I vaccini e la materialità del senso comune

di Emma C. Gainsforth

I vaccini occupano un posto speciale nell’analisi di alcune tendenze attuali che riguardano un particolare fenomeno, quello delle polarizzazioni, che sembrano inevitabilmente contaminare con uno stile specifico le questioni che si pongono con urgenza nel discorso pubblico. Questo stile sembra generare spaccature nette, contrapposizioni semplificate che attraggono a sé sostenitori e contestatori, divisi in campi tipizzati e contraddistinti da una posizione chiara e per questo problematica. È indubbio che in questa dinamica la rappresentazione mediatica gioca un ruolo di prima piano nella misura in cui essa stessa diventa costitutiva dello stile: a poco valgono gli inviti al dialogo o alla discussione razionale se l’oggetto della contesa diventa la spaccatura stessa, la rappresentazione della parte avversaria, con i corollari che ciò comporta in termini di autorappresentazione, pretese di legittimità, rapporto con la conoscenza. Per questo nel caso dei vaccini, se partiamo dal recente dibattito sui vaccini anti-Covid-19, è interessante provare ad affrontare la questione con un altro piano di lettura che non contrappone favorevoli e contrari ma quanti hanno dubitato e quanti invece non hanno dubitato della loro efficacia. Sebbene i movimenti ostili all’obbligo vaccinale esistano da quanto esistono i vaccini, la pandemia da Covid-19 ha reso infatti evidente un nesso tra l’idea di normalità, definibile come ciò di cui normalmente non dubitiamo, e quell’“esitazione”, parola più diffusa nel mondo anglosassone in relazione al tema dei vaccini, dove è comune la dicitura «vaccine hesitancy» che non schiaccia il “popolo no-vax” immediatamente sulla negazione. Da questo punto di vista la questione può essere affrontata non andando direttamente alle prove scientifiche che dimostrano l’efficacia dei vaccini, il piano imposto dalle polarizzazioni, in cui ogni “dibattito” (o scontro) è formattato nei termini dei giudizi circa la veridicità di fatti ed eventi, spinto alla produzione di prove circa la reale esistenza di determinati fatti, ma evidenziando quello che sembra essere un tratto comune di molti fenomeni di contestazione che si contrappongono non a ciò che altri sostengono, ma a ciò che altri semplicemente tendono a non dubitare, a considerare non problematico, a ritenere abituale. Questo è il tratto antieconomico, per esempio, delle teorie del complotto, che hanno bisogno di produrre spiegazioni molto complicate che servono a tenere al riparo un evento da una spiegazione molto più semplice – o a collegare, tramite connessionismo, eventi su cui poter proiettare relazioni causali e un’idea di intenzionalità, cioè l’idea che ci sia un soggetto agente all’origine di un piano che serve quasi sempre a ingannare o a confondere. Queste forme di negazione hanno dunque un rapporto molto dettagliato con la conoscenza e anzi le persone che credono in teorie definite complottiste sono generalmente impegnate in attività di ricerca, documentazione, lettura… Dove il problema è che la conoscenza non spiega il dubbio: cioè se anche domani l’atterraggio sulla luna si rivelasse falso, non si spiegherebbe come mai questa teoria ha dubitato di questo evento e non di molti altri che potrebbero rivelarsi altrettanto falsi.
In Della certezza il filosofo Wittgenstein affronta il nesso tra certezza, dubbio e scienza postulando proprio che l’atto di credere preceda l’atto di dubitare. Potremmo dire che dubitare deve avere senso: generalmente non dubito di avere due mani, non dubito che la Terra esista da molto tempo, o di avere un cervello, anche se, scrive Wittgenstein, potrei essere operata e scoprire di avere una scatola cranica vuota. Il punto è che non ho ragioni a sufficienza per dubitare di cose di questo tipo in condizioni ordinarie. Queste affermazioni costituiscono infatti un senso comune che precede sia le strategie di fondazione e di legittimazione del sapere scientifico che il dubbio radicale dello scettico. Per Wittgenstein il linguaggio, a cui nasciamo, è innanzitutto un fare, e i bambini non imparano che i libri esistono, che le poltrone esistono, piuttosto, imparano a prendere il libro e a sedersi in una poltrona.

