Si scrive ancora

di Lidia Riviello

Simona Generali e Roberto Castello, foto di Massimo Bianchini ai Mercoledì da Salmoni, SPAM! 2024
Simona Generali e Roberto Castello, foto di Massimo Bianchini ai Mercoledì da Salmoni, SPAM! 2024

Quando la poesia è uscita dal testo ed è diventata gesto, sguardo, movimento, suono, acustica presenza e assenza dalla poesia stessa? Nel mio percorso, l’inevitabile liaison tra poesia scritta e azione, traduzione della stessa in forme diffuse, ha abitato uno spazio d’immediato spessore sonoro: quello della grande rumoristica degli ambienti della Roma della fine degli anni Settanta e poi quella della natura totalizzante, dei Castelli Romani, dove con mio padre, Vito Riviello, poeta e performer, spaziavamo nell’improvvisazione continua sulla soglia delle lingue, dei dialetti, dei gerghi, degli slang di una comunità statica, dura, esigente, indifferente, giudicante: quella del pubblico. Un pubblico attento e avvisato, preparato quando si trattava di lettori, poeti stessi, e quello casuale della strada, del vicino di casa, del burocrate di un ufficio qualsiasi che proponevano e sfidavano con i loro archivi linguistici pieni di abitudini, norme, stilemi, prototipi, luoghi comuni, la mia già maleducata propensione alla sovversione, al ribaltamento di ogni parola che normasse tempo e spazio. La dimensione di oltraggio che scuciva e riparava queste distanze, faceva nascere intervalli della lingua, pause, sospensioni tra una parola già riconoscibile e una ancora estranea, creando tra queste due difficili categorizzazioni.

Essere figlia di un poeta, apprendere un’arte e un mestiere sempre sul punto di cambiare e spezzare la norma di un linguaggio dominante, ha richiesto intanto la dotazione di una precoce abitudine all’ascolto, alla concentrazione, alla curiosità e alla restituzione poi di un’altra lingua; tanto che spesso molti miei compagni d’infanzia non comprendevano la mia lingua e pensavano fossi bilingue, che parlassi una lingua straniera. Lo strumento dell’oralità come principio di salvezza e di consegna all’abisso dei sistemi ordinari ha preparato la mia prima forma di restare nel mondo, uscendone continuamente. Prima che scritta, la parola agiva, azionava una macchina organica, una cassa di risonanza messa e mossa in funzione con tecniche precise. Il respiro, i gorgheggi, le imitazioni, gli assemblaggi di lingue diverse, i furti delle conversazioni altrui, i sottofondi senza fine degli esterni giorno/notte.

Nell’immediata esperienza – dopo la fase orale, gestuale, spesso seriale e che quindi diventata metodo – è sopraggiunta la consapevolezza che gli ambienti culturali dove agiva la parola performativa (quando carichi di storia ed esperienza come nel caso della storia del Beat 72 o del Gruppo 63, con i quali mi sono trovata molto giovane a collaborare, o quando profondamente privi di pregressi, spogli di incarichi) necessitavano comunque di un’ idea di performance che si nutrisse di esperienze “storicizzate” o di lì da esserlo. Basti pensare alla carica espressiva dello Slam Poetry, introdotto in Italia dagli Stati Uniti dal poeta Lello Voce nel 2000, all’interno dell’originale e innovativo Festival Romapoesia. In quegli anni ho veicolato in radio tantissime esperienze di poesia a voce alta, ritenendo la radio un mezzo di performance diretta e in sintonia profonda con la “voce”.

I festival romani o milanesi come Romapoesia, appunto, o Milanopoesia portavano a collegare la parola scritta con quella detta, cantata, urlata, performata in sensi e direzioni diverse. Farsi carico, insieme a tanti gruppi con tendenze diverse, di un pubblico della poesia che andava nel tempo mutando, è stato un obiettivo primario (e continua ad esserlo) del mio fare e disfare poetico, laddove non c’è contrasto tra parola scritta e forma orale, gestuale, installativa, visuale, digitale, ma un ininterrotto vitale e sempre disorganico, per meglio affrontare le imprevedibilità e le mutazioni che la lingua propone ogni volta. Non siamo mai autori della nostra parola ma la affidiamo sempre a una comunità in divenire. Questo processo continua, tra interruzioni, ripensamenti e riflessioni anche quando si ‘smette momentaneamente’ di scrivere poesia.

* * *

Si smette di fare tutto, anche di scrivere poesia. Così, con questa epigrafe, si apre Neon ’80, libro uscito nel 2008 per le edizioni Zona Contemporanea, con una nota di Edoardo Sanguineti e il sostegno tenace di Nanni Balestrini, per il quale la gratitudine è sempre accesa, ogni qualvolta appunto, si crea quell’intervallo, quello stacco da un tutto a un vuoto, condizione “comoda” nella quale si può anche smettere, appunto, di scrivere poesia. Perché il momento di chiedersi se si può ancora e cosa e come scrivere “dopo Gaza”, ad esempio, è un punto di riflessione che interroga la storia, la sua integrità e la sua corruttibilità.

