Il facile che diventa difficile attraverso l’inutile

di Gioia Salvatori

Gioia Salvatori - foto di Eolo Perfido
Gioia Salvatori – foto di Eolo Perfido

In questo presente orrendo, come mi piace l’inutile!
Non il superfluo.
Il superfluo è il grande protagonista di questo tempo, il superfluo è il primo avversario del pensiero di morte: oggetti superflui, relazioni superflue, accidenti superflui di ogni tipo, tentativi di andare contro il vuoto mettendoci dentro tutto l’immondezzaio possibile.
Lo capisco, certo, a chi piace pensare alla morte? Per quanto, sarebbe anche ora di cominciare.
L’inutile (il non-utile letteralmente) va meno di moda, è più frustrante. A chi serve? Che ci faccio?
E quindi è guardato male, osservato come errore, “inutile” appunto, quasi colpevole.
L’utile al mondo piace molto, soddisfa categorie legate all’usus, al fine cui tende il raziocinio, la cosa pensata per essere usata, l’illusione di non aver sprecato (inutilmente appunto) il tempo, senza raggiungere scopi e obiettivi di cui, a quanto pare, la nostra esistenza ha da essere costellata.
Da autrice ma anche da attrice e a proposito di questo, in scena, la parola che ha più a che fare col mio desiderio è quella poetica: inutile ma non futile e con cui si riescono ad avvicinare più cose del regno invisibile che di quello visibile, il quale regno visibile certe volte sarebbe meglio non vederlo proprio.
La parola poetica se ne frega dell’essere compresa, viene meno al patto primo, quello di essere riconoscibile e pragmatica tout court, viene meno alla costruzione logica se crede, viene meno a tutto.
Non spiega, non chiude e nemmeno apre se ritiene. Se ne frega dell’impaginazione e la piega agli schiribizzi dell’autore, canta e rima come vuole o si chiude come l’arrocco sulla scacchiera.
La parola poetica è una disertrice, un modo più anarchico di dire.
Che non significa meno regolato. Proprio perché più anarchico, ha bisogno di tutto per darsi in libertà.
E come se non bastasse, segue le regole del suono e quindi se ne infischia di tutto quello che si attacca alle matematiche del senso.
In teatro, nel mio lavoro, la parola poetica è quindi la possibilità di sottrarre il discorso a se stesso e di sottrarmi con forza al presente, al ragionamento, all’intelligenza dell’artista intellettuale, questo piano ben congegnato di ragionamenti che non permette crepe al senso.

Per me può crepare il senso, in questo senso.

Giocare

C’è un aspetto ludico nella poesia che si riscontra meno altrove e che bene si attaglia con la pratica scenica, con la pratica scenica del comico per me in particolare, si presta (forse per questo suo poco avere a che fare con il dover andare da qualche parte, trascinare necessariamente una trama, dimostrare una certa teoria) si presta dicevo, ai molti inciampi inconsci e rigidini da cui noi che ci occupiamo di comicità dipendiamo per la risata e poi fa lo scherzo della tela che cade, per effetto della sintesi o del ritmo o della misura del verso o delle artefazioni che usa, per effetto della sua forma stessa ha la forza di squarciare un taglio su abissi difficili, e da lì lascia che qualcosa di inimmaginabile appaia dietro al discorso.
La poesia “non sa cosa” e però “filosoficamente” registra che qualcosa è apparso e si meraviglia e cioè fa come la filosofia ma con più sex appeal.

In questo senso quello che accade con la parola poetica è simile al lavoro dell’attore che cerca uno stupore ogni sera mentre maneggia i fili del testo e delle altre cose della scena. Siamo chiamati a svuotarci per fare entrare altro, celato altrove, lavoriamo perché appaia da qualche canale interno, cerchiamo di lasciare che si mostri, che si apra lo squarcio egotico ed emerga l’umano. Questo “io non voglio essere più io” è forse più visibile da percorrere attraverso i versi.
Da questo punto di vista la parola poetica è molto vicina alla funzione della maschera teatrale che “sembra” qualcosa, ma sotto alla quale c’è l’animale, il corpo, il pericolo, il buio. Questo buio che la parola poetica stessa ricompone, (perché è “parola” e cioè, territorio comunque linguistico che conserva ragione), nel caso del comico, produce la risata, che poi catarticamente riporta a terra quasi tutto.
Parola giocosa e parola spaventosa, parola terribile, incomprensibile ma sintetica, quasi partitura ordinata che sposta l’uditorio in un mistero maggiore.

