Attraversare il presente. Appunti sul teatro come spazio di domande

di Veronica Cruciani

"Tina e Alfonsina", testo di Claudio Fava, regia di Veronica Cruciani, con Aglaia Mora e Francesca Ciocchetti. Foto di Antonio Parrinello
“Tina e Alfonsina”, testo di Claudio Fava, regia di Veronica Cruciani, con Aglaia Mora e Francesca Ciocchetti. Foto di Antonio Parrinello

Nel dibattito sul ruolo pubblico dell’arte, e in particolare del teatro, torna ciclicamente la domanda che spesso suona più come una richiesta di legittimazione che come una vera riflessione: il teatro è in grado di incidere sulla realtà? Può intervenire nel dibattito pubblico e orientarlo o modificarlo?
La mia risposta è duplice, come spesso accade quando si ha a che fare con i linguaggi della scena: sì, ma anche no. Pensare al teatro come a uno strumento che deve dimostrare la propria efficacia in termini politici rischia di ridurlo a una funzione, di cancellarne la natura profonda, quella di essere un gesto gratuito, una finzione che si rivela più vera del reale.
Il teatro è un’illusione capace di spostare lo sguardo, di rendere visibile ciò che normalmente resta nell’ombra. È questo slittamento, questa messa a fuoco laterale, che può incidere. Non nel senso di una soluzione, compito che spetta, semmai, alla politica, ma nel senso di una domanda radicale rivolta al presente. Ogni spettacolo è un atto di fiducia: affido pensieri, emozioni, domande a chi guarda, e poi spetta a loro, al pubblico, al mondo, decidere che cosa farne.
La mia realtà, quella in cui opero, è fatta di corpi nello spazio, di sguardi che si incontrano, di comunità effimere che si formano e si sciolgono nel tempo di una rappresentazione. È lì che si produce un’azione sul reale. Come generazione di consapevolezza, come attenzione rinnovata.
Quando ho cominciato, il mio lavoro era radicato nell’ascolto dei contesti, nella relazione con il territorio. Non era soltanto una scelta stilistica, ma un’urgenza esistenziale e politica. In Il Ritorno, il punto di partenza è stato un lavoro d’inchiesta sul campo, da cui è emersa una trama intima che si intrecciava alle fratture sociali del nostro tempo: lo spaesamento, il fallimento dei modelli familiari. In Accabadora, invece, ho scelto di lavorare su un romanzo già scritto, ma capace di contenere in sé, con forza e delicatezza, questioni profondamente politiche: il diritto alla morte, il peso della cura, il conflitto tra tradizione e autodeterminazione.
Sono stati anni di costruzione paziente, in cui ho scelto testi che nascevano da un’urgenza reale, capaci non solo di raccontare ma di trattenermi nel presente, costringendomi a confrontarmi con le sue contraddizioni, le sue fratture, la sua complessità non pacificata.
Quella necessità non si è esaurita, ma ha mutato forma. Se oggi l’indagine diretta non rappresenta più il mio punto di partenza, è perché il mio percorso sta attraversando una fase diversa, come accade naturalmente nel lavoro di ogni artista.
Ho sentito il bisogno di spostare lo sguardo, di non rimanere vincolata a un’unica direzione, di esplorare altri territori. Continuo a occuparmi di questioni politiche, ma cerco strade meno evidenti, più sottili. Mi interessa ciò che si muove sotto la superficie: la solitudine, la relazione, l’identità, la fragilità, le strutture del linguaggio stesso. Temi che non sempre trovano spazio nel discorso pubblico, ma che non per questo non sento urgenti.
È in questa direzione che si colloca il mio lavoro su I creditori di Strindberg, dove ho affrontato le dinamiche di potere all’interno della coppia, l’ambiguità emotiva, il desiderio di possesso mascherato da affetto.
Anche in The Trials di Dawn King, testo ambientato in un futuro distopico in cui un gruppo di adolescenti giudica la generazione precedente per i crimini ambientali commessi, pur non essendo una mia drammaturgia, il metodo che ho adottato con gli attori nasce esattamente dagli anni delle interviste sul territorio e delle inchieste che costituivano la base dei miei primi lavori.
Quegli strumenti, l’ascolto profondo e l’aderenza alle verità individuali, li ho applicati non tanto alla scrittura quanto alla recitazione. Sono pratiche che non mirano a restituire un documento, ma a creare condizioni di verità nel lavoro dell’attore.
Quando ho portato in scena Il tempo delle stelle, liberamente tratto da un romanzo di Massimiliano Virgilio, ho sentito il bisogno di spostare la riflessione sulla maternità non più nel campo della rivendicazione, ma in quello della domanda sospesa, del vuoto, dell’impossibilità.
Allo stesso modo, con Molto rumore per nulla, ho lavorato su Shakespeare non solo per attualizzarlo, ma per far emergere le contraddizioni profonde dei personaggi e restituire parola a chi ne era stato privato. Il personaggio di Ero, nel testo originale, dopo l’accusa ingiusta ricevuta nel giorno del suo matrimonio, sprofonda in un silenzio che pare definitivo. Nel mio adattamento ho voluto che quel silenzio venisse abitato e trasformato.
Insieme a Lodo Guenzi abbiamo scritto un monologo che restituisce parola a chi, nella versione originaria, era condannato alla colpa e al silenzio. Ho scelto di eliminare il personaggio del fratello di Leonato e di inventare quello della moglie, che in Shakespeare è presente ma non parla. Nel mio adattamento, è lei a confrontarsi nel finale con Claudio e Don Pedro, in un dialogo acceso che mette a nudo i limiti di un mondo maschilista e infantile, che quei personaggi rappresentano e difendono dietro una facciata di leggerezza.
E allora, il teatro può davvero incidere sul dibattito pubblico?
Sì, ma non nei modi che spesso ci si aspetta. Non con la forza delle risposte, ma con la profondità delle domande. Non offrendo soluzioni, ma aprendo crepe. Il teatro non interviene sul presente per spiegarlo: lo attraversa, lo mette in dubbio, lo scardina. E proprio in questo atto di messa in crisi, mai neutrale, mai innocuo, può generare uno spostamento nella percezione collettiva.
Il teatro è una possibilità. Se rinunciamo all’idea che il teatro debba essere “utile” secondo parametri esterni, come la visibilità e il consenso, possiamo riconoscerne la forza profonda: quella di creare zone di ascolto e di pensiero.
Il teatro agisce quando si assume come spazio non addomesticabile, quando difende il diritto all’irrisolto e al conflitto.
In questo senso, sì: fare teatro oggi, per me, è ancora un gesto politico. Proprio per questo, continua a essere un atto capace di incidere.

