Il lavoro culturale

di Alessandro Toppi

Re. Elaborazione grafica di A. Moretti

In premessa
Se rifletto sul classismo di getto penso al mainstream e alla reiterazione degli stereotipi: le coppole delle fiction Mediaset sulla Calabria e la Sicilia, i fenomeni da baraccone inseriti qui e lì nei talent, come un tempo si faceva coi mostri delle fiere. Venghino signori venghino a vedere com’è ridicolo il disagio. E penso alla capacità che ha il mainstream di risucchiare ogni forma di alterità per metterla a profitto (il rap diventato sotto-categoria del pop; la diversità oppositiva di Mercoledì degli Addams – chi davvero fa spavento? – riconiugata in un balletto) o di ostentare per interessi propri il kitsch altrui: per quanto ancora Real Time trasmetterà le cerimonie di un castello posto da mesi sotto sequestro, lucrando sull’immagine falsa ma diffusa e resa dunque maggioritaria per cui a Napoli e in provincia è così che si festeggia? Le giacche oro sui pantaloni neri, i cantanti neomelodici e i piatti di pasta e patate con la provola: quanto si abbuffano, stateli a guardare. Ma di getto mi sembrano classisti anche alcuni tentativi artistici che sono gonfi di pensiero e di buone intenzioni: l’autoreferenzialità di certe proposte sceniche che non hanno né capacità né coraggio o voglia di condividere (la coreografia incomprensibile, la prosa che ricerca solo adepti e operatori); gli itinerari teatralizzati nei quartieri più difficili (ricordo con fastidio ancora un Wolkabout con Mario Martone, andando verso Tango Glaciale Reloaded al Nest di San Giovanni a Teduccio: si passava tra le vele, rese celebri dal Maradona di Jorit, come tra le gabbie di uno zoo: «Signora, ci dica, perché ha le grate alle finestre?»); le contraddizioni che porta in sé il teatro partecipato, messe in fila da Claire Bishop in Inferni artificiali (Luca Sossella editore, 2015): la furbizia di mantenersi in equilibrio tra estetica e sociale, non assumendosi la responsabilità piena né dell’una né dell’altro; l’uso continuativo di praticanti non pagati; l’idea che gli ultimi debbano fare la scena non essendo – diciamocelo – capaci di osservarla, contemplarla e di capirla. «Gli mancano proprio gli strumenti», mi hanno spiegato ai margini di un laboratorio. Ma tutto questo, mi dico, è l’esito. Mentre forse occorre tornare a scrivere non della produzione – rilanciando il perenne commento che facciamo degli spettacoli offerti a ciclo ormai continuo – ma del possesso o della gestione dei mezzi produttivi invece, a cominciare dal denaro.

