Realismo Animista

di Marco Mattei

Scultura su un tempio balinese (dal web)
Scultura su un tempio balinese (dal web)

Tutto allora diventa pieno di splendore. È spaventoso, è grandioso, e rizza i peli per tutto il corpo, e spinge tutto il corpo nel desiderio e nell’ansietà. Guardi le cose del mondo e pensi che sono belle, e ti viene spontaneo aprire la bocca e parlare. Vedi il sole, che illumina tutto, e la luna e le stelle, formate in cielo chiare e terribili, e vedi l’aria e l’acqua e il fuoco e la terra, e senti il legame terribile di ogni cosa. Lo senti nel petto, nel corpo, nella mente: e ti dà la brama, il desiderio, la fame e la gelosia.
Lo Splendore. I. L’infanzia di Hans, Pier Paolo di Mino


1. Un tempo senza tempo

La nostra è un’epoca infestata. Infestata da un passato di genocidi e colonialismi che ancora succhiano via vita dalla nostra esistenza, infestata da una forma di vita quasi feudale di cui sembriamo incapaci di liberarci. Infestata anche da un unico futuro possibile, un’unica idea di come sarà il nostro avvenire: la catastrofe climatica. In un’epoca in cui il vecchio non muore e il nuovo non riesce a nascere l’unica cosa che sembra mancare davvero è il presente. Chiedendo in prestito un termine al filosofo Derrida, forse la nostra è l’unica vera epoca hauntologica, un’epoca in cui l’Essere non è, e non è mai sé stesso, ma è un Essere infestato dagli spettri del suo passato violento e dal suo futuro apocalittico. Sempre più tribali, gli uni contro gli altri, due parole sembrano mancare al vocabolario umano: “comunità” e “speranza”. Eppure, è proprio all’interno di questo presente così assente che si cela la strada per venirne fuori. L’apogeo della crisi presenta il suo stesso superamento. Credo, infatti, che in un’epoca così infestata, la migliore cornice teorica per comprendere e superare ciò che accade nel cosmo ci viene offerta – forse inaspettatamente – dall’animismo. Al fine di comprendere appieno questa posizione, però, bisogna fare un passo indietro.

2. Animismo come Network

Professare un “realismo animista” potrebbe sembrare contraddittorio. La credenza che gli enti del mondo fisico, siano essi animali, piante o addirittura sassi, abbiano un’anima è un’idea che nel migliore dei casi potrebbe essere definita sia come scientificamente anacronistica che psicologicamente ingenua – Freud, per esempio, considerava questa credenza come appartenente ad una fase primitiva dello sviluppo sociale della persona, e infatti secondo Jean Piaget animisti sono principalmente i bambini piccoli – e nel peggiore dei casi un’idea folle: se una persona a me vicina iniziasse a credere che vi sono letteralmente degli spiriti che abitano le cose forse le consiglierei di parlarne con l’Uno…quello proverbialmente bravo.

Eppure, sotto un altro punto di vista, tutti abbiamo continuamente atteggiamenti dal sentore animistico verso il mondo che ci circonda. Ci leghiamo spesso affettivamente ad oggetti, ricordi preziosi, magari di persone che non sono più nella nostra vita, e le cui vestigia materiali rappresentano per noi un valore inestimabile. Sono sicuro che ognuno di noi conosce la storia di almeno una famiglia i cui membri non si rivolgono più la parola per via dell’eredità di una casa, la casa, la casa d’infanzia, che un parente vuole vendere e l’altro no, per via di ciò che quella casa rappresenta – e anzi, forse per via di ciò che quella casa è: l’esempio concreto di una vita che è stata. Se questo succede in maniera così vivida per la materia “inanimata”, è allora superfluo fare gli stessi esempi con animali domestici, i luoghi a noi cari, le piante…in un modo o in un altro, ne sono certo, siamo tutti già animisti con quelle porzioni di mondo che sono più vicine alla nostra vita.

È qui, infatti, che i nostri preconcetti sull’animismo vanno scalfiti. L’essere animisti non riguarda tanto in cosa si crede, o le pratiche a cui si partecipa. Questo modo di porre la questione – che l’animismo è “semplicemente” la credenza che ogni cosa sia animata, abbia uno spirito – è più che altro una banalizzazione che è stata storicamente messa in atto da un atteggiamento coloniale, volto a screditare il modo di vivere di alcune popolazioni ritenute inferiori. Lo stesso vocabolario Treccani riporta dell’animismo, erroneamente: ‹‹concezione della realtà, tipica delle religioni dei popoli primitivi, che attribuisce un’anima alle cose del mondo esterno››; lasciando quindi implicito che è una concezione della realtà sbagliata o semplicistica, antiquata, primitiva.

