Futuro perduto in riproduzione: la musica come infestazione del tempo

di Giuseppina Borghese

Fotogramma dal video "Disintegration Loop 1.1" di William Basinski
Fotogramma dal video “Disintegration Loop 1.1” di William Basinski

Quando William Basinski iniziò a digitalizzare le sue vecchie registrazioni su nastro, non stava cercando la rovina: voleva solo salvarle, eppure mentre i magnetofoni riproducevano lentamente quelle composizioni ambientali degli anni Ottanta, accadde qualcosa di irreversibile. Il materiale fisico del nastro, fragile e corroso, cominciò a sgretolarsi. Ad ogni passaggio, minuscole particelle di ossido cadevano via, cancellando progressivamente il suono che stavano trasmettendo.
Basinski si rese conto che stava assistendo alla propria musica mentre moriva – e che la sua distruzione produceva, paradossalmente, una nuova forma di bellezza. Nascono così The Disintegration Loops (2001-2003), una serie di brani costruiti su frammenti melodici che si dissolvono lentamente, lasciando dietro di sé un alone di eco e polvere sonora. L’esperienza d’ascolto è quasi ipnotica: un ciclo che si consuma in diretta, dove la perdita diventa ritmo, e la cancellazione si trasforma in composizione, come se il tempo, anziché scorrere, si stesse sgretolando in particelle udibili. Nel settembre 2001, Basinski completa la digitalizzazione proprio nei giorni in cui le Twin Towers di New York crollavano. Dalla terrazza del suo appartamento a Brooklyn, Basinski vede la nube di fumo salire e oscurare il cielo, mentre in sottofondo suonano i suoi loop: filma il tramonto su Manhattan e lo monta insieme alla musica.
Quel video – un cielo che si fa grigio e poi dorato, la città che svanisce nella luce – divenne il requiem involontario di un’epoca. Da allora The Disintegration Loops è stato letto come uno dei lavori più emblematici della cultura post-11 settembre: una meditazione sul crollo non solo delle torri, ma della stessa idea di continuità storica. In quell’immagine di un nastro che si consuma mentre tenta di conservare il proprio suono c’è la stessa logica che ritroveremo, anni dopo, nella vaporwave: la consapevolezza che ogni archivio è destinato a degradarsi e che il gesto di conservare può coincidere con quello di distruggere, l’inevitabile fusione tra perdita e ripetizione. Basinski non “anticipa” la vaporwave, ma ne prefigura sicuramente la sensibilità.
Iniziando a scrivere questo testo ho provato, innanzitutto, a fare chiarezza su cosa intendiamo quando parliamo di fantasmi. Non esattamente le presenze che fanno sbattere le porte o trascinano mobili nei corridoi, né quelle, più cinematografiche, come i poltergeist che abitano i televisori o gli spiriti malinconici che restano a vivere in una casa dopo la morte. I fantasmi a cui penso non hanno volto né voce riconoscibile e non fanno paura, perché non sono nemici, ma residui: vibrazioni che sopravvivono nei suoni, nelle immagini, nelle memorie digitali. Sono gli echi di ciò che abbiamo perduto – o di ciò che continuiamo a trattenere anche quando dovrebbe svanire. Li ho immaginati annidarsi nei glitch, nei silenzi compressi di un file MP3 ascoltato troppo a lungo. C’è un’intera generazione che vive dentro questa percezione, quella cresciuta tra la fisicità del nastro e l’evanescenza del digitale, tra la consistenza della materia sonora e la sua scomparsa. Abbiamo registrato cassette che si smagnetizzavano, collezionato CD graffiati e poi spostato tutto su cartelle senza peso, pronte a dissolversi alla prima disconnessione. È in questo passaggio che ha trovato spazio l’immaginario spettrale della musica contemporanea. Mark Fisher, in Ghosts of My Life, parla di hauntology: una condizione in cui il futuro sembra sospeso, sostituito dal riciclo infinito del passato. “Il tempo – scrive – non procede, ma ristagna.” La musica non annuncia più ciò che verrà: abita un presente che non smette di risuonare.
Se la musica contemporanea fosse infestata da un fantasma lo immaginerei parlare sicuramente con la voce evanescente della vaporwave. Nata nel decennio in cui Internet ha trasformato l’archivio in habitat, la vaporwave ha iniziato a diffondersi su piattaforme quali Bandcamp e YouTube, dove un gruppo di artisti ha cominciato a manipolare materiali sonori d’uso comune come jingle aziendali e canzoni pop, distorcendoli fino a renderli quasi irriconoscibili. Da qui il paesaggio sospeso – familiare e allo stesso tempo inquietante – che connota la vaporwave. In Floral Shoppe di Macintosh Plus o Eccojams Vol.1 di Chuck Person (Daniel Lopatin), la melodia diventa fantasma di se stessa: un frammento che si ripete fino a perdere ogni funzione originaria. Il teorico Grafton Tanner, nel libro Babbling Corpse, scrive che la vaporwave “trasforma la nostalgia in un luogo abitabile”. Non è un semplice ritorno agli anni Ottanta o Novanta, ma una riflessione sul modo in cui l’immaginario collettivo continua a risuonare nei circuiti del presente.