«Qualche cosa di soldi te la danno o no?»
In una recente due giorni dedicata alla critica teatrale (o alla scrittura applicata ai fatti della scena, se si vuole) si è discusso di forme e contenuti tra web e cartaceo, di quanta visione finisce in un articolo e di come una recensione si colloca nel bailamme informativo, di funzione sociale dell’arte, impegno divulgativo, giornalismo votato in pedagogia. Illusioni perdute di Balzac, Antonin Artaud e Peter Brook, i tempi belli della Terza Pagina o di Franco Quadri (quando ancora ci sembrava di contare qualcosa) e le priorità divulgative, i libri femministi che non abbiamo letto, l’influenza di Goffredo Fofi sui più giovani. Ma non si è parlato di soldi, non di quanto guadagna chi scrive di teatro, non di come ci si mantiene. Non ne ho parlato neanche io, non pubblicamente. Ai margini invece, per strada, bevendo un aperitivo o al tavolino di un bar a colazione: i settanta euro lordi a pezzo, quando va bene, se firmi da freelance per “Il Sole”, “Il Manifesto”, “la Repubblica” o “La Lettura” del “Corriere”; i centocinquanta che ti offrono per moderare un weekend sulla curatela e farne poi report per un sito, i contratti settimanali o mensili anche se stai a Rai Radio, la naturalezza con cui un editore chiede una prefazione dicendo «ci faresti l’onore?». Gratis o quasi, s’intende. Dominati definitivamente dalle conseguenze del capitale, rimuoviamo l’argomento con la stessa evasività con cui i personaggi di Čechov suonano la chitarra invece di affrontare ciò che li addolora, ed evitiamo dunque di farci i conti a vicenda: come avessimo vergogna della fatica che facciamo, come se le nostre condizioni di partenza o attuali fossero identiche. «Ci alziamo alle sette del mattino, preparo il caffè mentre mio marito fa la doccia e si veste. Facciamo colazione, poi mi dà un bacio ed esce mentre io inizio a scrivere». Il 25 gennaio 2015 Ann Bauer – romanziera, saggista – pubblica su “Salon” un pezzo in cui descrive la propria organizzazione quotidiana: lo stipendio manageriale del consorte le permette di dedicarsi alla scrittura, tra una seduta di yoga a mezzogiorno e un bicchiere di vino alle diciannove. Nessun elogio della dipendenza maritale, nessuna arrendevolezza di genere: Bauer ha conosciuto povertà economica e precarietà contrattuale e da sola, con tenacia, impegno e qualità letteraria, ha ottenuto riconoscimenti e notorietà: la condivisione invece ad alta voce – mutati i dati di realtà – delle sue condizioni lavorative. «Tutta questa rivelazione è volgare, lo so», ma «la conversazione sui soldi (e sui privilegi) è quella che non abbiamo mai». Convinta, come Virginia Woolf (Una stanza tutta per sé) che «la libertà intellettuale dipende dalle cose materiali», insiste: «bisogna parlarne». Se non con l’incedere con cui Nanni Moretti interroga Cristina Manni sul prato di Ecce Bombo – «che lavoro fai?», «come campi?», «l’affitto?», «i vestiti?», «il mangiare?», «e questa sigaretta?»; lei risponde che fa cose e vede gente – almeno con la concretezza delle prime pagine de L’abusivo (Marsilio, 2001), in cui Antonio Franchini racconta di Giancarlo Siani (ucciso per inchieste sulla camorra fatte senza contratto, per pochi spiccioli e da «schiavo», come lo definisce un cartello messogli sulla scrivania de “Il Mattino”): torna insomma Franchini dal teatro in cui ha intervistato Walter Chiari, ha il viso segnato dalla stanchezza, in cucina la madre gli fa compagnia mentre lui mastica gli avanzi della cena e la frutta ossidata poi, prima di andare a dormire, gli chiede: «Ti fanno fare le due di notte, ti fanno mangiare a quest’ora, qualche cosa di soldi te la danno o no?».