Nel mio caso, non potendo inquadrare questa disamina su un piano schiettamente teorico, posso tuttavia raccontare che ho voluto provare a scrivere uno spettacolo totalmente in versi che però non fosse un semplice reading, ma che fosse un salto “dentro” ai versi, provare a creare un filo molto musicale che lo spettatore potesse seguire dall’inizio alla fine.
La difficoltà della frammentarietà poetica pone dei problemi di regia che si è provato a risolvere con la musica e con il corpo, entrambi usati per dare continuità tra le varie poesie che componevano il testo, perché il pubblico avesse la percezione di riuscire a stare dentro a quello che si cercava di comunicare.
Il vero problema di questo tipo di imprese o di allestimenti credo sia il vuoto che produce un tipo di materiale così, che non si acchiappa mai fino in fondo se non con uno sforzo, di chi agisce la scena e del pubblico, uno sforzo che è frastagliato, emotivo, arioso.
La parola poetica che si dà in pubblico va maneggiata con dei crismi molto precisi, va padroneggiata molto bene e data come si dà il difficile: con pazienza, con affetto, con cura.
Abitare la poesia è un esercizio acrobatico sia per l’eloquio che per il corpo, solo la musica riesce a non scomporsi minimamente, solo la musica accompagna la parola che salta.
Dovrò rassegnarmi un giorno a questa superiorità ma comunque ci soffro.

E però ricordo come fosse oggi uno spettacolo di Mariangela Gualtieri che con il suo quaderno, all’Angelo Mai di Roma, leggeva piano le sue parole che schiudevano dal buio e stavamo lì inchiodati come falene alla luce, ad aspettare che la sua voce pronunciasse tutto e che ci parlasse, che rivelasse quello che non saremmo stati mai in grado nemmeno di pensare.
Lei aveva la parola e noi il sollievo che qualcuno sapesse fare l’inutile, l’esercizio più alto dell’incontro.


Bello
fu
andarti spargendo senza consumarti (P.Neruda)

Per questo la poesia, a mio avviso, in qualche modo riconnette il teatro alla dimensione più sacrale e misteriosa, al rito stesso, per la sua richiesta al cuore che fa e per lo slancio di fiducia che il pubblico si trova a fare, riconnette il nostro mestiere con le sue radici antiche.
E mi piace aggiungere qualcosa che suoni anche un po’ snob: ci sono pratiche che si imparano, che ci vengono trasmesse, che ci vengono insegnate con una precisione millimetrica perché da quei millimetri dipende l’esito, dipende il rito, dipende in qualche modo la fuoriuscita dall’esperienza arricchiti. Non è dégagé la parola poetica, a teatro meno che mai. Non c’è disinvoltura nell’arte. La leggerezza neppure è esercizio della disinvoltura e per me è bene anche tenere lontana la parola poetica dal mercato, perché proprio per la sua inutilità chiede di essere cercata e non data, che non sia frequentatissima, che scansi le mode, che sia un buio in cui rifugiarsi, in questo commercio del tutto che ci dobbiamo sobbarcare, è pessimo che le pratiche difficili vengano rese facili attraverso l’utile, inteso anche come il soldo, la moneta: tutti comici / tutti filosofi / tutti poeti, vuol dire, tra le altre cose, che il mercato vuole fare ghiotto il nostro “felice niente” (come dice Cavalli), lo semplifica, lo rende accessibile.

Ma al dentro non si accede con la scala.
Per fortuna.
E questa pure è un po’ una poesia.

 

 

 

Gioia Salvatori

Gioia Salvatori, attrice, autrice e conduttrice. Scrive per il teatro e per la radio, ed è coautrice e coconduttrice del programma Le ripetizioni su Rai Radio3. Con la filosofa Ilaria Gaspari conduce Playbooks su RaiPlay. I suoi monologhi comici sono stati ospitati da Propaganda Live, Radio2 Social Club e, di recente, dal format teatrale di Serena Dandini Vieni avanti, cretina! (2022). Nel 2023 ha condotto Ghostrack per Romaeuropa. Dal 2012 porta avanti il progetto «Cuoro», spazio di satira di costume e spettacolo teatrale in continua trasformazione. Nel 2024 ha pubblicato il romanzo “Avere una brutta natura” (Baldini + Castoldi).