Saba Anglana e Anna Maria Gehnyei. Riflessioni sull’identità
di Sara Casini
L’ultimo appuntamento della rassegna Il mondo è quadrato e saltella ha come titolo Una questione di identità, vede ospiti Saba Anglana e Anna Maria Gehnyei, in arte Karima2G, mentre la moderazione è affidata a Aziz Sawadogo. Il confronto è estremamente vivace, e fin da subito, vede definirsi sul palco due approcci diversi al problema dell’identità, che pure riescono a comunicare tra loro, approcci diversi in cui ho voluto vedere (sia il lettore a smentirmi) l’espressione di diverse generazioni: se Anglana fa della propria identità uno strumento con cui giocare e da cui aprire una riflessione collettiva, Gehnyei ne ricerca le specificità e le rivendica facendo della propria individualità una forza.
Anglana e Gehnyei sono entrambe cantanti, performer e scrittrici. La prima domanda di Sawadogo verte dunque sul modo in cui l’avere origini africane (Gehnyei è di origini liberiane mentre Anglana, nata in Somalia, ha madre etiope) abbia influito sul modo di rappresentarsi e dunque esprimersi.
Anglana descrive l’identità (ogni identità, non solo la propria) come un “mixer”: «hai dei tasti che fai salire e scendere e sono ad esempio ‘tasso di europeismo’, ‘tasso di etnicità’, il supereffetto ‘etnofiction’, l’effetto ‘intellettuale’, l’effetto ‘spettacolo’ e tu calibri tutto questo a seconda delle situazioni in cui ti trovi. A causa di questo vizio di forma non hai ben presente cosa tu sei al netto di questa sala comandi. Attraverso la scrittura ho compreso che quello strumento è molto creativo: possiamo divertirci con la nostra identità se non ne siamo assillati». Esiste, insomma, uno scarto tra chi siamo e chi pensiamo di essere, chi mostriamo di essere e come veniamo percepiti, e in questo passaggio da una versione all’altra di noi può rientrare una componente ludica. «Entriamo e usciamo da forme identitarie che spesso sono anche funzionali rispetto a quello che facciamo», prosegue Anglana. La percezione dell’identità come uno strumento fluido, la cui malleabilità è necessaria per lo sviluppo della creatività, corrisponde a quanto detto da Moni Ovadia nel primo di questi incontri: è ancora una volta la contrazione dell’identità in strutture ben definibili ad accompagnare l’irrigidimento del pensiero.
Gehnyei nel rispondere alla stessa suggestione parte da una prospettiva individuale, autobiografica, sottolinea l’influenza del padre nella sua scoperta della propria identità africana, sottolinea la parola “eredità”, rivendica l’importanza di riscoprire le proprie radici. «La mia necessità di fare musica, di fare danza e di scrivere – spiega – penso sia dovuta a una necessità profonda di esprimere tutta una storia che è più grande di me e mi sta guidando». Gehnyei istituisce un legame profondo con la propria storia, intesa come storia legata strettamente al sangue, per cui ricercarla significa risalire la corrente del tempo attraverso le generazioni. Se per Anglana l’identità è fluida perché indefinibile, figlie di molte culture in un mondo i cui confini ormai sfuggono, per Gehnyei è forse molto più strutturale, e deve essere ricomposta attraverso la ricerca delle proprie origini familiari.
La seconda suggestione proposta da Sawadogo è se il corpo sia politico o politicizzato, se la componente destabilizzante del corpo nero nella società europea sia imposta dall’esterno o sia una rivendicazione interna. Per rispondere a questo quesito ci viene in soccorso il libro pubblicato da Gehnyei, Il corpo nero (Fandango 2023), anch’esso autobiografico; una narrazione che mette al centro del riconoscimento della propria identità proprio la corporeità. Il corpo è un fatto che determina le esistenze delle persone. «Io sono politica – spiega Gehnyei –. Nel momento in cui nasci in un contesto principalmente bianco, in cui non c’è rappresentanza, tu sei per forza di cose ‘politica’».
Anglana si sofferma sulle differenze anche linguistiche che accompagnano i corpi neri in una società bianca: «Nelle antologie leggo spesso ‘scrittrice afrodiscendente’ e mai ‘europodiscendente’; in qualche modo viene messa maggiormente in luce la nostra componente africana. Io penso che questo venga pericolosamente imposto». La risposta immediata, forse banale, a questa considerazione potrebbe essere che si sta parlando di antologie italiane (il libro, La signora meraviglia, Sellerio 2024, non ha al momento traduzione in altre lingue), e che dunque la lente è necessariamente eurocentrica; tuttavia relativizzare il proprio punto di vista e riconoscerne la faziosità sia pure involontaria, o dettata dal contesto, è un’operazione estremamente utile.
Riporto qui per intero la risposta di Anglana, perché ben descrive l’altro tema su cui si impernia il conflitto con l’approccio di Gehnyei, ovvero l’utilità o la pericolosità delle definizioni: «Sulla pancia io ho la linea alba, quella linea che corre verticalmente lungo il centro dell’addome, e in me – che ho madre etiope e padre italiano – questa linea divide il corpo in una parte più chiara e in una parte più scura. Quand’è che il mio corpo diventa politico? Quando cammino culturalmente nel nostro Paese in bilico su questa linea. Significa che ho un atteggiamento scomodo, di sintesi, tra le due parti. Mentre nella nostra società non ci sono mezze misure: io assumo il mio mandato politico che è anche cromatico proprio nella costante, quasi ossessiva necessità di trovare una sintesi totalmente personale tra queste due parti. Significa che sei troppo bianca per i neri e troppo nera per i bianchi. Spesso le seconde generazioni rivendicano una componente di orgoglio che deriva semplicemente da una componente cromatica o di discendenza geografica, ma l’orgoglio te lo devi guadagnare. Io rifiuto l’idea di rappresentare una parte, io sono un essere umano che si nutre di tutte le sue parti».