Il classismo interno. Sulla piramide teatrale, ad esempio
Ne La fortezza vuota (Edizioni dell’Asino, 2014) Massimiliano Civica e Attilio Scarpellini scrivono che «a fare il teatro italiano bastano i direttori dei grandi teatri». Determinano infatti la popolarità, la visibilità e il successo (anche di critica) degli artisti ed «esercitano questa prerogativa decidendo quali spettacoli produrre, mettere in abbonamento, far circuitare e scambiare»: a cominciare da quelli di cui firmano la regia naturalmente. «La bontà di questa analisi» – sostengono – «è comprovata da un fatto: tutti i registi sani di mente bramano di diventare direttori di un grande teatro», prima o poi. Sanno infatti «che è la via più breve per fare il successo dei propri spettacoli». E per decidere la sorte di quelli altrui. D’altronde indicano talvolta testi e argomenti su cui lavorare, dettano le condizioni produttivo-contrattuali (consapevolmente restrittive) e arrivano a imporre un nome o parte del cast se la controparte è fragile. Ti sta bene? Perché ho la fila fuori l’ufficio e sono tutti pronti ad accettare. Il vertice della filiera è costituito da un Teatro d’Europa (Piccolo di Milano) e sette Nazionali (Veneto, Torino, Genova, Emilia Romagna, Toscana, Roma, Napoli) che ora hanno un direttore generale e un direttore artistico, ora una conduzione in cui le cariche coincidono. Complessivamente una direzione (ci) costa tra i 120.000 e i 250.000 euro annui lordi. La sezione “Trasparenza” dei siti parla chiaro: dai 188.000 euro più 20.000 di componenti variabili per Claudio Longhi a Milano; al Veneto: 90.000 euro più 21.332 di indennità di risultato e 2.438,52 di rimporsi viaggio nel 2023 per Claudia Marcolin, direttrice generale, cui aggiungere i 60.000 euro più 15.000 di alloggio e i 5.000 massimi di spese di viaggio per Filippo Dini, direttore artistico. Altri esempi: i 124.999,94 euro più «bonus 10.000, premio straordinario produttività 12.000, viaggi/missioni 4.898,31» nel 2023 per Filippo Fonsatti (direttore esecutivo) cui sommare i 67.500 euro e i 12.500 massimi di rimborsi di Valerio Binasco (direttore artistico) a Torino; i 120.000 di Roberto Andò a Napoli; i 160.000 a Marco Giorgetti e i 100.000 di Stefano Accorsi a Firenze. Quando sono registi vanno calcolate anche le prestazioni artistiche (fino a tre annue, tra nuove realizzazioni e riprese), autofinanziate con soldi pubblici.
Nessuno spasmo anti-verticistico, sia chiaro: si tratta di ruoli apicali, che chiedono grandi assunzioni di responsabilità e la capacità di coordinare strutture complesse, valorizzare professionalità eterogenee e coniugare parità di bilancio e aspirazione alla qualità creativa. Un fatto tuttavia: quella che la Treccani nella voce “Classismo” definisce “classe monopolistica” è teatralmente costituita da una trentina di persone, ampliabile a colleghi (soprattutto) e colleghe (rare) con ruoli simili anche se di minor prestigio o compenso: direttori di festival e fondazioni di valore riconosciuto, manager che passano da una Capitale della Cultura all’altra, chi dirige un Circuito regionale. Sono la punta della piramide sotto cui sta una fascia stretta di contrattualizzati (spesso dopo decenni di precariato) a tempo indeterminato: esperti dell’area produzione, professioniste in comunicazione e marketing, manager amministrative, funzionari operativi. Poi viene la base, ampia eterogenea e disgregata, costituita da teatranti, tecnici e organizzatrici indipendenti. Che stando a Vita da artisti – ricerca sulle condizioni di lavoro e di vita dei professionisti dello spettacolo realizzata nel 2017 da CGIL e Fondazione Di Vittorio (questionario anonimo, online per sei mesi, 3.856 risposte di cui 2.193 valide, il 60,5% sono attori e attrici) – studiano per appartenere al settore di competenza, proseguono a spese proprie la formazione, sono disponibili (spesso/sempre) a lavorare fuori sede e hanno conoscenze pratiche che esulano dal ruolo (un attore o un’attrice cresciuta in compagnia, ad esempio, sa occuparsi anche dell’allestimento scenico, dell’organizzazione, dell’amministrazione economica) e tuttavia – nonostante l’alto grado di preparazione – lavorano in maniera intermittente (solo il 18,8% è impiegato in maniera continuativa), guadagnano poco (il 51,4% fino a 5.000 euro annui lordi), sono retribuiti in ritardo rispetto a quanto scritto nel contratto (il 25% è pagato con puntualità) e – pur avendo per committenti innanzitutto le istituzioni pubbliche – conoscono l’impegno forfettario, la paga in nero e la prestazione gratuita. Non basta: subiscono soprusi e ricatti, svolgono ore di lavoro non conteggiate e, se si infortunano, tacciono per paura di essere sostituiti definitivamente. Convinti che a contare non siano merito e qualifiche formali ma la rete di contatti (96,9%), certe che per essere scritturate sia decisivo innanzitutto «accettare le condizioni proposte» (95,1%), si definiscono e sono dunque lavoratrici subordinate in condizione di precarietà e lavoratori autonomi con scarse tutele (totale: 84,8%) e fanno concretamente il grosso del teatro in programma anche stasera.
Ecco, mi pare che ragionare di classismo imponga innanzitutto di rimettere sul tavolo e con chiarezza le condizioni materiali in cui si realizza quotidianamente il lavoro (raccontare dei soldi e dei privilegi di cui dice Ann Bauer, insomma): perché disvela i rapporti di forza interni a un settore e aiuta a comprendere le ragioni di alcune dinamiche. Un esempio? L’induzione a una spietata concorrenza orizzontale (a una conflittualità non più di classe ma tra pari dunque) – è «la lotta di tutte contro tutte», per dirla con La fiera delle vanità di Thackeray – per cui si compete per un debutto, una residenza, la menzione in un concorso drammaturgico, due o tre repliche in sala piccola, alla minima, a fine stagione. L’esempio opposto? La propensione conservativa di certe leadership per cui si scambia l’esperienza con la durata («Chi raggiunge una posizione di vertice sente di aver superato il proprio limite di competenza e di possibilità: quando diventa consapevole di non aver più mercato all’esterno diventa insostituibile, determina il blocco dello sviluppo della propria istituzione e la esclude dal naturale turn-over che dovrebbe invece (ri)animare ciclicamente tutte le istituzioni» afferma Felice Scalvini, citato da Renato Quaglia in Lavoro culturale e occupazione, a cura di Antonio Taormina, Franco Angeli, 2021; leggo Scalvini e da napoletano penso ad esempio ad Alfredo Balsamo, direttore del Teatro Pubblico Campano dal 1983, e a Ruggero Cappuccio, destinato a dirigere undici edizioni del Campania Teatro Festival) oppure l’immobilismo assume la forma del passaggio di poltrona per cui quest’anno Marche Teatro emana una manifestazione d’interesse per la direzione che prevede come criterio «almeno cinque anni come direttore di Teatri di Rilevante Interesse Culturale o Nazionali» (escludendo così in premessa ogni ricambio) o Luca De Fusco, che ottiene la direzione del Teatro di Roma dopo aver già diretto gli Stabili di Veneto, Napoli e Catania. La logica della consorteria o del “clan”, la gestione privatistica dei ruoli pubblici che – per dirla con Renato Quaglia – «riduce le possibilità di crescita professionale, lavorativa ed economica della stragrande maggioranza professionale, che rimane costretta negli scomodi limiti della sussistenza per mancanza di possibilità di sviluppo», sclerotizza negli anni l’offerta e obbliga i più a rimanere «manodopera creativa».
Da un lato c’è dunque lo sfruttamento delle risorse collettive per carrierismi singoli (di fatto ci sono registi che da decenni si autoproducono spettacoli con i soldi pubblici); dall’altro si registrano invece «uno straordinario spreco di energie, la compressione potenziale di saperi e attitudini e un dispendio ingiustificabile di esperienze e qualità».

