpiscono un egwugwu, strappandogli la maschera. E questa è una cosa tremenda, che genera immediatamente disordine sociale e orrore, provocando una vendetta e una ritorsione. Gli ibo ritorneranno in massa, con alla testa le maschere rituali, e bruceranno la chiesa. Naturalmente l’esercito inglese, chiamato dall’ufficiale distrettuale, interverrà per punire il villaggio e scoppierà così un aperto conflitto. Okonkwo cerca di confrontarsi con questa situazione e, quando arriva il messo dell’ufficiale distrettuale, lo uccide. Così facendo genera il disastro: a seguito di questo atto tremendo si suicida, compiendo un atto inconcepibile nella sua comunità, tanto è vero che nessuno della comunità può toccare il corpo del suicida e gli anziani del villaggio chiederanno ai soldati dell’ufficio distrettuale di provvedere alla rimozione del corpo.
Questo romanzo ha aperto veramente una stagione, e ancora oggi è tra i più letti in Africa, non soltanto in Nigeria ma in tutto il continente. È in realtà uno dei romanzi più letti nel mondo, ed è un’opera straordinaria perché nella sua apparente semplicità nasconde la complessità di una cultura e rivela la problematicità di un incontro culturale, cioè mostra quanto l’incontro culturale sia una cosa complessa, greve di rischi e anche piena di avventure. In questo momento di incontro/scontro tra la cultura dell’etnia igbo e il mondo europeo, con l’arrivo dei missionari prima e dei soldati poi, si tocca con mano l’inizio di un conflitto e poi la sottomissione forzosa coloniale, e anche il momento del cambiamento. Ma Achebe non narra soltanto questo; racconta dal di dentro come, proprio nella parabola di quest’eroe che crolla perché a un certo punto uccide e uccide anche se stesso, si rivelino le debolezze di una cultura che nella sua rigidità contribuisce a creare lo scontro. Il suo è uno sguardo critico e sfaccettato che ancora oggi può insegnare molto, e Il crollo costituisce tuttora uno dei libri più avvincenti per i giovani, perché offre infinite possibilità di dialogo.
Da questi esempi si vede come la cultura orale passi all’interno di un testo e vi entri come un insieme di forme, ma naturalmente anche come patrimonio. Tutto il patrimonio orale, l’universo delle maschere, il rapporto con il mondo dei non viventi. In breve, tutto il mondo non scritto che esiste nella realtà vissuta di una comunità dell’Africa Occidentale viene riversato nel racconto. Questa è la contiguità della tradizione orale con la tradizione scritta.
Naturalmente, ci sono altri narratori africani che prediligono forme e soluzioni diverse da quelle adottate da Chinua Achebe. Per rimanere alla produzione in prosa, occorre ricordare che esistono scrittori come Djibril Tamsir Niane che raccolgono e trascrivono interi poemi orali (Niane come si è già detto pubblica Sundiata, uno dei grandi romanzi epici della tradizione maliana), o si esercitano in varianti sulle orme di epos preesistenti, come è il caso di Thomas Mofolo in Chaka – oppure raccolgono addirittura la forma performativa travasandola in scrittura. Un esempio è la scrittrice Werewere Liking, grande performer, una bassà camerunese che vive in Costa d’Avorio, dove ha fondato una comunità di artisti polivalenti che creano parole d’arte, oggetti d’arte, monili, che vivono insieme e hanno elaborato una forma di vita comune molto particolare. Werewere Liking ha scritto poesia orale in cui il racconto sfuma nella performance poetica. In Italia abbiamo tradotto La memoria amputata, pubblicato da Baldini e Castoldi, storia di una bambina che ingloba parecchie produzioni poetiche, però è anche un racconto di vita, quindi un romanzo di formazione femminile. Un titolo importante sulla storia delle donne, assieme ad altri, come i romanzi di Ken Bugul Il sentiero di sabbia e La moneta d’oro.
