Regaleremo il voto alle macchine? Dall’eminenza grigia al manovratore digitale
di Monica Di Sisto

“Se convertirai agli studi il tempo che avrai saputo sottrarre ai doveri pubblici, non avrai disertato né ti sarai sottratto al tuo servizio. Infatti non milita soltanto chi è sul campo e difende l’ala destra e quella sinistra, ma anche chi sorveglia le porte e si vale di una postazione meno pericolosa, ma non certo oziosa, e osserva i turni di guardia e ha la responsabilità dell’arsenale; i quali compiti, benché siano incruenti, sono nel novero dei servizi militari”. Lucio Anneo Seneca (1), filosofo e spin doctor di Nerone, si trovò ad affrontare le crudeli bizzarrie del suo imperatore, tra le quali, a fine carriera, l’ordine di suicidarsi. Prima di quel tragico momento, meditando il proprio ritiro, nel saggio Sulla tranquillità dell’anima Seneca regalò alla cultura politica occidentale il valore stoico dello stratega di retroguardia. Chi rifletteva sulla sfera pubblica, all’epoca lo faceva affidando a scritti conseguenti le proprie teorie, da discutere tra pari. Nella sua De re publica Cicerone, cent’anni prima di Cristo e di Seneca, aveva sancito che la salvezza dello Stato romano risiedeva nel giudizio e nella volontà dei cittadini, ma già Tacito, meno di cent’anni dopo Cristo, mostrava rimpianto per quel protagonismo: “Il popolo romano – scrive negli Annali – una volta era signore, ora è suddito”. Così, per provare a uscire vivo dalle dinamiche di corte, senza rinunciare a un ruolo in politica, Seneca indicava al saggio, come alternativa al disimpegno, la via del corridoio.
La politica occidentale storicamente polarizzata
La polarizzazione delle diverse posizioni nella vita politica non è un’invenzione dei nostri giorni né una conseguenza dei social media. La politica occidentale, fin dai suoi albori nella scena pubblica romana, è stata dominata da manovratori e faccendieri che massimizzavano i media dell’epoca: con l’oratoria infiammavano l’opinione pubblica, dai più bassi livelli, nel foro, fino alle aule dei tribunali e del Senato, fino ai sussurri nei meandri dei palazzi imperiali. Pensiamo alla congiura contro Cesare, l’espansione dell’Impero con Augusto, il suo ripiegamento sulle dinamiche di corte con Ottaviano e Claudio, a colpi di tradimenti e veleno: tutto veniva dibattuto e commentato con salaci scritte murali, in poesia, con spettacoli circensi e a teatro, dal proscenio oppure sotto mentite spoglie. Erano i media più efficaci dei tempi. Le voci, in campo e fuori, erano quelle dei capi e dei loro mentori. Di quella del popolo non ce n’è quasi traccia, fino ai pescatori, falegnami, esattori, madri e prostitute travolte in Galilea dal ciclone Gesù di Nazareth, immortalati dalle cronache orali che costituiranno la base del suo culto.
Trascritte su papiri, che viaggeranno veloci con i suoi primi testimoni, poi codificate su pergamena e distillate in testi sacri: le voci di popolani e re che lo incontrano diventano storia al punto da segnare un anno zero, un prima e un dopo. È lui, Cristo di Nazareth, il primo megafono del popolo: con la parabola, storiella che trascina nel quotidiano decisioni trascendenti come quella di seguire “dio o mammona”, cioè le ragioni della vita eterna o quelle della ricchezza, Cristo cambia la narrativa pubblica dando del “fariseo” a chi seguiva una vita, diremmo oggi, “laica” pur rispettando le tradizioni ebraiche. Cristo scatena tra i suoi coevi un tale senso di non ritorno, da far preferire loro il martirio pubblico alla decadenza tardo-imperiale. Eppure, per paradosso, è proprio nella sua chiesa che si raffina l’arte di Seneca dell’eminenza grigia: quella figura da retropalco che, dalle quinte, legge la dinamica scenica e suggerisce la parte a papi, re e interi popoli di credenti.
La scoperta dell’opinione pubblica
Perché l’opinione pubblica, e le sue torsioni, trovino voce e peso sulla scena pubblica, bisognerà attendere la metà del Settecento quando Jean-Jacques Rousseau ne Il contratto sociale (1762), distinguerà tra la volontà generale e le opinioni individuali, anticipando il ruolo dell’opinione pubblica come motore di mediazione tra le due tensioni. I mezzi di diffusione di queste nuove sintesi sono le gazzette, strillate in strada, gli spazi sono i salotti nobili e i borghesissimi caffè. In Italia, ai primi del Novecento i nuovi opinionisti e la loro fama peseranno su decisioni epocali: pensiamo al neutralismo di Giovanni Giolitti azzerato nella orazione interventista di Gabriele D’Annunzio a Quarto dei Mille, che sospinse l’Italia nel “maggio radioso” della Prima Guerra mondiale, ritratto a colori nelle copertine delle riviste popolari. Ogni passaggio di fase politica è sospinto da un’evoluzione comunicazionale. Ricordiamo, con ancora maggior inquietudine, i “tempi delle decisioni irrevocabili” con cui Mussolini sprofondò il Paese nella tragedia della seconda sconfitta mondiale. Tra gli applausi di migliaia di suoi sostenitori che lo idolatravano accalcati in piazza Venezia, mentre ancora più persone aderivano alla sua visione dalla radio pubblica, tra le principali innovazioni tecnologiche di quegli anni, capitalizzata sapientemente come principale veicolo di propaganda insieme ai cinegiornali dell’Istituto luce.