 

Veronica Cruciani

Veronica Cruciani è regista e attrice, diplomata alla Civica Scuola di Teatro Paolo Grassi di Milano. Nel 2004 fonda la Compagnia Veronica Cruciani, con cui conduce un’indagine sul rapporto fra memoria e drammaturgia contemporanea. Premio Hystrio alla regia 2022, Premio Hystrio-Anct 2012 dell’Associazione nazionale dei critici italiani per il percorso artistico maturato negli anni. Premio della Critica miglior testo italiano 2008 per Il ritorno di Sergio Pierattini. Finalista attrice U35 Premi Ubu 2003 con Le nozze di Antigone regia di V. Cruciani e A. Cirillo, di Ascanio Celestini. La sua intensa attività di regista e produttrice la porta a lavorare su tutto il territorio nazionale, dal Teatro di Roma – Teatro Nazionale, ERT – Emilia Romagna Teatro Fondazione, Teatro Carcano di Milano, TPE – Teatro Piemonte Europa, Stabile del Friuli Venezia Giulia, Stabile di Catania, Sardegna Teatro. Le sue ultime regie sono La Febbre di W. Shawn con Federica Fracassi e La Dodicesima notte di Shakespeare prodotta dallo Stabile del Veneto. Dal 2013 al 2019 è stata Direttrice artistica del Teatro Biblioteca Quarticciolo del Comune di Roma.