Altri due scrittori in cui la presenza della tradizione orale è straordinaria sono Amadou Kourouma, un malinké originario della Costa d’Avorio, e il nigeriano ogoni Ken Saro-Wiwa.
Kourouma pubblica nel 1968 un bellissimo romanzo che si intitola Les soleils des indépendances (I soli dell’indipendenza, edizioni e/o), in cui colloca la narrazione all’inizio della storia dell’indipendenza negli anni ‘60, criticando ferocemente quanto accaduto nei vari paesi africani dopo la fine del colonialismo. Si tratta di un libro che ha fatto epoca, per la forza corrosiva della critica sociopolitica affidata a una scrittura ardita e vivacissima, che si serve di esiti grotteschi e di invenzioni sorprendenti. Più tardi ha scritto Allah n’est pas obligé, ossia Allah non è mica obbligato (sempre con e/o), in cui racconta la storia di un ragazzo soldato riprendendo una tradizione espressiva iniziata da Ken Saro-Wiwa. Inizia così:
«Capitolo primo. Ho deciso che il titolo definitivo e completo del mio blablà è Allah non è mica obbligato a essere giusto in tutte le sue cose di quaggiù. E adesso inizio il mio sproloquio.
E per cominciare… e uno!.. mi chiamo Birahima e sono p’tit nègre. Non perché sono nero e bambino. No! Sono p’tit nègre perché parlo male il francese. Proprio così, davvero. Se si parla male il francese, si dice che si parla p’tit nègre, anche se si è adulti, anche vecchi, anche arabi, cinesi, bianchi, russi, anche americani, si è sempre e comunque p’tit nègre. Così vuole la legge del francese quotidiano.
…E due!… con la scuola non sono andato molto avanti; ho piantato lì in terza elementare. Ho lasciato il banco perché tutti dicevano che la scuola non vale niente, neppure il peto di una vecchia nonna. […]
…E tre! Sono insolente, sgrammaticato come la barba di un caprone e parlo come una carogna. Non dico come i negri africani indigeni bene incravattati: Merda! Puttana! Stronzo! io uso parole malinke come faforò! [Faforò significa “cazzo del padre”, o “culo del padre” in genere, o “in culo a tuo padre”] Come gnamokodé! [Gnamokodé significa “bastardo” o “puttana tua madre”] Come Walahé! [Walahé significa “in nome di Allah”] I malinké sono la mia razza. È quella specie di negri neri africani indigeni che sono numerosi nella Costa d’Avorio, in Guinea o in altre repubbliche delle banane fottute come Gambia, Sierra Leone e Senegal laggiù ecc ecc.
… E quattro!… Mi voglio scusare per il mio modo sfacciato di rivolgermi a voi. Perché sono solo un bambino. Ho dieci o dodici […] e anni parlo molto. Un bambino educato sta a sentire, non tiene banco… non ciancia come una ghiandaia tra i rami di un fico […].
…E cinque!… Per raccontare la mia vita di merda, il mio bordel de vie, per parlare in modo approssimativo un francese passabile. Per non confondermi con i paroloni, possiedo quattro dizionari.
Prima di tutto il dizionario Larousse e il petit Robert, in secondo luogo l’Inventario delle particolarità lessicali del francese in Africa nera, e in terzo il dizionario Harrap’s. Questi dizionari mi servono per trovare i paroloni, per verificarli e soprattutto per spiegarli, i paroloni.
Occorre spiegare perché il mio blablà sarà letto da vari tipi di persone: dai tubab [tubab significa “bianco”] coloni, dai neri indigeni selvaggi d’Africa e dai francofoni di ogni calibro [calibro sta per “genere”]. Il Larousse e il Petit Robert mi permettono di cercare, di verificare e di spiegare i paroloni del francese di Francia ai neri negri indigeni d’Africa. L’Inventario delle particolarità lessicali del francese d’Africa spiega i paroloni africani ai tubab in francese di Francia. il dizionario Harrap’s spiega i paroloni pidgin ai francofoni che non capiscono nulla di nulla del pidgin.