Sul campo di battaglia
Il teatro assume rilievo nell’articolo perché è il settore di cui mi occupo. Ma basta tornare al 20 marzo 2020 per ridurre il palco-centrismo del ragionamento: Fondazione Fitzcarraldo pubblica un report dedicato agli invisibili che, simili alle maestranze di casa Bennet (Orgoglio e pregiudizio di Jane Austen) che Jo Baker scova e narra in Longhourn House (Einaudi, 2014), tengono in piedi il sistema culturale: sono tra 230.000 e 270.000 i lavoratori e le lavoratrici che «pur costituendo il nerbo della produttività intellettuale del paese» agiscono in termini di aleatorietà contrattuale, quasi fino ad essere impercepibili. Eppure, come i nuovi schiavi di cui scriveva (da precario) Alessandro Leogrande, stanno tra noi, anzi siamo noi: la guida turistica che ci accompagna tra le calli di Venezia o gli scavi d’Agrigento, la traduttrice del libro che abbiamo sul comodino, il bibliotecario che ci sta compilando la scheda del prestito, la maschera che ci accompagna alla poltrona del Lirico, l’archeologa impiegata ai margini del museo e l’autore del romanzo che avete tra le mani, l’archivista che passa le giornate in emeroteca, la voce che sentite alla radio, la costumista che cuce l’abito di scena, la drammaturga che non riceverà quasi nulla per il testo in programma nel weekend, il critico che ha appena inviato via mail la recensione alla rivista online che non paga. Siamo lo stadio carnale, de-stipendiato e presente del lungo percorso finalizzato a ridurre le spese realizzative d’un oggetto che nel contempo va dato in quantità crescente. Conseguenza capitalistica («Ogni nuova invenzione che permette di produrre in un’ora ciò che finora si produce in due ore deprezza tutti i prodotti dello stesso genere che si trovano sul mercato», scrive Marx in Miseria della filosofia nel 1847: parafrasando, spiegami perché dovrei retribuirti quanto un giornalista di quarant’anni fa se posso ottenere lo stesso numero di righe a un decimo del compenso?), ha subito un’accelerata dagli anni Novanta col New Public Management britannico, diffusosi in tutta l’Europa occidentale, per cui «la preoccupazione dei costi per l’intervento pubblico, combinata con la difficoltà a coglierne con precisione i risultati» ha spinto «con particolare incisività soprattutto nei servizi “immateriali” quali sociale, cultura e sanità, allo sviluppo di una nuova cultura del risultato nell’azione amministrativa» (Fabrizio Panozzo, in Le politiche per lo spettacolo dal vivo tra Stato e Regioni, a cura di Marina Caporale, Daniele Donati, Mimma Gallina e Fabrizio Panozzo, Franco Angeli, 2023). Per intenderci, gli atteggiamenti che associavamo ai privati appartengono anche alle istituzioni: tra questi ci sono la compressione della filiera produttiva e l’ottimizzazione del costo-lavoro. Fai in fretta, col budget che ti ho concesso e senza lamenti. Altre conseguenze? L’impiego del lessico aziendale (è la rinominazione commerciale del reale), l’applicazione di logiche da marketing all’erogazione dei servizi pubblici, la proliferazione dei bandi per la selezione e la realizzazione dei progetti e l’applicazione dei criteri quantitativi per la valutazione d’investimento, impatto e risultato per cui – coi soldi che lo Stato ti dà – devi fare quanto più possibile e conteggiarlo: che tu sia un editore o stia organizzando una rassegna. È chiaro, se penso al teatro: dalle stagioni piene di spettacoli usa-e-getta (morti in sede cioè, senza possibilità di ripresa e tournée) cui il Ministero spinge Nazionali, Teatri di Rilevante Interesse Culturale e Centri di Produzione ai massimali imposti alle compagnie in cambio dei soldi, ai festival – fenomeno ideale per leggere il neoliberismo applicato alla cultura, secondo Zigmunt Bauman (Per tutti i gusti, Laterza, 2011) – che da occasione contro-sistemica rischiano di diventare l’avanguardia d’applicazione delle tendenze più cruenti del sistema stesso: l’uso reiterato del volontariato per bilanciare l’esiguità delle risorse, l’extra-farcitura dei programmi e la sottopaga data ad artisti che, nell’illusione d’incontrare operatrici e critici che influenzino la vita di uno spettacolo al debutto, vanno in scena anche “a perdere”. Ma vuoi mettere la possibilità della vetrina che ti ho dato? Oppure, oltre-palco, pensate ai libri che non saranno mai a scaffale o a «l’orgia consumistica delle mostre» di cui scrivono Tomaso Montanari e Vincenzo Trione in Contro le mostre (Einaudi, 2017), tra curatori seriali e direttori di musei asserviti alla politica, che sradicano l’arte dal suo contesto, sviliscono le opere e chi le ha realizzate, s’inventano percorsi acchiappa-turisti, offrono surrogati d’esperienza, badano alla cassetta o al ritorno comunicativo da spendere col sindaco, il ministro o il Presidente di Regione: visto quanta gente ti ho portato? Che ne dici di un reincarico?
Insomma e per chiudere. Così come Fabrizio ne La certosa di Parma sogna le battaglie, Napoleone e la rivoluzione e si ritrova tra sangue, morti e polvere, il furto di un cavallo e i soldati con le viscere da fuori, forse abbiamo pensato al campo dell’arte come a «un’esistenza alternativa» (Josef Brodskij, Fuga da Bisanzio). Ci siamo sbagliati. Qui vigono le stesse regole che stanno là fuori. Non fanno vittime, ma affaticano e tolgono il sonno ugualmente. E prenderne atto, cifre alla mano, mi è sembrato l’unico modo per dirlo.