Quando durante la pandemia da Covid-19 e il lockdown abbiamo dubitato di cose di cui normalmente non dubitiamo – il supermercato sarà aperto? basteranno quelle scorte? il trasporto pubblico funziona? – si è dimostrata vera, in un certo senso, una critica rivolta a Wittgenstein, ovvero di non aver pensato a sufficienza la natura storica e sociale delle nostre abitudini, di quell’ovvietà che non fabbrichiamo isolatamente ogni volta da capo controllando per esempio che le regole della grammatica siano valide oggi come lo erano ieri. Durante la pandemia è divenuto evidente che questa normalità, che è sempre pubblica, che precede l’agire individuale perché ne costituisce le condizioni di possibilità, è fatta perlopiù di persone che lavorano e che si occupano di fare in modo che le filiere che smistano beni e servizi di cui abbiamo bisogno, che generalmente diamo per scontato, funzionino. La misura di questo rapporto tra ovvietà e misconoscimento lo comunicava l’espressione lavoratori essenziali, che sono i lavoratori in genere meno pagati e socialmente riconosciuti. Ora, se dovessimo intendere il senso comune come quel tipo di conoscenza diffusa e pubblica su cui facciamo costantemente affidamento, dovremmo persino postulare qualcosa che non siamo abituati a pensare, ovvero che la produzione di conoscenza appartiene a tutti i lavori, e che appartiene soprattutto ai lavori che sono in contatto con la base materiale del nostro senso comune.

Quando durante la pandemia ha acquisito visibilità il fenomeno dell’esitazione vaccinale, si riattivava un’esitazione in circolazione da alcuni anni e che viene generalmente fatta risalire alla pubblicazione nel 1998 di una ricerca, poi dimostrata falsa, che sosteneva ci fosse una relazione tra il vaccino MPR (morbillo-parotite-rosolia) e l’autismo. Il medico che la pubblicò perse la licenza e lo studio venne ritirato dalla rivista. Si tratta di un evento che è utile ricordare nella misura in cui l’esitazione vaccinale in questi decenni ha riguardato i bambini, non gli adulti. Legata chiaramente anche ad altri fattori. In primis, la diminuita fiducia nella scienza, che sta oggi chiaramente per una più generale crisi di legittimità delle istituzioni.
Il primo movimento contro i vaccini è nato nel 1853 quando il governo inglese rese obbligatorio il vaccino contro il vaiolo: già all’epoca si registrò una forte opposizione legata alla naturopatia, o medicina alternativa, che si opponeva alla medicina tradizionale che all’epoca in molti casi era effettivamente tossica. Sembra rimanere nello scetticismo nei confronti dei vaccini questa antica diffidenza nei confronti di sostanze curative ma percepite come impure. In altri ambienti, come le classi popolari, si trattava di diffidenza nei confronti del governo, che ci porta tuttavia al punto centrale attorno a cui ruotano gli altri: molti storici dell’immunizzazione collegano la fiducia nella scienza in questo ambito non solo ai progressi fatti dalla medicina nella prima metà del Novecento (pensiamo all’invenzione degli antibiotici o della penicillina), ma soprattutto alla nascita dei moderni sistemi sanitari. Nel caso del vaccino contro la poliomielite, che segnò il punto più alto di adesione ai programmi di immunizzazione, si incontrarono una forte domanda di salute da parte della popolazione e la capacità dei ministeri di coordinare delle campagne su larga scala. In Gran Bretagna, dove il servizio sanitario nazionale era stato istituito nel 1948, e dove l’anno prima la poliomielite aveva assunto le dimensioni di un’epidemia, la domanda era tale che nel periodo che va dall’introduzione del programma di vaccinazione nel 1956 all’introduzione del vaccino orale nel 1962, il governo fu aspramente criticato per non essere stato in grado di fornire il vaccino a tutti coloro che lo desideravano.