Lo studioso Adam Harper la definisce “la colonna sonora del capitalismo in sogno”, una musica che non denuncia, ma mostra il logorio della promessa. Le sue immagini ricorrenti – centri commerciali abbandonati, statue greche digitalizzate, tramonti sintetici – raccontano un mondo in cui il consumo è diventato un ricordo. Anche Simon Reynolds, parlando di retromania, ha descritto questa condizione come un blocco del tempo. L’ossessione per il passato non nasce da amore, ma piuttosto da una paralisi: non sappiamo più immaginare il futuro, allora lo rallentiamo, lo ripetiamo, lo trasformiamo in estetica. In questo senso, la vaporwave è più sintomo che tendenza: una diagnosi lucida del presente. C’è però una componente visiva fondamentale in tutto ciò. I video su YouTube, le copertine, le GIF e i meme contribuiscono a costruire un linguaggio dell’irrealtà. I corridoi fluorescenti, i loghi aziendali in 3D, i pixel sgranati di un’interfaccia Windows 95. È come se la memoria visiva della Rete si fosse fusa con quella sonora, creando una topografia spettrale fatta di glitch e dissolvenze. L’estetica vaporwave è, in questo senso, un’architettura mentale: i suoni abitano spazi che non esistono, romanticizzando il passato.
Da questa matrice sono nati altri linguaggi: mallsoft, witch house, signalwave, hypnagogic pop, ognuno dei quali elabora la stessa intuizione: la presenza come eco. Il mallsoft trasforma il rumore dei centri commerciali in paesaggi vuoti; la witch house innesta elementi occulti sulla cultura elettronica; l’hypnagogic pop, con artisti come Ariel Pink o James Ferraro, rielabora la memoria televisiva dell’infanzia in forma di sogno distorto. Tutti questi generi condividono la stessa domanda: cosa rimane della musica, quando il mondo che la produceva non esiste più?
C’è anche, inevitabilmente, una dimensione personale in questo rapporto con i fantasmi. Chi è nato nel decennio Ottanta/Novanta vive immerso in un archivio che non può controllare. Ogni suono è accessibile, ma nulla è stabile e questo ci porta a confondere la memoria con la disponibilità: crediamo che tutto ciò che possiamo riascoltare ci appartenga, ma in realtà siamo noi a essere abitati dai suoi resti. Su YouTube possiamo recuperare le pubblicità anni Novanta, i jingle dei telefonini Nokia o un concerto dei Blur del 1994 filmato male, ed è lì che la memoria si dissolve nella riproducibilità. La canzone che un tempo era un frammento della nostra vita ora è solo un file che qualcuno ha caricato vent’anni dopo, in un archivio impersonale in alta definizione. È questo lo scarto sottile – e forse irreparabile – tra ricordare e poter accedere. Anche le fotografie, ormai, non invecchiano con noi. I backup di Google Photos o di iCloud ci ricordano anniversari, viaggi, volti che non pensavamo di voler rivedere. La memoria automatica diventa un gesto di archiviazione passiva: non ricordiamo, veniamo ricordati.
Ma dove conduce questa disposizione d’animo che ci fa tendere all’infestazione della musica?
Forse non verso la nostalgia, ma verso una nuova forma di sensibilità. L’ascoltatore contemporaneo non cerca più il brano “nuovo”, ma il suono che contenga una traccia del tempo: un errore, una compressione, un residuo, è una forma di attenzione che sostituisce l’idea di progresso con quella di persistenza. In questo senso, è un gesto politico e poetico insieme: riconosce che la perdita è parte integrante del presente, e che abitare il mondo oggi significa imparare a convivere con ciò che resta.
Derrida scriveva che «non si devono temere i fantasmi, ma imparare a vivere con loro».
La vaporwave e le sue derivazioni sono, in fondo, un esercizio in questa direzione. Ci insegnano a convivere con il rumore di fondo del mondo, con la persistenza del non più e del non ancora.

 

Giuseppina Borghese

Giuseppina Borghese, giornalista, si occupa di teatro, musica e società. Collabora con Il Tascabile, CheFare e Minima&Moralia. “A Manchester con gli Smiths – Un walkabout musicale” (Giulio Perrone Editore) è il suo primo libro.