Post Scriptum. Chiudo il pezzo, apro il giornale. “La Repubblica” ha in prima pagina un commento di Massimo Giannini, intitolato In nome della classe operaia, che non è scomparsa ma «suda e muore», nei campi e nei cantieri tanto quanto in una ex-fabbrica Toyota in cui, dopo due cadaveri, gli 870 sopravvissuti sono stati messi in cassa integrazione. Leggo, poi spacco il quotidiano giusto nel mezzo, a pagina 23 e trovo l’intervista di Valeria Pini a Emma Ruzzon, presidente del Consiglio degli studenti di Padova: l’anno scorso definì lo studio “una gara”, durante l’inaugurazione dell’anno accademico. Dice ora: «Tutto è incerto: chissà se avremo un lavoro, se potremo mantenerci fuori casa, quando andremo in pensione, se potremo vivere nelle nostre città e come cambierà la nostra vita a causa del cambiamento climatico. Ci verrebbe da arrabbiarci, ma non capiamo come farlo».
Già, come ci si arrabbia? Come si fa?

 

 

Alessandro Toppi

Alessandro Toppi, giornalista, è direttore responsabile de La Falena, semestrale edito dal Teatro Metastasio di Prato, redattore di Hystrio, trimestrale di teatro e spettacolo, e collaboratore delle pagine napoletane de la Repubblica.