Come ho avuto questi dizionari? Questa è una lunga storia che non ho voglia di raccontare adesso. Ora non ho voglia, non ho tempo di perdermi in chiacchiere. Ecco, tutto qua. A faforò [“affanculo mio padre”]».
Ken Saro-Wiwa era un nigeriano ogoni. Gli ogoni sono un piccolo popolo che vive nel delta del fiume Niger in una zona pesantemente sfruttata dall’industria petrolifera. Grande intellettuale, cineasta e drammaturgo ma anche un impresario culturale di successo, poeta e narratore, decise di sostenere la lotta degli ogoni contro i colossi dell’industria petrolifera; venne per questo arrestato dalle forze armate nigeriane, accusato di aver danneggiato gli interessi regionali e impiccato nel 1995. Il suo fondamentale libro del 1985 si intitola Sozaboy, che significa “bambino soldato” (Soldier Boy); purtroppo questa parola oggi è diventata nota a causa delle guerre civili che hanno straziato molti paesi dell’Africa. (Il romanzo Sozaboy è stato tradotto in italiano e pubblicato da Baldini e Castoldi con il titolo originale inglese)
Ed ecco come si avvia il romanzo, con un incipit bellissimo che parte dal villaggio di Dukana, presentato in parallelo e in affettuosa antitesi all’Umuofia di Chinua Achebe:
«Comunque all’inizio tutti erano contenti a Dukana.
Tutti i nove villaggi pensavano e mangiavano un sacco di mais con le pere snocciolando racconti sotto la luna. Perché il lavoro dei campi era finito e l’gname stava crescendo proprio bene. E perché il vecchio governo cattivo era morto ed era arrivato un nuovo governo, un governo di sozasoldati e di polizia».
Questo incipit, con i nove villaggi e il rito del raccolto, è preso da Things Fall Apart di Achebe. Ken Saro-Wiwa inizia quindi nel segno di Achebe, ma poi racconta la storia non di un maturo guerriero, ma di un ragazzo che si chiama Mene e diventa ragazzo soldato, entrando nelle milizie della guerra civile senza capire minimamente perché lo faccia, dove vada e che senso abbia la sua vita. Succedono cose terribili, tanto è vero che Mene cambia, diventa disperato, fugge e alla fine ritorna al suo villaggio Dukana, che trova però deserto. La sua casa è stata abbattuta e sua madre non c’è più. Allora dice:
«…e così mi alzai da dove stavo seduto. Non dissi più una parola, soltanto mi alzai e mi avviai. Mentre stavo andando, guardai verso il posto dove era sempre stata la casa di mia mamma. E le lacrime cominciarono a scendermi dagli occhi come pioggia. Andai via veloce dal mio villaggio natale Dukana e in realtà non sapevo mica dove stessi andando. E intanto pensavo a come la guerra aveva rovinato il mio villaggio Dukana, rincretinito un sacco di persone, ucciso molte altre, ucciso mia mamma e mia moglie Agnes, la mia bella e giovane moglie dello stupendo seno, e ora mi aveva fatto diventare come uno che ha la lebbra perché non ha più un villaggio.
E stavo pensando a come prima ero stato orgoglioso di andare soldato e di chiamarmi Sozaboy. Ma ora, se qualcuno viene a dirmi qualcosa della guerra, o anche del combattimento, io mi metterò soltanto a correre e a correre e correre e correre. Credetemi. Sinceramente vostro».
Itala Vivan
Itala Vivan (Udine, 6 febbraio 1936) è un’accademica e scrittrice italiana.
Itala Vivan, professore ordinario già alla Facoltà di Scienze Politiche dell’ìUniversità degli Studi di Milano, è una delle massime esperte italiane di letterature africane e una studiosa della produzione culturale dell’Africa e in particolare del Sudafrica. Si è formata come comparatista nelle università statunitensi, e quindi nel settore degli studi postcoloniali e culturali, analizzando le società e le culture nella transizione dalla situazione coloniale a quella postcoloniale e osservando, in filigrana,la condizione femminile e la vicenda della schiavitù moderna figlia degli imperi europei.
