AI e polarizzazioni

di Milena Brusco

A Recent Entrance to Paradise, immagine di Dabus, generata con l’intelligenza artificiale (qui in b/n)

“L’IA consiste in una famiglia di tecnologie in rapida evoluzione che contribuisce al conseguimento di un’ampia gamma di benefici a livello economico, ambientale e sociale nell’intero spettro delle attività industriali e sociali”. Così sono definiti i sistemi di intelligenza artificiale dall’AI Act, approvato il 13 giugno 2024 con lo scopo di armonizzare la regolamentazione dell’uso dei sistemi di intelligenza artificiale in Europa. Una formulazione così evanescente, che evita la definizione e sceglie piuttosto di identificare l’AI attraverso ciò che è in grado di fare, pone l’attenzione su un dato innegabile: il suo impiego su larga scala è la novità che, nei prossimi anni, sarà in grado di dare forma al nostro quotidiano in modo significativo. Sono diversi gli interrogativi che si pongono a seconda delle modalità di utilizzo e del campo di applicazione. Nelle brevi considerazioni che seguono si cercherà di dar conto delle controversie legate all’utilizzo dei sistemi di intelligenza artificiale generativa nel settore della produzione culturale e del rapporto tra AI-generated works e proprietà intellettuale.

Possiamo pensare alle cosiddette generative AI come a dei sistemi basati sull’impiego di tecnologie di machine learning, data mining e processi di addestramento denominati training, in grado di produrre contenuti dotati di un certo grado di originalità. Si compongono generalmente di due network che lavorano in sinergia al fine di produrre outputs non ripetitivi, attraverso una funzione di produzione e una funzione valutativa e di controllo, che imita un agire più tipicamente umano. Ciascuna rete assolve uno specifico compito e ogni network aggiunto può valutare la sussistenza di un ulteriore requisito come – per fare un esempio attinente alla produzione artistica – la novità, la presenza di contenuti ritenuti osceni, l’impatto sull’emotività generato tramite associazioni semplici che l’AI è in grado di aggregare per generare associazioni complesse.

Le fasi di training e di produzione sono entrambe potenzialmente rilevanti per il diritto d’autore, con riguardo da un lato alla possibile violazione del copyright per i materiali utilizzati nell’addestramento e dall’altro all’applicabilità della tutela ai risultati prodotti. Poiché il diritto d’autore tutela le produzioni dell’ingegno che presentano un certo grado di impegno creativo e originalità, l’interrogativo principale è: i prodotti dei sistemi di intelligenza artificiale possono essere considerati creativi e originali?

In questo panorama si alternano posizioni a favore di una completa assimilazione e altre che relegano al pubblico dominio le opere generate dalle AI. Se ci si approccia alla questione partendo dall’idea secondo cui il cervello umano è in grado di attuare un processo creativo “non mimabile” dalla macchina, il rischio è quello di finire in un loophole, in cui alla rassicurante quanto sterile affermazione di superiorità dell’agire umano si contrappongono argomentazioni di carattere tecnicistico. In un caso e nell’altro si rischia la polarizzazione delle opinioni, le quali finiscono per attestarsi su posizioni che negano integralmente quelle opposte. Da un lato si nega la capacità dell’AI di generare risultati equiparabili alle produzioni artistiche umane, dall’altro si sostiene il contrario. Tuttavia entrambe le posizioni, nel loro integralismo, finiscono spesso col prospettare soluzioni svantaggiose per gli artisti e vantaggiose per i fruitori, oppure, nella peggiore delle ipotesi, vantaggiose esclusivamente per i mercati, finendo per schiacciarsi su una logica puramente liberista.

A differenti biforcazioni si giunge invece se si percorre il sentiero a ritroso, muovendo dal prodotto finale per poi interrogarsi sull’efficacia del processo. È innegabile che l’attività creativa spesso muova da un errore, da una capacità di rilettura del reale maturata alla luce di esperienze di vita personalmente elaborate, da una singolare capacità empatica, componenti che la macchina allo stato attuale non è in grado di imitare. Allo stesso tempo però il più delle volte è difficile distinguere l’opera prodotta dal software da quella prodotta da un umano – ciò appare particolarmente evidente per le immagini generate dalle AI o per le composizioni prodotte “nello stile di” – e altrettanto frequentemente ci si imbatte in opere che, se composte da un essere umano, sarebbero state protette da copyright. Quando ci si riferisce al risultato, diventa più difficile negare che l’AI sia in grado di produrre outputs che soddisfino lo standard di originalità richiesto per l’applicazione della tutela accordata dal diritto d’autore, volutamente settato da molti legislatori ad un livello basso, in modo da garantire una protezione più estesa.

Muovendo da queste considerazioni, l’una e l’altra posizione rivelano la loro portata limitata. Si rende utile allora una valutazione di opportunità che consideri l’adeguatezza e le conseguenze di tale attribuzione, anche se, pure in questo caso, è facile cadere nella trappola del tutto o niente. A sostegno della tesi che vuole questa categoria di opere protette o proteggibili dal copyright, si invoca l’argomento dello sviluppo tecnologico che ne sarebbe favorito e la circolazione delle idee su più larga scala, fattori in grado di favorire il progresso sociale. Questa scelta di campo poi ripagherebbe gli investitori per le spese sostenute e i finanziamenti alla ricerca scientifica, favorendone di più ampi. Non da ultimo, è da tenere in conto il senso di sproporzione se si considera che un selfie di pessima qualità prodotto da un essere umano senza alcuna velleità artistica venga tutelato e un’opera in grado di suscitare quantomeno un certo appagamento estetico come A Recent Entrance to Paradise (di Dabus) sia priva di tutela perché generata da un’intelligenza artificiale.

