Scuola
di Vanessa Roghi
Quando usiamo la parola classismo per riferirci alla scuola, ma anche all’università, ci riferiamo a un sistema nel quale ad essere premiati, comunque ad andare avanti, sono coloro che appartengono a classi sociali “privilegiate”. Classi benestanti, colte, anche se le due cose non vanno necessariamente insieme, classi, comunque, che dispongono di strumenti materiali e culturali per superare le difficoltà che si presentano durante un percorso scolastico “normale” e consentire di portare a termine non solo il ciclo degli studi dell’obbligo, che si colloca a metà del percorso della secondaria di secondo grado, ma anche l’università.
Questo classismo non è un fatto nuovo e non sta “tornando” nella scuola semplicemente perché non ha mai smesso di esistere complessivamente, anche se in alcuni momenti storici o in alcuni luoghi si è attenuato e ancora oggi continua a non essere prevalente. Mi riferisco, per esempio, al momento in cui la scuola a tempo pieno negli anni Settanta è stata istituita consentendo a generazioni di persone, me compresa, di recuperare un divario con i propri genitori, soprattutto le proprie madri, che difficilmente la scuola precedente avrebbe colmato. Oppure, parlando della nostra contemporaneità, delle scuole nelle quali si portano avanti “sperimentazioni” sulla valutazione che tengono insieme meglio e più a lungo i gruppi classe evitando, per l’appunto, che chi può vada avanti e chi non può venga lasciato indietro. Perché, ovviamente, ieri come oggi, la selezione determinata da una valutazione di un certo tipo è uno degli strumenti più scontati ma meno discussi del classismo implicito del nostro sistema scolastico.
Il voto viene usato troppo spesso per selezionare e non per educare. Quella che viene definita valutazione formativa, insomma, non ha fatto breccia in tutti gli ordini scolastici sebbene se ne parli da almeno settant’anni e ha contribuito e contribuisce a mantenere una distinzione che è profondamente classista. Il voto infatti non misura il merito ma, nella gran parte dei casi, le condizioni culturali e materiali della persona che viene valutata.
Che la nostra scuola sia, infatti, fondata su un principio meritocratico secondo il quale i migliori vanno avanti non solo è falso ma addirittura ridicolo, questo almeno fino a quando esisteranno, ad esempio, le ripetizioni private.
Una ricerca della Fondazione Einaudi a cura di Lorenzo Castellani e Giacomo Bandini del 2016 riportava che metà degli studenti delle scuole superiori dichiara di avvalersi di ripetizioni private oltre l’orario scolastico. Aggiungendo anche che il 90% di esse non erano dichiarate al fisco. Un giro d’affari sommerso che superava gli 800 milioni di euro l’anno.
Oggi la situazione non è migliorata, manca una ricerca come quella del 2016 ma abbiamo i dati riportati da un sito online che fornisce ripetizioni, ripresi dal Sole 24 ore: «I dati del primo quadrimestre 2024, che coincide con la seconda parte dell’anno scolastico, vedono un +117% di richieste dal Molise, un +51,7% dalla Calabria, +52,6% dalla Basilicata. +40,8% dalla Liguria. Più contenuto il Lazio con un +6% di ragazzi che hanno chiesto aiuto. In controtendenza la Lombardia con un -2%, -4.5% l’Emilia-Romagna, -3% la Toscana, dove sembra raggiunta la saturazione del mercato o, quantomeno, una stabilizzazione della domanda. In Campania, la riduzione del 4,4% sarebbe, invece, più legata a una diminuzione del potere d’acquisto delle famiglie».
E non si parla di ragazzi e ragazze che frequentano le scuole secondarie di secondo grado. Le ripetizioni si prendono da prima. Cosa c’è di più classista di una scuola che tollera questo?