Eppure si scrive ancora, proprio perché la poesia per dirla ancora e sempre con Paul Celan…

Sprich auch du,
sprich als letzter,
sag deinen Spruch.
Sprich –
Doch scheide das Nein nicht vom Ja.

Parla anche tu Parla anche tu,
parla per ultimo,
di’ la tua.
Parla –
ma non separare il no dal sì.


La poesia sta nel limen, nel sottile stato delle cose, così come nell’inizio di un processo limaccioso, nell’immediato: la tigre nella mano, così la definiva un poeta messicano. Nell’immediato la poesia ritrova il suo ritmo e il suo sragionare, dunque la sua urgenza di non ragionare secondo i luoghi comuni, con parole che agiscano sul presente, vaneggiando, aprendosi al vuoto, alla cavità “dantescamente” parlando. Qui, nella cavità prendono e perdono vite e linguaggi, le ossa lidiali cadute e contratte tra i sussulti di un libro antico per dirla con Dylan Thomas.
La mia è sempre e ancora di più una riflessione sul pensare e praticare oggi una scrittura che, appunto, registri, interferisca nella messa in scena dei linguaggi plurali, ribalti le norme assertive e i protocolli, protesti, estenda la comprensione di quello che accade nel mondo, di quello che non accade più, di quello che deve ancora accadere.
La scrittura, l’atto, il gesto della poesia oggi più che mai inciampa, cade sull’inguacchio, sullo stato strafalcione dei social media ma anche delle reiterazioni amorfe della propria condizione di linguaggio di movimento (per cui è fondamentale che chi scrive oggi poesia si interroghi su sé stessa non in senso autorefrenziale ma eteroreferenziale).

Oggi la scrittura che verifichi davvero lo stato delle cose si dovrebbe incaricare sempre di più di condurre un’azione totale, politica, filosofica, ecologica, perché la poesia è parola, biologica, organica, comprende un tutto di cui è necessario essere consapevoli prima durante e dopo l’uso del pensiero. La poesia sorprende se il suo linguaggio si fa organismo totale, che non escluda nessuna cellula sintattica mentre ne elaboriamo forme e possibilità espressive.
La poesia consapevole è anche quella che interroga la poesia stessa, che non resti “poetically correct”, che si faccia leggere da filosofi, artisti, scienziati, economisti, che non sia più appannaggio e a volte ostaggio dei poeti stessi, o dei critici letterari, ma appartenga a un’intera comunità che si muove, che agita i linguaggi moltiplicandoli per captare e disconnettere o collegarsi alle cavità dei limiti, del punto inarrivabile.
Scrivere ancora per questo.

Il mio intento è qui di non staccare l’esperienza personale della scrittura da una oggettiva osservazione dei fenomeni storici, sociali, culturali che hanno inciso, reciso, cambiato i nostri strumenti, la lingua. E questo non in maniera didascalica ma dinamica, perché la riflessione è individuale e collettiva. Le parole della poesia sono quelle bandite, manipolate, cancellate, desuete, restituite, archiviate, censurate, restituite. Altre, sempre, le stesse.

Il libro Neon ’80 – di cui accennavo all’inizio – nasce dalla riflessione sulla de-formazione della mia generazione (nasco nel 1973) un discorso legato alla celebrazione fra funerea ed euforica di un decennio estemamente critico di montaggio e smontaggio, di una analisi d’insieme degli anni in cui “tutto s’è compiuto” che accumula ed espone oggetti, feticci, simboli, date di avvenimenti storici, materiali “volutamente accennati e provvisori”, e che riflettendo con Edoardo Sanguineti, sono accennati «per calcolata mimesi degli anni ottanta che intendono rispecchiare, per una deliberata destrutturazione della propria struttura. Un lungo filo, tra “fatti fummo” e “fatte fummo”, si annoda su quella che è additabile, probabilmente, quale morale ultima di questa assolutamente esemplare favola: “Fatti fummo per essere rivoluzionati e mai rivoluzionare”. Un piatto e lineare “luogo standard” dentro il quale prendevano vita eccentrica i feticci delle nostre società di consumo» (citazione tratta dalla sua introduzione al volume).

Così nel frammento in prosa del libro: «Non ci hanno liberati per essere liberi. Negli anni dell’intrattenimento franano interi paesi, si esplode in volo, s’invadono le terre, gli uomini di governo mordono tutte le metà della mela rimaste, le ragioni dei disastri non vengono più chiarite. Pensavamo che sarebbero durati per sempre quegli anni, ecco perché quelli della mia generazione sono ancora freschi di primavere congelate. L’ibernazione, una pratica semplice quando è ben chiaro l’obiettivo dell’operazione. Ibernare per conservare inattivo e puro, dunque inattivo, ogni elemento. Così la mia generazione non ha preso parte ai lavori di scavo, ma solo a quelli di restauro».