La conversazione, a questo punto, si fa accesa: le definizioni sono impoverenti per Anglana e necessarie per Gehnyei. Questo rimanda forse a un discorso più ampio, per cui l’attivismo giovanile degli ultimi anni (che si esprime spesso attraverso i social media) pone spesso l’accento sulla necessità di definizioni che permettano l’identificazione e dunque il riconoscimento delle differenze, nella speranza tuttavia che tali definizioni cessino in futuro di essere rilevanti. Contemporaneamente, l’altro grande perno sembra essere l’assenza di una prospettiva politica collettiva, e infatti Gehnyei afferma: «Spesso i movimenti di attivisti di seconda generazione per avere potere hanno bisogno di associarsi con dei partiti politici, quando secondo me la forza nasce da noi stessi». Ancora emerge insomma una diversa prospettiva di decolonizzazione culturale, che passa (almeno inizialmente) attraverso la sola autoaffermazione: «Oggi si sente il desiderio di essere identificati come seconda generazione o afrodiscendenti: secondo me questa è una fase necessaria perché almeno finalmente veniamo visti. Dammi la definizione, poi sta a te decidere cosa farci con questa definizione».
Altro punto di confronto è la diversa esperienza delle due scrittrici: se, fa notare Gehnyei, si è figli di immigrati c’è l’esperienza di essere straniero nel proprio Paese, di dover combattere anni per poter ottenere la cittadinanza italiana, lotta che diviene spesso un trauma, mentre se si è figli di coppie miste, ci si confronta con il razzismo ma non si vivono le medesime problematiche burocratiche. Si rintraccia qui un altro importante nodo: la legittimità di parlare di esperienze che non abbiamo necessariamente vissuto in prima persona. Ancora una volta, Anglana aspira all’universalità, impernia la riflessione su un livello filosofico che non ammette incursioni strettamente personalistiche, mentre Gehnyei sottolinea la necessità di dar semplicemente voce a chi vive le discriminazioni. Il confronto si sposta saltuariamente su altri temi (tra cui la discriminazione attuata secondo Anglana contro i non vaccinati durante l’emergenza covid), ma il perno rimane da un lato, per Anglana, la necessità di uscire dalle polarizzazioni, dall’altro, per Gehnyei, la necessità di rivendicare le proprie specificità identitarie e farne forza politica.
A fine dibattito si apre lo spazio per le domande; e sono molte. Gehnyei racconta la propria esperienza nelle scuole, con laboratori che aiutino i ragazzi e le ragazze a ricostruire le proprie origini e trovarne la ricchezza. Anglana invita a non spegnere la propria curiosità, a spingersi fuori dalla propria comfort zone e esplorare culture differenti dalla propria, sottolinea ad esempio l’importanza di esplorare nuove lingue e sonorità. Nella sala religiosamente silenziosa, Anglana canta poi Tezeta, canzone in amarico che significa “nostalgia”: ancora una volta, e senza bisogno di articolarlo con parole discernibili dal pubblico italiano, esprime perfettamente l’aspirazione all’universalità.
Interessante poi la domanda «l’Italia è un Paese razzista?», cui Gehnyei ancora risponde riflettendo la propria esperienza personale: «Io pensavo che fosse uno dei Paesi più razzisti. In questi anni ho girato diversi paesi e ho capito che il razzismo è ovunque, è qualcosa che ha a che fare proprio con l’essere umano, quindi non posso dire che l’Italia è più o meno razzista di altri Paesi». Anglana, invece, ne fa una questione più ampia: «Chi ha il patentino di razzista e chi no? Il razzismo più interessante da sviscerare è quello endemico e profondo, è quello dentro le persone che hanno il patentino di benpensanti, che pensano di stare dalla parte giusta e si credono portatori di valori inclusivi. Il nostro è un Paese e un popolo culturalmente ricchissimo ma che sta perdendo tutte le sue radici buone e dunque bisogna lavorare per ritrovare queste buone radici».
L’ultima domanda chiude simbolicamente un ciclo di incontri nato dalla suggestione di Ngugi wa Thiong’o: «Quanto il fatto che l’Africa sia un continente con tantissime lingue e dialetti fa sì che queste lingue non arrivino e arrivino solo gli scrittori che scrivono in inglese o francese?». La lingua non è uno strumento neutro: scrivere nella lingua del colonizzatore è talvolta consapevole (si pensi a Chinua Achebe, autore nigeriano che ha sempre pubblicato in inglese, pur considerandone la contraddittorietà nel saggio English and the African Writer) e talvolta un’involontaria presa di posizione. Rispondono due scrittrici che hanno scelto di scrivere in italiano, che non è lingua coloniale tuttora parlata come il francese o l’inglese, ma che, in quanto europea, “ha più dignità” delle lingue africane. Gehnyei sottolinea come i fatti linguistici siano in movimento: «in Italia abbiamo una generazione di ragazzi che fa mix tra lingua d’origine e lingua della città in cui vivono: oggi in Italia non abbiamo soltanto una lingua».
È dunque con la speranza di una continua reciproca contaminazione che si chiudono i tre incontri de Il mondo è quadrato e saltella: almeno a Capannori, almeno per qualche ora, il mondo si è dimostrato poco quadrato e, per fortuna, eccezionalmente saltellante.
Sara Casini
Laureata in italianistica, si è occupata di critica teatrale all’interno della rivista Lo sguardo di Arlecchino. Oggi lavora come libraia, ha scoperto una passione per gli albi illustrati e si occupa saltuariamente di teatro e poesia.