LA MESSA A TERRA

di Giorgiomaria Cornelio

Pubblico a SPAM! foto di Massimo Bianchini
Pubblico a SPAM! foto di Massimo Bianchini

C’è un avvio, in una poesia di Edmond Jabès, che risuona così: «Ho lasciato una terra che non era la mia, / per un’altra, che più non è». Mi sembra, nel provare a gettare qualche considerazione su poesia e performance, di muovermi con questo andamento. Una terra che non è la mia… Chi può dire infatti di possedere la terra della poesia, che resta inappropriabile, fosse solo per la definizione dei suoi confini? Non genere, non letteratura, ma ogni volta punto di riapertura del linguaggio, riaffioramento o insurrezione di tensioni volte a rimettere in discussione (in baccano) i fondamenti stabili, i legami usurati di senso, le grammatiche, gli automatismi quotidiani.

La performance, dall’altra parte, non è, o già non è più. In altre parole: non costituisce una terra salda, una terra perenne, sulla quale si può costruire con fermezza. Passa. Trascorre. Abita il proprio dileguare. Ne gode, persino.

Così parrebbe che ciò che unisce poesia e performance sia sempre un rapporto di evanescenze, “saldato” (una volta per tutte?) in quel gesto di Emilio Villa dello scrivere poesie su sassi che poi lanciò nel Tevere, e che Nanni Cagnone così definì: «un rito, l’opera scarna e non veduta di un credente, di un intrepido amico del chaos».

Ciononostante, oggi questa risposta mi pare in parte inadeguata, o perlomeno non più così coraggiosa se confrontata con la prova del tempo in cui viviamo. Vorrei tentare piuttosto di considerare il rapporto tra poesia e performance come la messa in campo, o meglio, la messa a terra del proprio fare poetico. Leggiamo: «la messa a terra è l’insieme di azioni e sistemi preordinati a far scaricare sul terreno il potenziale elettrico di elementi metallici che si trovino a contatto con un dispositivo elettrico». Che la messa a terra sia fondamentale nelle operazioni che precedono l’esecuzione di un’opera di teatro di poesia all’aperto (come molte di quelle che ho vissuto in questi ultimi anni di Fumi della Fornace), fa di questo accostamento una figura per me particolarmente operativa.

In ambito elettrotecnico, dunque, la messa a terra consiste nel sistema che consente a un eccesso di potenziale di scaricarsi nel terreno, impedendo che la tensione accumulata si traduca in pericolo. Le parti metalliche non attive di un impianto elettrico, che possono caricarsi accidentalmente, vengono collegate al suolo attraverso conduttori condizionati. Così l’energia in eccesso trova un passaggio sicuro per dissiparsi, senza causare danni irreversibili. Questo gesto tecnico, benché costruito per motivi di sicurezza, può essere considerato anche dal punto di vista della sua forma: un dispositivo di dissipazione del potenziale che accoglie l’eccesso, lo guida e lo trasforma.

La poesia, quando si confronta con il proprio dire incarnato – quando si fa atto di restituzione performativa di fronte a un pubblico – si comporta come un sistema attraversato da numerose tensioni. Lasciando da parte la considerazione della pagina stessa come zona performativa, è nel momento in cui la poesia è provata da questa esperienza di restituzione di fronte a un pubblico che possiamo avvertire chiaramente come un tale accumulo di tensioni (le immagini compresse, la memoria sedimentata, gli squilibri ritmici, le riottose contraddizioni semantiche) abbia bisogno di scaricarsi. La performance rappresenta allora la messa a terra del portato poetico, che dovrebbe garantire la giusta dissipazione dell’energia, e tuttavia, a differenza del sistema elettrico, questa messa a terra non avviene quasi mai in un suolo omogeneo. La poesia scarica il proprio potenziale su un terreno che è instabile, dissestato, agitato da contraddizioni, come appunto è quello della performance, o del teatro di poesia.

Sempre in ambito elettrotecnico, un terreno non omogeneo (con zone asciutte, rocce, materiali isolanti, aria) può avere una resistenza elettrica molto alta o irregolare; l’energia in eccesso (corrente di guasto) fatica a fluire verso terra, perché incontra “ostacoli” elettrici. Se la corrente non si disperde bene nel terreno, la carcassa metallica può rimanere parzialmente in tensione, con il rischio che chi la tocca prenda una scossa elettrica.

Allo stesso modo, ogni messa a terra poetica è un gesto di pericolo, tanto per chi la esegue quanto per chi la subisce. Questa condizione – questa oscillazione tra dissipazione e folgorazione – non rappresenta un difetto della poesia, ma una forma operativa della sua verità. Saper condurre il proprio portato energetico, ovvero far coincidere il portamento delle parole con quello della propria vita, è compito difficilissimo; la consegna della carica avviene in un ambiente che potrebbe non assorbirla. Per questo è assai più frequente, mi sembra, che l’energia venga malamente dispersa, senza sortire effetti che non siano, nel pubblico, quelli dell’indifferenza. Quanti reading finiscono così! Alcune volte, invece, l’eccesso – la corrente di guasto – compromette la stabilità dell’intero sistema, fino alla sua distruzione quasi irreparabile; è qui che si dice, allora, che la poesia arrivi a bruciare.

Proprio perché votato a questo doppio pericolo – la futile dispersione, l’eccesso che guasta – molti poeti preferiscono oggi ricoverare la poesia nella sola pagina, o usare il libro – anche nelle presentazioni pubbliche – come una specie di isolatore. Evitando quasi del tutto la messa – a terra, in prova – della propria scrittura, non c’è possibilità di far circolare l’energia che nel libro sta come tensione compressa, potenziale trattenuto, carica senza varco. Ne scrisse così Ida Travi (era appena iniziato il 2000) ne L’aspetto orale della poesia: «è evidente che la via orale di trasmissione di un testo chiede un distacco dal libro. Non si tratta di una lettura ad alta voce, si tratta di riattivare un nuovo-antico sistema di relazione. Il poeta memore di vivere nella collisione tra oralità e scrittura può tornare a farsi mezzo. Il memore, o colui che ricorda, può scegliere se stanziarsi nel testo scritto o uscirne, almeno ogni tanto, riaffidandosi al suono della voce».

Nel pericolo di questo distacco dal libro, nella precaria messa a terra del testo di fronte a un pubblico risiede allora una verità della scrittura che la costringe, finalmente, a uscire in vita.

 

Giorgiomaria Cornelio

Giorgiomaria Cornelio (1997) è poeta, regista, curatore del progetto Edizioni volatili e redattore di Nazione indiana. Ha co-diretto la Trilogia dei viandanti (2016-2020), presentata in numerosi festival e spazi espositivi. Suoi interventi sono apparsi su L’indiscreto, Doppiozero, Antinomie, Il tascabile e altri. Ha pubblicato La consegna delle braci (Luca Sossella editore) e La specie storta (Tlon edizioni). È il direttore artistico della festa della poesia “I fumi della fornace”. Nel 2025 ha pubblicato “L’ufficio delle tenebre” (Edizioni Tlon)