Ne scriveva già don Lorenzo Milani con i suoi ragazzi in Lettera a una professoressa, il saggio del 1967 che per la prima volta nella storia d’Italia descrive chiaramente il classismo a scuola: «Buttiamo giù la maschera. Finché la vostra scuola resta classista e caccia i poveri, l’unica forma di anticlassismo serio è un doposcuola che caccia i ricchi. Chi non si scandalizza delle bocciature né delle ripetizioni e qui avesse qualcosa da ridire non è onesto. Pierino non è nato di razza diversa. Lo è diventato per l’ambiente in cui vive dopo la scuola. Il doposcuola deve creare quell’ambiente anche per gli altri (ma d’una cultura diversa)».
E ancora: «Ci sono dei professori che fanno ripetizioni a pagamento. Invece di rimuovere gli ostacoli, lavorano a aumentare le differenze. La mattina sono pagati da noi per fare scuola eguale a tutti. La sera prendono denaro dai più ricchi per fare scuola diversa ai signorini. A giugno, a spese nostre, siedono in tribunale e giudicano le differenze». E nessuno dice nulla, oggi come ieri. Eppure dicono i ragazzi di Barbiana, se un impiegato comunale dicesse: «Qui i certificati li avrà tardi e inservibili. Le consiglio di andare da qualcuno che li fa in casa a pagamento». Cosa accadrebbe?
È chiaro, dunque, che parlare di classismo in un sistema che consente questo ma che questo non nomina mai è profondamente ipocrita. Si rischia di dare la colpa delle ingiustizie di classe, di volta in volta, alla mano invisibile del mercato, del neoliberismo, addirittura del Sessantotto, per evitare di dire che probabilmente i mezzi autocorrettivi per limitare, se non azzerare le differenze di partenza, la scuola ce li avrebbe tutte al suo interno.
Riforma radicale della valutazione, riforma dei cicli scolastici, doposcuola per chi ha bisogno.
Certo, senza dubbio, la società nel suo complesso è sempre più classista, e la scuola che ne è parte non può sfuggire a questo progressivo disfacimento di un sistema di welfare che per qualche decennio ha regolato le profonde ingiustizie derivanti dalle differenze di classe: le scuole e le università pubbliche in Italia sono sempre state competitive rispetto alle private, e questo ha consentito e continua a consentire a migliaia di ragazzi e ragazze di accedere all’insegnamento superiore, ma i problemi non mancano se poi si vuole continuare a studiare. Il costo delle università non è tanto quello delle rette quanto quello della vita nelle città universitarie, ormai diventate luoghi inavvicinabili. Il classismo allora va ricercato lì, nella scelta deliberata da parte delle amministrazioni locali di lasciare mano libera al turismo selvaggio che respinge fuori insegnanti, infermieri, impiegati con stipendi medi, ma soprattutto studenti.
È evidente, dunque, come in un contesto simile la parola merito diventi la pietra angolare intorno a cui ragionare di “nuovo classismo”: perché oggi il progetto politico egemone è quello di nascondere dietro al concetto astratto di merito, lo smantellamento della scuola pubblica così come la abbiamo conosciuta negli ultimi cinquant’anni. Certo, ci sono studenti che riescono a superare ogni difficoltà e a portare a termine il ciclo degli studi superiori e dell’università senza fare ripetizioni, con borse di studio, esonerati dalle tasse e magari con un alloggio universitario. Ma quanti sono? E quanto si infrange il loro sogno di uguaglianza quando accanto a sé trovano coetanei che frequentano master da 30.000 euro?
Quello contro il merito non è un complotto, per citare il titolo di un libro di Marco Santambrogio di qualche anno fa, ma una battaglia sacrosanta contro la formazione di un’élite che si racconta come il prodotto di un percorso alla pari con chi i mezzi non ce li ha.
Vanessa Roghi
Vanessa Roghi è storica, ricercatrice indipendente e autrice di programmi di storia per Rai Tre. Per Laterza ha pubblicato La lettera sovversiva. Da don Milani a De Mauro, il potere delle parole (2017), Piccola città. Una storia comune di eroina (2018) e Lezioni di Fantastica. Storia di Gianni Rodari (2020).