Un articolo uscito per la testata statunitense Vox nel 2022, che ripercorre la storia dell’esitazione vaccinale, con una maggiore attenzione al contesto statunitense, giustamente traccia un parallelo tra le opposizioni presso la classe operaia inglese nell’Ottocento, che neanche poteva votare ma che riceveva ordini dal governo, e una popolazione attuale, quella americana, che anche sembra restia a seguire le direttive delle autorità che pretendono «senza dare molto in cambio». «Dopotutto, gli Stati Uniti non hanno un Servizio Sanitario Nazionale come quello istituito dalla Gran Bretagna dopo la Seconda Guerra Mondiale: molti americani non hanno l’esperienza di un governo che provvede effettivamente alle loro esigenze sanitarie». Per comprendere l’esitazione vaccinale e la sfiducia nei confronti dell’establishment medico è necessario tenere a mente anche quanti non accedono ad alcun servizio, a quanti vivono in zone in cui non esiste neanche una farmacia, a quanti non hanno praticamente mai messo piede in un ambulatorio medico.
Questa “esitazione”, che nei paesi ricchi segna una netta inversione rispetto alle richieste di salute della metà del secolo scorso, con il riaffacciarsi di malattie definite “vittoriane” come il colera, il morbillo, la sifilide, la gotta e persino la lebbra – negli Stati Uniti si è da poco registrata la prima morte, di una bambina, causata dal morbillo in dieci anni – tiene insieme alcuni tratti che sembrano contraddirsi e che rivelano forse, invece, proprio il tramonto dell’idea di pubblico che ha definito i sistemi sanitari di cui abbiamo fatto esperienza nel passato recente. La povertà estrema menzionata sopra, l’assenza di risorse, può andare di pari passo alle direttive neoliberali di introiezione del pubblico – ognuno per sé – che si esprime in ambito vaccinale anche in quella relazione con la gestione individualizzata e personalizzata con la medicina che caratterizza le classi più abbienti. È in questo senso che la diminuzione della domanda di salute in ambito vaccinale che è andata crescendo nei decenni scorsi si è espressa nella forma del “diritto di scegliere” per la salute dei propri figli, realizzando il ritiro privatistico della cittadinanza che corrisponde allo smantellamento dei servizi pubblici e l’idea di salute pubblica che la accompagna. La pandemia da Covid-19 non ha fatto altro che esplicitare la crisi di un’idea di pubblico nella maniera più letterale, se è vero che il primo significato della vaccinazione e della mascherina non è proteggere esclusivamente sé stessi, bensì proteggere sé stessi per non contagiare chi non può proteggersi, ovvero persone fragili o con un sistema immunitario compromesso. La privatizzazione della salute comporta anche il suo cambiare di segno: il passaggio per esempio da una concezione di prevenzione legata a interventi ambientali a un’idea di prevenzione tutta basata sul rischio, al centro della biomedicina e delle sue tecniche a cui si accede avendo risorse a sufficienza. Non è un caso che ciò si accompagni allo smantellamento di quell’“ordinarietà” che molti hanno potuto dare per scontato e che è stata invece il frutto di dure battaglie e campagne storiche per l’introduzione di tecniche che hanno radicalmente migliorato la vita della popolazione tutta. Il non-evento per eccellenza che segna la nostra modernità è il raddoppio dell’aspettativa di vita. Uno studio pubblicato su Lancet ha calcolato che i vaccini hanno salvato circa 154milioni di vite negli ultimi cinque decenni. Secondo Steven Johnson, autore di Extra Life: A Short History of Living Longer, la più grande conquista della modernità, ovvero la riduzione della mortalità, soprattutto infantile, ebbe una portata radicalmente egualitaria perché fu alimentata da progressi infrastrutturali di cui beneficiò l’intera popolazione, non solo le élite. Oggi il caso statunitense è emblematico, con la messa in discussione di cose come la fluorizzazione dell’acqua (l’aggiunta di fluoro all’acqua potabile che previene l’incidenza di malattie dentarie) o la pastorizzazione del latte (la recente moda di bere latte crudo). Sono alcuni dei punti al centro dell’agenda dall’attuale segretario del Dipartimento della Salute Robert Kennedy Jr. che lavora in questo senso allo smantellamento del pubblico. Purtroppo ciò va di pari passo all’aumento di gruppi desiderosi di stabilire da sé, se vogliamo, quali siano i determinanti della propria salute.