Così in Sonnologie, uscito nel 2016 si riflette, dando vita al mio progetto di trilogia della privazione del controllo dei nostri beni primari, insieme a Emanuele Zinato (in questo caso il sonno, spazio libero immaginativo e sottratto, controllato dal sistema): «Gli utenti e i clienti, onnipresenti nei versi di Lidia Riviello, circolano infatti soprattutto lì, nel sonno, così come il flusso del valore e il vapore del capitale. Questa mutazione, indistinguibile dall’aria che respiriamo, è dicibile ormai pressoché esclusivamente mediante gli strumenti della poesia: straniamento, guerriglia linguistica. Sonnologie lo dimostra lapidariamente: denominando il fenomeno intero come “mercanzia onirica”. Il termine ‘sonnologie’ qui sembra alludere a una qualche scienza che studia il sonno: i ritmi, le posizioni o il movimento delle palpebre. Si tratta in realtà della ricreazione linguistica di un mondo altrimenti indicibile: “sull’uso e non sul significato dei sogni / lavorano incessantemente / sottotitolando misticamente il profitto”. Questi versi ci dicono molto del surrealismo di massa e della colonizzazione dell’inconscio in cui da due o tre decenni, come sonnambuli, alloggiamo. Ma senza nessuna ironia o morbido nichilismo, rendendoli terribilmente evidenti, proclamandoli cioè come fatto conclamato, al contempo esigono nel lettore coscienza e veglia. Il mondo che ne consegue, scandito da un decalogo in corsivo, solo in apparenza sognato, è esattamente il nostro: rivelato da un sopramondo o sottomondo fantascientifico, è copia “taggata”, esasperata e conforme del Reale».
Nel 2021 esce All you can eat, per i tipi di Aragno e qui è il cibo il bene controllato, ma il pasto è terminato eppure questo è un lungo pasto costellato di assaggiinterminabili. Il cibo manca sempre, anche quando lo consumiamo. Lo rifiutiamo perché ci assale, ci domina alterando la nostra espressione, rendendoci sempre storditi. Si mangia di tutto, alcuni cibi non più. Il cibo è una interferenza che deve adattarsi alle mutazioni storiche. Il cibo è luogo di crisi e di iperproduzione. Il dilemma presuppone un pensiero prolungato e dilatato che diventa iper pensiero in alcuni casi e allora mangiare senza pensare, il dettaglio di cosa, quando, dove con-duce a molte possibilità e infinite soluzioni fino a costruire una vita di un’altra sostanza. Il cibo è la crisi, è quel tempo che resta, come il sonno, ostaggio di controller dominanti.

Riflettendo con Laura Pugno questo lavoro sul linguaggio assume una connotazione di grande efficacia: «un esempio di project poetry, che come scrive Laura Pugno si concentra intorno al nucleo indigesto che il capitalismo, o con Donna Harway, il Capialocene, nonostante il motivo allegorico giovino dello spiritus che durissima coquit, non riesce completamente – non ancora – ad assimilare» (dalla nota di Laura Pugno al libro).

Infine Stati di salute, edito da Aragno nel 2005, è davvero l’apoteosi di quella esibizione della propria condizione di malati-sani-malati, costretti a rappresentare ogni istante del nostro stato. Il lavoro gioca su stato di salute e salute di stato come si evince dal titolo e riflettendo con Mariagrazia Calandrone: «in effetti l’intento è farsi carico del caos di frammenti che ruotano sulle teste (talora pensanti, talatra pesanti) di noi contemporanei e tenta non solo di trascriverlo, rendendolo poesia e non mero, vorticoso sovrapporsi di informazioni, ma di offrirci una bussola, un timone, una parola che sia linea guida e ci orienti nel turbine di avatar, vite inventate, vite che sono quello che vorremmo fossero le nostre vite. Vite esposte alla massima potenza d’inganno, dunque. E la traccia sublime del vero, che Riviello esplora da rabdomante, dove la forcella di legno, che vibra all’apparir del vero, è la parola. Parola aerea, eppure non immateriale» (dalla nota di Maria Grazia Calandrone al libro).

Forse, quindi, oggi il termine “dimestichezza”, per la poesia riconduce alla selvatichezza e insieme alla domesticità dello sguardo per cui ancora si può scrivre ancora, allo scoprire e condividere una cosa selvatica, dunque non coltivabile, non addomesticabile, ma segnare fermamente il territorio ideale e reale per far nascere la nuova lingua del nuovo mondo per cui possiamo, forse, scrivere ancora. La poesia non resta mai dove l’abbiamo lasciata.

 

 

Lidia Riviello

Lidia Riviello autrice e consulente per Rai Radiotre, Rai Uno, Rai Due, Rai Storia e Rai Play, collabora con Rai Storia e Rai 3 (Blob), oltre a scrivere audiodocumentari e ideare cicli di poesia contemporanea per Radiotre.
Ha pubblicato i volumi di poesia Aule di passaggio (Noubs, 1998), L’infinito del verbo andare (2002, prefazione di Edith Bruck), Rum e acqua frizzante (2003, nota di Carla Vasio), Neon 80 (Zona, 2008, nota di Edoardo Sanguineti, Premio A. Delfini 2007), Ritorno al video (2009), Sonnologie (Zona, 2016, introduzione di Emanuele Zinato) e All you can eat (Nino Aragno, 2021, nota di Laura Pugno). Le sue opere sono tradotte in inglese, francese, giapponese, spagnolo, sloveno, tedesco, arabo e svedese.