Si forma in Italia e negli Stati Uniti con la laurea nel 1959 in lingue e letterature straniere all’Università Cattolica di Milano e, negli anni Sessanta, con la preparazione per il dottorato in studi comparati alla Rutgers University nel New Jersey che frequenta grazie a una borsa Fulbright. Tra il 1971 e il 1975 è attaché presso l’Istituto Italiano di Cultura di Londra. Docente di Letteratura inglese prima all’Università di Bari (1975-1979), poi all’Università di Verona e di Udine (1979-1990) e infine professore ordinario alla Facoltà di Scienze Politiche dell’Università degli Studi di Milano (1990-2005) dove insegna studi culturali e postcoloniali. Tra il 1980 e il 1983 è visiting professor alla Columbia University di New York nel dipartimento di studi comparati[1].
Studiosa e ricercatrice che contribuisce agli studi postcoloniali e agli studi culturali. Partendo dalla letteratura e dalla storia con un approccio comparativo, multidisciplinare e fortemente internazionale, i suoi studi spaziano sulle arti visive, i musei culturali, la cultura contemporanea in generale e la storia e evoluzione sociale del Sudafrica.
Attraverso un intenso lavoro di pubblicazione, Itala Vivan ha svolto un ruolo centrale in Italia nel far conoscere le letterature africane contemporanee. Ha curato la pubblicazione di romanzi e di raccolte di racconti per le case editrici Giunti, Feltrinelli, Adelphi, Baldini Castoldi Dalai. Ha fondato e diretto la collana di letterature africane e caraibiche Il lato dell’ombra per la casa editrice Edizioni Lavoro[2]. Ha avuto un ruolo attivo nel promuovere la partecipazione di scrittori africani al Festivaletteratura di Mantova[3]. Ha studiato, e tuttora studia, gli esiti letterari dei nuovi scrittori italiani di origine africana. Tra gli autori curati da Itala Vivan vi sono Wole Soyinka, Nadine Gordimer,Chinua Achebe, Nagib Mahfuz, Olive Schreiner, Elsa Joubert, Buchi Emecheta, Pepetela, Mia Couto, Thomas Mofolo, Richard Rive, Tahar Ben Jelloun, Sipho Sepamla, Zoe Wicomb, Bessie Head, Amadou Hampâté Bâ, Amos Tutuola, Rose Zwi, Ken Saro-Wiwa, Nuruddin Farah, Driss Chraïbi, Ken Saro-Wiwa, André Brink, Peter Abrahams, Arthur Maimane, Lisandro Otero, Abdelkébir Khatibi, Abdlewahab Meddeb, Rachid Boudjedra, Cyprian Ekwensi, Jean Jacques Alexis, Jacques Roumain, Maryse Condé, Sony Labou Tansi, ecc..
Grazie alla sua partecipazione a convegni e conferenze e all’organizzazione di eventi, nonché alla collaborazione con quotidiani e riviste tra i quali Rinascita, Paese Sera, Linea d’ombra, L’Unità[4],e varie altre, ha avuto un ruolo importante anche nel far conoscere a un ampio pubblico la cultura africana contemporanea.
Itala Vivan ha diretto la rivista “Culture”, del dipartimento di Lingue e Culture Contemporanee della Facoltà di Scienze Politiche dell’Università degli Studi di Milano, ed è stata direttore scientifico della Biblioteca “Enrica Collotti Pischel” della Facoltà di Scienze Politiche di Milano contribuendo in modo molto significativo ad arricchire i fondi dell’istituto con pubblicazioni e riviste legate all’Africa e agli studi postcoloniali[5]. È stata quindi direttore scientifico della Biblioteca della Scuola di Mediazione Interculturale dell’Università degli Studi di Milano (sede di Sesto S.Giovanni). Oggi fa parte della redazione della rivista Storia delle donne pubblicata online dall’Università degli Studi di Firenze e del comitato scientifico di “Scritture migranti” e varie altre riviste accademiche.