Una ricerca italiana sulla semplificata rappresentazione della dicotomia “pro-vax”/“no-vax” ha elencato alcune delle istanze che rendono più complesso lo «spettro di “critici” o “esitanti”, variamente concentrati su aspetti più specifici della vaccinazione: le varie forme di obbligatorietà, le somministrazioni plurivalenti, la composizione dei vaccini, la calendarizzazione della somministrazione o la “personalizzazione” della politica vaccinale». Si tratta tuttavia, anche, di un elenco che rende palpabile l’aumento del carico di lavoro individuale quando viene meno la fiducia nella divisione sociale del lavoro come produttrice di conoscenza, quando cioè ci si trova a dover, o voler, valutare individualmente cose come la composizione dei vaccini o la calendarizzazione della somministrazione. La confusione tra saperi settoriali e specialistici e il senso comune che sostiene la vita collettiva è spesso oggetto di scherno, ma in una maniera contraddittoria. Si prende in giro la maniera in cui le persone si improvvisano esperte in campi altamente tecnici, a seconda di quale sia l’evento al centro della discussione pubblica, quasi mai rilevando che un atteggiamento del genere è in realtà incoraggiato se non richiesto dall’ideologia pervasiva dell’informazione, cioè da quell’idea secondo cui le scelte razionali sono compiute in condizioni di disponibilità di informazione, quando nella vita quotidiana questo è quasi mai il caso, quando cioè le azioni che compiamo quotidianamente sono quasi sempre coadiuvate dal sapere, e un saper fare, di altri, su cui facciamo affidamento. Ma se la dismissione del pubblico eleva a massime cose come l’obbligo di sottoporre le notizie a verifica, l’invito a dubitare pressoché di tutto, il dubbio, se non proprio lo scetticismo, emerge come indice di intelligenza e di coscienza critica. L’incoraggiamento di comportamenti antisociali rende lecito chiedersi in che relazione stanno queste “direttive” con il fenomeno più generale della polarizzazione, che sembra essere una fondamentale incomunicabilità su questioni che ci riguardano collettivamente.
I vaccini potrebbero essere il significante per eccellenza della polarizzazione se intendiamo questa, paradossalmente, come il prodotto dell’assenza di conflitto politico, che si trasforma in “litigio”, e della riduzione del politico a una questione di conoscenza (di epistemologia) – meccanismo visibile persino nei movimenti di contestazione che tendono a pensare il conflitto in termini di descrizione più o meno corrispondente alla realtà, da cui il prevalere del tema del riconoscimento, e non in termini di un modo di agire che modifica la realtà, dove ciò che sarebbe propriamente nuovo lo è nella misura in cui non corrisponde ad una realtà già data. Fenomeni come la polarizzazione attorno alla questione dei vaccini, con tutto il loro armamentario argomentativo – ricerca di prove, l’uso degli eventi a conferma di ipotesi ecc. – può essere dunque letto nel contesto della specificità di quella che è stata chiamata razionalità neoliberale, alla luce della sua particolare “epistemologia”, e alla luce del ruolo contraddittorio che questa assegna alla conoscenza. Per un verso la conoscenza è contrastata con un’idea di senso comune letta attraverso la categoria dell’errore, a cui sarebbe esposta la sensibilità percettiva – quell’osservazione in prima persona –, per altro è elevata a norma questa stessa esperienza in prima persona quando si tratta della figura dell’esperto, la cui razionalità sarebbe superiore a quella degli individui comuni. Questo paradigma, che usa strumentalmente alcune delle pratiche che strutturano la ricerca scientifica, è applicato alla politica, al fine di legittimare una concezione meritocratica della società, l’idea che si accede alla partecipazione politica solo se in possesso di determinati requisiti. La tecnocrazia contemporanea può essere definita come il governo che indica su basi di competenza non politica, ma scientifica e tecnica, i fini e i mezzi dell’azione sociale. La decisione sulla vita collettiva è sottratta a questa stessa collettività dal momento che la cosa pubblica è ora di pertinenza di esperti.