La sintesi raggiunta, dopo la Seconda Guerra mondiale, tra centro e sinistra democratici con la destra post-fascista nella stesura del testo della Costituzione repubblicana, non durò molto: il più rilevante tessitore di retropalco del secolo precedente, il leader Dc Giulio Andreotti, in una serie di volumi dal titolo malizioso, “Onorevole stia zitto”, raccontò i momenti topici di quell’epoca attraverso le intemperanze dei parlamentari. Del togliattiano Giancarlo Pajetta, Andreotti ricordava l’abilità nel colpire con precisione i colleghi parlamentari, lanciando il calamaio dall’altra parte dell’emiciclo. In occasione dell’adesione dell’Italia alla Nato, nel 1949, il cui voto durò tre giorni e tre notti tra cori, bestemmie, scazzottate e ostruzionismo per la contrarietà del Pci, fece storia il suo volo, che gli valse il soprannome di “giaguaro” sui banchi della presidenza, dove atterrò su un esasperato Terracini, già presidente dell’Assemblea Costituente (2). A testimoniare una polarizzazione ben presente, con strali reciproci affidati alla cartellonistica, alla stampa di partito e alla nascente tv.
La politica screditata, dalla tv commerciale ai social media
Pier Paolo Pasolini, tra le voci più alte e controverse negli anni Settanta, in uno dei suoi numerosi j’accuse dalle colonne del Corriere della Sera ripeteva, come in un mantra, che «I cittadini italiani vogliono consapevolmente sapere perché in questi dieci anni di cosiddetto progresso la ‘massa’, dal punto di vista umano, si sia così depauperata e degradata. I cittadini italiani vogliono consapevolmente sapere perché in questi dieci anni di cosiddetto laicismo l’unico discorso laico sia stato quello, laido, della televisione (che si è unita alla scuola in una forse irriducibile opera di diseducazione della gente)» (3). Pasolini sembrava intravedere come la televisione pubblica, che aveva pure apportato un decisivo contributo all’alfabetizzazione di massa degli italiani, sarebbe stata gradualmente travolta. Il sociologo Alberto Abruzzese, negli anni Novanta, indicò nel pamphlet Elogio del tempo nuovo. Perché Berlusconi ha vinto, la vera “rivoluzione culturale” del dopoguerra: la televisione commerciale di Silvio Berlusconi. Mediaset, trasformando la politica in spettacolo, le tribune politiche in infotainment, richiedeva alla politica di comprendere i nuovi linguaggi per curare una connessione sentimentale credibile, non caricaturale, con il più vasto pubblico, pena una perdita irrimediabile di credibilità.
Con l’avvento dei social media e l’approdo in quegli spazi dei partiti e dei leader politici, con una logica della rappresentanza che da proporzionale era diventata maggioritaria, esplode l’inadeguatezza della politica italiana alla complessità dei propri tempi, già evidente da fine anni Novanta. Mentre trionfa un “premierismo salvifico” dai profili quasi caricaturali, alle figure “di retropalco” che influenzano la vita pubblica dal “mondo di mezzo”, si affiancano degli acceleratori digitali. A seconda della piattaforma nella quale ci si muove, gli algoritmi rispondono orientando i consumi informativi, e le sensibilità politiche di cittadine e cittadini, pettinando le proprie convenienze commerciali. L’obiettivo è comune a tutti i social: esporre gli utenti a quanti più minuti possibile di pubblicità pagante e opportunità d’acquisto. Chi più litiga, più digita, scrolla, condivide e assorbe propaganda. Gli utenti diventano, così, a loro volta creatori di contenuti, attraendo interazioni di persone con i propri stessi interessi, o di altre mosse dalla pulsione di criticarne capacità o convinzioni. L’opacità nella costruzione del consenso ai tempi degli algoritmi – dalla cosiddetta ‘bestia’ a servizio del leghista Matteo Salvini ai motori di like per il M5S della Casaleggio Associati – è tanto evidente quanto difficile da indagare, perché protetta da proprietà intellettuale. Per esperienza diretta, ma anche grazie alla ampia messe di studi prodotta a riguardo, sappiamo che, al netto delle parti, X di Elon Musk trattiene gli utenti stimolandone le discussioni, mentre Facebook e Instagram di Mark Zuckerberg tendono a stimolare quelle che Eli Pariser già dieci anni fa definiva “bolle-filtro” (4). Gli utenti vengono esposti principalmente a contenuti che rafforzano, per affinità o contrasto, le loro convinzioni rendendo, nel tempo, sempre più difficile per le persone, dentro e fuori le piattaforme, trovare un terreno comune su temi cruciali, come la politica estera, l’immigrazione, i diritti civili e le politiche economiche.