Considerando l’altra faccia della medaglia, si deve però tenere da conto la capacità dell’AI di produrre opere a una velocità infinitamente maggiore rispetto a quella umana, e il fatto che gli artisti in questo panorama ne uscirebbero non solo sconfitti, ma addirittura spazzati via dall’abilità della macchina di processare una quantità di stimoli pressoché illimitata in unità di tempo estremamente ridotte.

Parlando di intelligenza artificiale, una prospettiva di osservazione polarizzata risulta in ogni caso fallace: che si scelga di argomentare l’una o l’altra posizione, si rischia di finire aggrovigliati in un gomitolo di controindicazioni, prospettando soluzioni il più delle volte a svantaggio delle categorie più vulnerabili.

In un caso, infatti, si attribuirebbe tutela alle opere prodotte dai nostri più grandi competitor introdotti da noi stessi sul mercato; per contro ignorare il fenomeno comporterebbe una serie di conseguenze devastanti: una marea di opere confluirebbe nel pubblico dominio, inondando il mercato di contenuti potenzialmente infiniti, di facile reperibilità e a basso costo. Chi guadagna dallo sfruttamento dei prodotti culturali potrebbe essere ben lieto di liberarsi in un sol colpo dei diritti di sfruttamento economico, dei diritti morali, del droit de suite e dei diritti connessi dei performers. Egualmente un fruitore poco attento potrebbe scegliere la strada più semplice per accedere ai contenuti culturali: perché, ad esempio, il proprietario di un locale dovrebbe pagare i diritti d’autore a compositori ed esecutori se può chiedere ad un’AI di generare ore di playlist di un certo genere musicale, senza incorrere in nessuna sanzione e garantendo un contenuto originale, gradevole e non ripetitivo?

Per svincolarsi dalla logica binaria e provare a cogliere le opportunità che l’AI garantisce senza creare un impatto devastante, occorre muoversi su tre fronti differenti: quello del legislatore, quello dell’artista-utilizzatore e quello del fruitore.

Il primo punto riguarda il legislatore, che dovrebbe concentrarsi su quale interesse viene tutelato, sulla sua “meritevolezza”, mantenendo come fine ultimo il progresso umano. Da questo punto di vista la salvaguardia delle categorie più a rischio sembra essere un obiettivo primario, così come l’accesso al progresso tecnologico, libero ed eguale, svolto nel quadro della tutela dei diritti umani.

Il secondo auspicio riguarda il comportamento consapevole dell’artista-utilizzatore, fondato su buone pratiche condivise. Nell’ambito della produzione culturale, è oramai atteggiamento diffuso nelle corti nazionali (si veda la Cina in primis, ma non solo) quello di riconoscere tutela ad opere in cui l’intervento dell’AI si sia sostanziato in un ausilio alla creatività umana. La comprensione delle modalità di funzionamento può portare quindi a un utilizzo consapevole dei contenuti processati, del loro regime di tutela, del grado di rielaborazione, in modo che ogni artista possa scegliere di modellare attraverso un’azione umana il prodotto finale, massimizzando i benefici offerti dalla macchina senza mai rendere ipotizzabile la sostituzione dell’uomo nell’azione artistica.

Infine, di centrale importanza è l’utilizzo consapevole ed etico del fruitore. Noi tutti, nel nostro quotidiano ci troviamo di fronte a scelte che appaiono trascurabili, ma che non lo sono. Così come, in precedenza, reperire materiale cinematografico, letterario o musicale pirata ha rappresentato una scelta contraria agli interessi degli autori o dei performers, così oggi un utilizzo non etico dell’intelligenza artificiale rappresenta un passo nel processo di appiattimento della produzione culturale che rischia di vedere la presenza degli artisti, specialmente di quelli afferenti a settori non in grado di smuovere grandi capitali, sempre più compromessa. Anche l’utilizzatore dovrebbe sempre tenere a mente il fine ultimo intorno a cui è auspicabile che ruoti la fruizione dei contenuti culturali: non un semplice ed effimero benessere personale, ma il progresso di tutti e la salvaguardia della libertà di espressione, garantita solo da un uso collettivo consapevole delle tecnologie di intelligenza artificiale.

 

 

Milena Brusco

Milena Brusco è ricercatrice nella Sezione di Storia del diritto italiano dell’Università La Sapienza di Roma. Collabora con le cattedre di Storia del diritto medievale e moderno e di History of European law. Si interessa di storia del diritto d’autore, con attenzione ai rapporti tra diritto e cultura nella tradizione giuridica europea e agli sviluppi contemporanei del diritto positivo. (Ha curato l’editing e il proofreading del volume di L. Moscati, Tools and Perspectives in Authors’ Rights dedicato alla storia del diritto d’autore tra common law e civil law.)