Piuttosto, essere animisti è una questione di postura, un modo di porsi verso il mondo. C’è una famosa frase di Graham Harvey, importantissimo storico delle religioni e autorità massima per gli studi sull’animismo, secondo cui gli animisti sono semplicemente coloro che


“[R]iconoscono che il mondo è pieno di persone, solo alcune delle quali sono umane, e che la vita è sempre vissuta in relazione con gli altri. L’animismo si manifesta in diversi modi, tutti orientati a imparare ad agire con rispetto (con attenzione e in modo costruttivo) verso e tra le altre persone”. [Graham Harvey, ‘Animism: Respecting the Living World’ p. xi].


Sotto questa luce, allora, l’animismo diventa il principio di come ci si approccia al mondo: è un presupposto intorno al quale si costruisce la propria vita. Non riguarda tanto le categorie che usiamo per conoscere la realtà, categorie quali “animato”/“inanimato” o “vivo”/“morto”, riguarda invece in primo luogo le relazioni. Il manifesto animista di Harvey chiarisce che animismo non significa credere ingenuamente che tutto abbia un’anima, bensì adottare una postura relazionale verso il mondo. «Tutto ciò che esiste vive, e tutto ciò che vive merita rispetto» dice Harvey: non un rispetto astratto o romantico, ma concreto, fatto di attenzioni, di cura, di costruzione di rapporti, di mediazioni e a volte di conflitto. Il mondo è popolato da una moltitudine di “persone” altro – che – umane — alberi, rocce, fiumi, animali, funghi — ciascuna con i propri legami, linguaggi e modi di interazione. La vita non è quindi una gerarchia che pone l’essere umano al vertice, come ci fa notare anche l’antropologo Viveiros de Castro nei suoi libri sulla cosmologia amerindia, ma una rete di relazioni plurali che ci invita a riconoscere le differenze come occasioni di incontro e apprendimento. Essere animisti, allora, significa imparare ad abitare questa rete con rispetto e responsabilità, accettando che non siamo il centro del cosmo ma solo una parte di una comunità vivente più ampia.


3. L’Oracolo e il Datacenter

Nel libro Invito al Reincantamento, ho sostenuto che il disincanto che tanto viene diagnosticato nella società occidentale contemporanea non sia una perdita di valori spirituali come molti dicono, quanto una perdita del “sacro”, ossia: una progressiva tendenza ad usare l’economia come metro di giudizio del valore delle cose. Questa tendenza, secondo il sociologo Weber, ha avuto inizio nella prima metà del Novecento all’interno delle università, dove l’idea che la conoscenza e lo studio avessero valore in sé, in quanto fine ultimo dell’essere umano, è stata pian piano sostituita dall’idea che la conoscenza e lo studio hanno valore solo se applicabili. Similmente, cerco di mostrare nel libro, questa tendenza si è espansa in tutti gli ambiti della nostra vita: dalle nostre relazioni alle città in cui abitiamo, la logica dell’esistenza è stata sostituita da una logica dell’utile – le cose, per essere riconosciute come degne di esistere, devono essere giustificate economicamente. Un tempo la vita era sacra, il suo valore non aveva bisogno di essere giustificato. Oggi, suggerisce Laura Tripaldi, inutile vuol dire senza valore.

La sociologa Shoshana Zuboff ha chiamato questo fenomeno capitalismo della sorveglianza. Con questa espressione si intende un regime economico che non crea valore dal lavoro, bensì dalla trasformazione della vita stessa in risorsa: ogni gesto, conversazione, spostamento, ogni battito cardiaco registrato da un orologio digitale diventa materia prima da trasformare in dati da analizzare e rivendere poi sotto forma di predizioni comportamentali. L’ultima frontiera di questo disincanto è l’anima: algoritmi di raccomandazione, nudge comportamentali…la trasformazione dei comportamenti, della mente in dato ha spogliato gli esseri umani della loro agency, della loro capacità di agire.

Un attore di questa profonda corruzione dello spirito è il multimiliardario Larry Ellison, che nel creare una delle più grandi infrastrutture di datacenter al mondo ha fondato il suo impero di sorveglianza. Creata inizialmente per la CIA negli anni Settanta, Oracle è nata come azienda per raccogliere, archiviare, predire dati. Da allora, come un cancro ha iniziato ad infestare ogni ambito della vita pubblica in Occidente: dopo l’11 settembre propose un’identità digitale unica per tutti gli americani; durante la pandemia offrì i database Oracle per gestire la risposta sanitaria; con l’acquisizione di Cerner nel 2022 è entrato in possesso dei dati clinici di milioni di cittadini. Parallelamente, Oracle ha assunto la gestione dei dati di TikTok con il cosiddetto Project Texas e ha finanziato infrastrutture cloud militari in Israele per l’osservazione e la predizione dei comportamenti delle masse. Oracle si è progressivamente trasformata in custode invisibile di informazioni vitali, dall’anima biologica (DNA, cartelle cliniche) al corpo sociale (media, piattaforme). Come con Cambridge Analytica, in mano ad Oracle ci sono le nostre anime, e il suo business plan è il controllo dei comportamenti. Nelle parole dello stesso Ellison «Le persone si comporteranno bene, perché l’AI sarà sempre lì a sorvegliarli e a riportare a noi ciò che fanno».