Chi comanda nell’infosfera
Il sociologo Michele Sorice (5) ha condotto nel 2021 una revisione degli studi sull’influenza dei social media sulla polarizzazione del dibattito pubblico italiano, per analizzarne gli effetti sulla democrazia e sullo spazio pubblico. Uno dei fenomeni algoritmici più evidenti è la veicolazione attraverso identità digitali fittizie, i cosiddetti bot, di fake news e campagne di segnalazione massiva per squalificare convinzioni opposte. L’aspetto più pericoloso, a suo giudizio, sta nel fatto che la polarizzazione alimentata dai social media ha cristallizzato uno spettacolo pubblico dove le battaglie ideologiche sono sempre più condotte attraverso la provocazione e il conflitto. Questo cambiamento ha indebolito la politica come processo di mediazione e compromesso, privilegiando una logica da reality show, dove l’obiettivo non è risolvere i problemi ma vincere a tutti i costi. Si tratti di un derby, le elezioni, un divorzio, una guerra, poco importa nella cosiddetta “infosfera” – ecosistema comunicativo formato da dati informatici, attori dell’informazione, nonché da pratiche comunicative e procedure organizzative interdipendenti, dal delivering di merci e servizi, all’amore, alla cura della propria salute fisica e mentale.
Viene cancellata la vecchia, semplicistica, distinzione fra reale e virtuale, ma la materialissima concentrazione societaria dell’impero delle piattaforme continua a esercitare un’influenza, quasi di necessità, nella sfera pubblica, privata, materiale e immateriale contemporanea. Accade, così, che tutti gli azionisti di maggioranza dei principali colossi digitali si auto-istituiscano al governo statunitense, con ingenti contributi alla corsa di Trump alla presidenza. E che il consenso, come segnala il sociologo Giovanni Boccia Artieri, venga alimentato con l’utilizzo massivo e incontrollato dello shadow banning: censura invisibile che opera non eliminando i contenuti dalle infosfere, ma rendendoli praticamente impercettibili nel flusso della discussione pubblica (6).
Questa manipolazione intangibile, ma evidente nelle dinamiche democratiche, rischia di avere un effetto collaterale decisamente inedito: la resa del cittadino disilluso al manovratore algoritmico, cui affidare poteri decisionali, politici e governativi, voto compreso. Un’indagine condotta dall’Università della Georgia, ad esempio, ha rivelato che le persone tendono a fidarsi degli algoritmi più che degli esseri umani, soprattutto quando i compiti diventano complessi (7). Un sondaggio globale condotto da Kpmg ha rilevato che il 64% delle persone si fida più di un robot che del proprio manager, con una preferenza marcata per l’intelligenza artificiale nelle decisioni riguardanti la gestione delle risorse umane (8). Un sondaggio condotto dal Center for the Governance of Change dell’IE University ha evidenziato addirittura che il 59% degli italiani sarebbe favorevole a sostituire i parlamentari con sistemi di intelligenza artificiale. La media europea si attesta al 51%, con gli spagnoli che mostrano la maggiore apertura (66%) (9). Siamo pronti ad arrenderci al Grande fratello? Più che altro rischiamo di voler ignorare, per ignoranza o sfinimento, che dietro alla matematica oggettività degli algoritmi si nascondono, sempre, specifiche finalità economiche e commerciali di natura proprietaria e dalla forza feudale. Manovratori veri con braccia digitali, ma gli stessi appetiti di sempre.
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1. https://www.mauronovelli.it/SENECA%20De%20tranquillitate%20animi.htm
2. https://www.ilfoglio.it/articoli/2015/02/18/news/per-una-rissa-onorevole-81057
3. https://www.cittapasolini.com/post/pasolini-che-cosa-i-cittadini-italiani-vogliono-sapere
4. https://www.tandfonline.com/doi/full/10.1080/23808985.2021.1976070#d1e131
5. Comunicazione politica e polarizzazione” (2021)
6. fondazionefeltrinelli.it/pubblico/shadow-banning-controllo-invisibile-discorso-pubblico
7. https://www.futuroprossimo.it/2021/04/un-paradossale-studio-rivela-ci-fidiamo-degli-algoritmi-piu-che-degli-umani
8. https://www.oracle.com/it/corporate/pressrelease/people-trust-robot-2019-10-18.html
9. www.corrierecomunicazioni.it/tech-zone/meglio-un-algoritmo-di-un-parlamentare-la-pensa-cosi-il-59-degli-italiani
Monica Di Sisto
Giornalista di Askanews, esperta di commercio internazionale. Ha insegnato Modelli di sviluppo economico alla Pontificia Università Gregoriana e Advocacy del Terzo settore al Master di comunicazione istituzionale dell’Università Luiss Guido Carli di Roma. È la vicepresidente dell’Osservatorio italiano su Commercio e Clima Fairwatch.