La discussione sui vaccini è allora palesemente non solo un sintomo di una generale crisi delle istituzioni ma uno dei luoghi migliori per cogliere il modo in cui l’uso strumentale della razionalità scientifica da parte del capitalismo si traduce nella perdita di fiducia nella stessa scienza, che si trova al centro di imperativi contraddittori. In un volume recente, la filosofa e psicoanalista Alenka Zupančič coglie questa contraddizione quando sottolinea che la nostra credenza sul fatto che la scienza dica il vero non è essa stessa “scientifica”, infatti «anche se la maggior parte di noi non ha la possibilità di verificare (o falsificare) le scoperte e le teorie scientifiche, le prendiamo per vere (“crediamo ciecamente” in esse) perché sono socialmente riconosciute ed etichettate come “scientifiche”. Accettare qualcosa come vero perché la scienza dice che è così è diverso dal modo in cui la scienza stessa opera, affidandosi al principio del dubbio e della falsificazione piuttosto che su un’Autorità esterna. Questa differenza è spesso offuscata nei dibattiti contemporanei sui social media, in cui il rifiuto di accettare l’autorità sociale della scienza è giustificato invocando il metodo della sua autorità scientifica, il principio del dubbio e della falsificazione». «In questo modo la scienza diventa la giustificazione per non avere fiducia nella scienza. Questa è una tipica confusione tra l’autorità sociale della scienza e la sua autorità scientifica». Questo è precisamente il motivo per cui la società nel suo insieme non può funzionare come una comunità scientifica, estendendo il principio della falsificabilità a un mondo ridotto alla dimensione della pura fattualità.
Zupančič legge le varie forme di messa in discussione dell’affidabilità della scienza e dei legami sociali impliciti nelle relazioni di fiducia contrapponendo queste a una forma di negazionismo più sottile e impercettibile che attraversa le nostre società. Non ha senso leggere isolatamente fenomeni quali il dubbio radicale del complottismo senza cogliere la sua funzione speculare in relazione all’altro polo della polarizzazione. Il volume in questione, infatti, si chiama Disavowal, che può essere tradotto come disconoscimento. Mentre nel caso di forme di negazioni definite “irrazionali” si tende a esaltare una porzione della normalità straniandola – quell’identificazione apparentemente senza ragioni di un fatto tra milioni di altri fatti altrettanto asignificativi – il movimento contrario opera una straniamento speculare, una de-realizzazione o relativizzazione che funziona per mezzo della feticizzazione della conoscenza che serva ad allontanare il suo oggetto: pensiamo al cambiamento climatico, alla mole di dati che abbiamo a disposizione e di discorsi, che tuttavia operano come schermo consentendo all’oggetto di rimanere intatto, e a noi di rimanere impassibili. È così che neanche gli eventi più drammatici ci scuotono, perché la loro conoscenza li normalizza, smette di possedere quella qualità traumatica che squarcia la realtà. In questo senso, allora, anche il mondo è post-fattuale: «non nel senso che non ci siano più fatti, al contrario, ci sono solo fatti, “fatti e basta” che non hanno più il peso del reale».
È evidente che dall’interno di questa polarizzazione non si restaura quella tessitura irriflessa, sapere comune, base sociale di fiducia nelle conoscenze e nelle capacità degli altri, che non può essa essere dimostrato perché precede qualsiasi “fondazionalismo” e che sola dà senso al dubitare. Il punto è piuttosto invertire il processo di smantellamento, “richiesto” dal capitalismo, delle strutture che istituzionalizzano quel comune, il pubblico che mette a riparo la popolazione tutta dalle derive delle scelte individuali e dalle imposizioni di una minoranza.

Emma C. Gainsforth

Traduttrice, è dottoranda presso l’Università degli Studi di Salerno con una ricerca sugli effetti delle economie delle piattaforme sul giornalismo. Ha collaborato con Il manifesto e ha fatto parte della redazione di Dinamopress.