Il presente è infestato da queste presenze digitali, spettri numerici, forze inumane, veri e propri loa vudù che intermediano tra il mondo degli umani e la cabala delle grandi piattaforme. Queste tecnologie di estrazione di dati assorbono il nostro mana – la forza vitale – e la fanno propria, diminuendo la potenza della vita umana. Siamo circondati, infestati, da forze vitali eterodirette, veri e propri fantasmi digitali che ci spogliano della nostra umanità, che risiedono in enormi datacenter, contemporanee versioni dei totem e degli oracoli. Che la cornice concettuale dell’animismo sia la migliore per interpretare il nostro tempo allora non stupisce più: il nostro è un tempo infestato, un tempo di spiriti – di vampiri algoritmici.

4. Habeas Animam

Se mettiamo insieme i tre fili precedenti – il tempo infestato, l’animismo come postura relazionale, l’oracolo-digitale che vampirizza la nostra forza vitale – la conseguenza è quasi obbligata: ciò che manca oggi è una difesa della vita. Chiamo questa difesa habeas animam: come l’habeas corpus sottraeva il corpo al potere arbitrario del sovrano, così l’habeas animam dovrebbe sottrarre l’anima – cioè la nostra capacità di relazione, di desiderio, di futuro – al potere estrattivo delle infrastrutture che la vogliono contabilizzare.

Per farlo, dobbiamo recuperare ciò che finora è apparso solo in controluce: il sacro. Non il sacro come aura mistica, non il sacro come religione imposta, ma il sacro nel suo senso etimologico più semplice: ciò che è separato, messo da parte, non disponibile. Nelle società che non hanno ancora consegnato tutta la loro esistenza alla misura economica esiste sempre una zona di non-scambio: un fiume che non si devia, una montagna che non si scava, un nome che non si pronuncia fuori dal cerchio. Quel “non disponibile” non è il modo con cui una comunità dice a sé stessa che la vita non può essere interamente tradotta in valore d’uso o di scambio. Nel momento in cui tutto è diventato dato, nel momento in cui anche il respiro, il sonno, l’orientamento politico, la fertilità, la sofferenza psichica sono diventati “input” per un datacenter-oracolo, abbiamo tolto alla vita la possibilità di essere incomputabile.

E allora il reincanto serve a ricreare zone di sottrazione: spazi, corpi, relazioni, territori, linguaggi che non possono essere convertiti in dato o in profitto. Il diritto di non essere interamente leggibile dalle macchine di previsione; il diritto di essere opachi, lenti, inadatti alla profilazione; il diritto di avere relazioni che non producono KPI. L’animismo qui smette di essere un tema antropologico e diventa un programma politico. Ma perché l’animismo? Perché – lo abbiamo visto con Harvey – l’animismo è un rifiuto di trattare le cose come pura funzione. Come scrive magistralmente Robert Macfarlane, un fiume è prezioso perché è vivo.

In alcuni testi andini si dice che la Pachamama – la “madre terra” – sia soggetto di diritto. E questo è proprio quello che succede nelle culture latinoamericane del buen vivir ci racconta Vincenzo Grasso: alla natura viene riconosciuto uno statuto giuridico. Vivere bene non è consumare di più, ma vivere in relazioni giuste con gli altri esseri, umani e altro-che-umani.

In termini molto concreti, habeas animam significa almeno tre cose. Sottrarre: creare spazi di non-dato, di non-raccolta, di non-misurazione. Case, scuole, quartieri, piattaforme che non profilano. Restituire: riconoscere soggettività là dove è stata cancellata – ai fiumi, agli ecosistemi, ma anche ai saperi locali, alle lingue minoritarie, alle memorie marginali. Restituire i nomi. Ricomporre: rifare comunità plurali dove umano e altro-che-umano siano co-decisori.

 

Marco Mattei

Autore di nvito al reincantamento. Affrontare e superare il disincanto (Tlon Edizioni, 2024).
Dottorando in Filosofia della mente e delle scienze cognitive presso l’Università degli Studi di Milano. Ha collaborato con varie riviste e progetti online, tra cui «L’Indiscreto», «Lay0ut Magazine» e «Kabul Magazine».